Una scienza a brandelli: sopravvivenze delle dottrine del tempo ciclico dal Timeo all’Apocalisse

di Andrea Casella
copertina: William Blake, illustrazione per la Divina Commedia di Dante Alighieri

Nel primo articolo di questo ciclo [cfr. Il tempo ciclico e il suo significato mitologico: la precessione degli equinozi e il tetramorfo], abbiamo detto che, a intervalli regolari, a causa della precessione, si verificano, nei quattro punti cardinali dell’anno, alcuni avvicendamenti di costellazioni. Questo è il motivo per cui i testi sacri parlano di certe “catastrofi” che determinano una qualche “sommersione” di una vecchia “terra” e il sorgere di una nuova (ciò almeno fino a un certo tempo della storia). Ogni età del mondo ha la sua “terra”, ossia il suo piano dell’eclittica, delimitato dagli equinozi e dai solstizi, che emerge dal “mare”, ossia dal piano di demarcazione dell’equatore celeste. Quando i punti dell’anno vengono determinati da altre costellazioni sorge sull’orizzonte una “terra” nuova, mentre quella vecchia sprofonda sotto il livello del mare.

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L’anima mundi e la croce: il Timeo di Platone

Platone (Timeo 36 b – c – d) dice che il Demiurgo compose l’anima del mondo a forma di X (lettera greca chi) e unendo poi tra loro i quattro vertici nel punto opposto alla prima intersezione, formando così due cerchi concentrici (cosiddetti cerchi dell’identico e del diverso), reciprocamente inclinati di qualche grado (a forma di X è anche il simbolo dell’azteca Tlazolteotl, con il serpente e il centopiedi intrecciati, “rappresentazione del cielo e della terra”; similmente il corpo di Tiamat è sezionato in due parti da Marduk “come si separano le valve di un mollusco” a formare, da una parte, il cielo, dall’altra, la terra e il mare). All’uno il Demiurgo impresse il movimento dell’identico (da sinistra a destra, cioè in senso antiororario), all’altro il movimento del diverso (da destra a sinistra, cioè in senso orario). Questa struttura basilare, questo “scheletro” dell’anima, potremmo dire, è identica allo schema grafico dell’intersezione dell’equatore celeste con l’eclittica: al primo possiamo attribuire infatti il cerchio dell’identico, mentre alla seconda il cerchio del diverso.

Essi, pertanto, contrariamente a quanto pretende Guénon (cfr. Il simbolismo della croce cap. 6 nota 9) non esprimono concetti di natura metafisica intesi come “principi primi” (si tenga presente, del resto, che Platone sta descrivendo non il modello eterno, ma la copia), bensì elementi empirici di natura schiettamente cosmologica (per specificazioni: Timeo, ed. BUR pp. 204 – 205). Certo la precisa individuazione del senso di rotazione dei cerchi ha dello straordinario, visto che che, effettivamente, la terra (e quindi la stessa linea dell’equatore) gira in senso antiorario, mentre il senso di rotazione del corso apparente della volta celeste (e quindi anche dell’eclittica) è orario. Quel che ne viene fuori, dalla descrizione platonica del cosmo, è una vera e propria sfera armillare, quella medesima sfera il cui solido platonico più affine è il dodecaedro regolare (simbolo dell’etere, o quinto elemento), di cui il Demiurgo (Timeo 55 c) “si servì per decorare l’universo con figure di animali” (lo zodiaco).

Tralasciando ogni ipotesi sull’origine della sapienza di Platone (e dei Pitagorici che di certo gliela trasmisero) osserviamo che i dati tradizionali conducono a fare questa tripartizione: il cielo a nord del Tropico del Cancro, che è il “cielo” propriamente detto, dimora degli dei; il mondo abitato dello zodiaco, compreso tra i due tropici, dimora dei vivi (la “terra” di cui s’è detto); il cielo a sud del Tropico del Capricorno, l’Oceano d’acqua dolce (o Mare di Latte), il regno dei morti. Sotto il “mare”, nell’emisfero australe, si trova la porzione di eclittica a noi invisibile con il suo polo, che è come “sommersa”, data la sua inclinazione rispetto al piano dell’equatore celeste. Qui sono situati gli Inferi. Dice Virgilio (Georgiche I, 242 – 243):

“Questo polo è sempre alto sopra di noi; ma l’altro, sotto i nostri piedi, lo vedono il nero Stige e gli inferi Mani”.

