Ioan P. Culianu: lo sciamanesimo iperboreo dell’antica Grecia

copertina: Ilyas Phaizulline, “Orpheus at the Empire of the Dead”


Introduzione

a cura di Marco Maculotti

Quando si parla di «sciamanesimo» [I], solitamente si tende a pensare a quello siberiano [II], da cui il termine stesso deriva, o a quello himalayano, che spesso si sincronizza con la tradizione buddhista e/o induista, o ancora a quello delle popolazioni native del Nord America, del Messico e delle Ande, nonché a quello degli aborigeni australiani. Più raramente si sottolinea l’importanza che hanno avuto le pratiche sciamaniche per i popoli indoeuropei, nonostante le fonti classiche non siano povere a tal riguardo.

Sappiamo ormai per certo che gli Sciti [III] delle steppe eurasiatiche praticavano lo sciamanesimo e il sacrificio del cavallo, rito poi adottato anche dalle popolazioni nomadi della Mongolia. Egualmente, Celti [IV] e Norreni [V] non ignoravano tecniche di tipo estatico, tanto è vero che indizi a riguardo si possono trovare nell’Edda di Snorri e persino nelle saghe medievali successive e nel folklore. Le popolazioni mediterranee, dal canto loro, non furono da meno: Greci e Romani [VI] non solo mantennero, seppure con qualche riserva, le pratiche estatiche e sciamaniche delle popolazioni che li precedettero (ad es. quelle dei Traci e degli Etruschi), ma furono custodi di una tradizione nuova di tipo «solare» (o, per meglio dire, «polare») che Culianu, in questo capitolo della sua opera «I viaggi dell’anima», connette alla divinità di Apollo Iperboreo e a Leuche, l’«Isola Bianca», che nei miti assume ora la denominazione di «Isola dei Beati», ora quella di «Giardino delle Esperidi», ora quella di Avalon.

Facendo un ampio uso delle fonti classiche, Culianu ricostruisce il novero degli iatromanti (così l’autore denomina i «posseduti da Apollo Iperboreo») nella storia dell’antica Ellade e ne mette in luce i poteri tipicamente sciamanici (quali ad es. la catalessi rituale e il viaggio extracorporeo, il dominio sui venti e sulle piogge) e le credenze sull’anima e sulla sua sopravvivenza post-mortem che si riscontrano già nella Scuola Pitagorica (d’altronde Pitagora sarebbe stato uno di questi iatromanti) e che poi influenzeranno anche il platonismo e, aggiungiamo noi, lo gnosticismo.

Ioan Petru Culianu (Iași, 5 gennaio 1950 – Chicago, 21 maggio 1991) è stato uno storico delle religioni, scrittore e filosofo romeno, specialista in antropologia religiosa, storia delle religioni, storia del Rinascimento. Allievo di Mircea Eliade, portò avanti la sua opera ermeneutica della storia delle religioni, fino alla tragica e prematura morte [VII].


[I] Sullo sciamanesimo in generale, cfr. Mircea Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi. Mediterranee, Roma, 1974.

[II] Sullo sciamanesimo siberiano, cfr. Sulle tracce della renna del cielo. Scritti sullo sciamanesimo nordico di Juha Pentikäinen e Anna-Leena Siikala. A cura di Vesa Matteo Piludu. Bulzoni, Roma, 2007.

[III] Sugli Sciti, cfr. Georges Dumézil, Storie degli Sciti. Rizzoli, Milano, 1980.

[IV] Sui Celti, cfr. Jean Markale, Il druidismo. Mediterranee, Roma, 1990.

[V] Sull’estasi tra i Norreni, cfr. Mario Polia, «Furor». Guerra poesia e profezia. Il Cerchio, Rimini, 1970.

[VI] Sullo sciamanesimo tra i Romani, cfr. Leonardo Magini, Sciamani a Roma antica. I Romani e il mondo magico. Castelvecchi, Roma, 2015.

[VII] Culianu fu assassinato dentro il bagno dell’università di Chicago, dove questi insegnava, da un colpo di pistola sparatogli alla testa. Nel periodo precedente alla morte, lo studioso romeno aveva pubblicato svariati articoli e aveva rilasciato diverse interviste in cui criticava apertamente il governo post-rivoluzionario di Ion Iliescu.


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Baron Arild Rosenkrantz, “The Temple”, 1931.

Ioan Petru Culianu
Gli sciamani greci o iatromanti


tratto da “I viaggi dell’anima” cap. VIII.

[…]

Nella Grecia antica vi erano tre divinità, tutte e tre maschili, che potevano possedere varie categorie di persone. Dioniso possedeva le Menadi […]. Ares, il dio della guerra, possedeva gli uomini in battaglia. Apollo possedeva le Sibille. Quest’ultimo inoltre, sotto il nome di Apollo Iperboreo, possedeva una categoria del tutto speciale di veggenti, gli iatromanti (dal greco iatros, «guaritore», e mantis, «profeta»), che si diceva fossero Phoibolamptoi o Phoiboleptoi («posseduti da Febo-Apollo»). Costoro erano gli sciamani autoctoni della Grecia, che raramente, ammesso che lo abbiano fatto, formarono corporazioni.

[…]

In un passaggio degli Stromata (1.21; 200 a.C.) di Clemente di Alessandria [1] sono citati i nomi di alcuni iatromanti: Pitagora, Abari Iperboreo, Aristea di Proconneso, Epimenide di Creta, Zoroastro della Media, Empedocle di