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L’Apocalisse di Giovanni

È sorprendente come questa terminologia sia conservata nell’Apocalisse di Giovanni. Il mistagogo-astrologo Giovanni (Ap. 5, 1 – 5) parla infatti di coloro che non sono in grado di aprire il libro sigillato con sette sigilli, “nessuno, né in cielo, né in terra, né sotto terra”. Nessuna costellazione può porsi stabilmente a “regnare” nel libro del cielo, “sigillato” con i sette pianeti: solo l’Agnello/Ariete vi riesce. Più avanti il mistagogo dice (Ap. 21, 1): “Ed io, Giovanni, vidi un nuovo cielo ed una nuova terra. Infatti, il cielo e la terra di prima erano scomparsi; neppure il mare c’era più“. Cielo, terra e mare: tutte e tre le allegorie della volta celeste ritornano. L’Apocalisse sembra proprio parlare di un rinnovamento che ha luogo nella volta celeste e di cui è principe l’Agnello, o Ariete equinoziale.

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Il rinnovamento, però, implica un collegamento tra ere diverse, e così l’Agnello, che però è anche il Pesce (Ichtys) dell’Era dei Pesci, dichiara che (Ap. 21, 6): “Tutto è compiuto. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine“. In quel momento (Ap. 21, 9 ss.) il mistagogo-astrologo vede discendere dal cielo la Nuova Gerusalemme (la Terra Pura), definita “fidanzata dell’Agnello”. Dato interessante è che questa città sia “quadrangolare; la sua lunghezza è quanto la larghezza” (Ap. 21, 16), ed ha tre porte per lato, per un totale di dodici (Ap. 21, 13): sono le dodici costellazioni zodiacali, con agli angoli i segni equinoziali e solstiziali. L’Agnello chiude così la vecchia era, e idealmente si pone a regnare per i secoli dei secoli. Non c’è più bisogno degli antichi cicli: il tempo che girava insieme al cielo viene arrestato nei suoi ingranaggi dall’Agnello (Ap. 21, 22 – 23):

Ma io, Giovanni, tempio non vidi nella Gerusalemme Celeste: il Signore Dio, l’Onnipotente, insieme all’Agnello, è il suo tempio. E la città non ha bisogno della luce del sole o della luna: la gloria di Dio infatti la illumina, e l’Agnello ne è la lampada”.

Da questa breve disamina (che tralascia volutamente altre allegorie di sicuro interesse, come le sette chiese dell’Asia, simbolo dei sette pianeti [Ap. 2 – 3], o i quattro cavalieri, simboleggianti le quattro stagioni [Ap. 6, 1 – 7]) si è potuto rilevare come il mythos, forse per l’ultima volta nella storia, abbia prodotto una descrizione organica degli eventi celesti (pur con intento scopertamente escatologico) e di come esso, se non si possiede un’adeguata chiave di lettura, rimanga oscuro e sia suscettibile di venir travisato.

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Mircea Eliade.

La fondazione del tempio, della città, del Mondo

Ma non è tutto, come ampiamente dimostrato da Eliade, lo stesso atto della fondazione di edifici, templi, città, rappresentava, presso le società tradizionali, una ripetizione della cosmogonia primordiale, in una sorta di palingenesi cosmica riportata sul piano terrestre. E così, ogni edificio o spazio sacro costituiva lo specchio di qualcosa che risiedeva nel cielo. Le città babilonesi avevano il loro archetipo fra le stelle: Sippar nella costellazione del Cancro; Ninive nell’Orsa Maggiore, Assur in Arturo ecc. Il Tempio di Gerusalemme, a detta di Flavio Giuseppe, faceva corrispondere alle sue tre parti le tre regioni cosmiche: il cortile rappresentava il “mare”, ossia le regioni infere; la santa casa rappresentava la terra e il santo dei santi il cielo; le dodici parti che si trovavano sulla tavola erano i dodici mesi dell’anno: i sette bracci dei dieci candelabri rappresentavano i Decani (cioè la divisione zodiacale dei sette pianeti in decine). Fondando il Tempio “non si costruiva solamente il mondo, ma anche il tempo cosmico” (cfr. Il mito dell’eterno ritorno pp. 105 – 106).  Tutto ciò che è costruito sulla terra imita, in qualche modo, la struttura del cosmo. Ed è questo un principio che sopravvisse fino al medioevo con i Costruttori delle Cattedrali, la cui preoccupazione per gli allineamenti astronomici è cosa nota.

Non è un caso, allora, che la periodica distruzione di un “mondo” si riferisca, nell’apparenza descrittiva di catastrofi naturali, a un mutamento nell’ordine costituito degli astri. Se “crolla” il cielo, crolla, di conseguenza, anche la terra. Tutti i miti del mondo, più o meno, conservano tracce dell’antica sapienza astronomica relativa agli sconvolgimenti postati dalla precessione. Essi, però, a causa della dimenticanza e del trascorrere delle ere, non sono più organici, ma rimescolati alla rinfusa in storie e leggende di spirito eterogeneo. Da un certo punto in avanti, dice il Dupuis (L’origine di tutti i culti, Vol II, p. 55): “Il filo delle cognizioni astronomiche era perduto, e con gli avanzi delle antiche favole gli uomini si limitavano a comporre delle leggende, senza neppure comprendere il significato delle favole stesse”. Questa è di certo un’eco di ciò che lo stesso Platone asseriva (Politico): “Tutte queste cose” Platone si accinge a discutere delle epoche precedenti, in cui gli astri giravano in direzione contraria “traggono origine da una medesima condizione, e, oltre a queste, innumerevoli altre e ancora più meravigliose di queste, ma per la quantità di tempo trascorsa alcune di esse sono andate perse, altre invece ci sono giunte in ordine sparso e si narrano ciascuna separata da un’altra”.

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Particolare del Toro mitraico: lo Scorpione ne aggredisce i testicoli, mentre il Serpente (la costellazione dell’Ofiuco) e il Cane (la costellazione del Cane Maggiore con Sirio) lo attorniano.

L’uovo e lo scorpione

Un buon esempio di come le antiche immagini cosmologiche finirono per essere successivamente rimaneggiate e piegate ad altre finalità, pur senza perdere del tutto il loro senso originario, ci viene dal Vangelo. In Luca 11, 12 si legge: “Quale padre, tra voi, se il figlio gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”. L’immagine si ricollega d’intuito ad un’opposizione tra vita e morte all’interno della pietas familiare: l’uovo, nutrimento, dà la vita, lo scorpione, velenoso, dà la morte. Il senso è chiaro, se non fosse per l’impressione di una dicotomia talmente esagerata da sembrare quasi ridicola. In verità, la sentenza, per come scritta, affonda le sue radici nell’astrologia. Nei misteri mitraici l’uovo è un simbolo dell’unità primordiale del Tutto e si connette direttamente alla forma sferica dello zodiaco.

Come narrato nell’Avesta (cfr. a tal proposito Dupuis, L’origine di tutti i culti Vol. II p. 12 ss.) il cosmo avrebbe la forma di un uovo suddiviso in dodici parti, sei delle quali appartengono ad Ahura Mazda e sei ad Ahriman. Le sei parti di Ahriman (incarnazione del serpente d’inverno) sono i mesi che vanno dall’equinozio d’autunno all’equinozio di primavera (autunno-inverno). Come già spiegato nella prima parte [cfr. Il tempo ciclico e il suo significato mitologico: la precessione degli equinozi e il tetramorfo], per circa duemila anni il sole sorse all’equinozio d’autunno nella costellazione dello Scorpione (simbolo di morte anche perché, secondo un altro aspetto, è situato sull’incrocio esatto tra eclittica e galassia): era quello il momento in cui le tenebre sembravano avere il sopravvento sulla luce, facendo calare sul mondo il freddo e le brume. Il principio malvagio sarebbe stato sconfitto solo in primavera, con l’avvento del relativo equinozio, che cadeva sotto il segno del Toro. Plurime sono le raffigurazioni di Mitra che sacrifica il Toro di primavera, i cui testicoli (chiara matrice vitale e generativa) sono aggrediti proprio dallo Scorpione.

Il Vangelo non ha fatto altro che prendere a prestito un antico concetto astrologico per immetterlo nel contesto allogeno di una narrazione dalle finalità prettamente spirituali e moraleggianti. Ciò, d’altronde, non comporta che l’immagine ne risulti del tutto vuota, poiché coloro che scrissero il Vangelo, nella perfetta consapevolezza di quel che facevano, intesero conservarne il senso ultimo al fine di renderlo fruibile alla generalità dei consociati, mediante una contrapposizione apparentemente infantile e grossolana. Se si considera per un attimo a quali classi sociali venne indirizzata la predicazione del Cristo, una tale operazione di volgarizzazione appare del tutto giustificata. Questo intenzionale “camuffamento” è proprio del linguaggio del mythos.

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Bibliografia:

  • Charles – Francois Dupuis: L’origine di tutti i culti (compendio), Martini 1862
  • Giorgio de Santillana – Hertha von Dechend: Il mulino di Amleto, Adelphi 2003
  • Mircea Eliade: Il mito dell’eterno ritorno, Borla 1975
  • René Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi 1975
  • Angelo Tonelli, Eleusis e Orfismo, Feltrinelli 2015
  • Platone, Timeo, BUR 2014

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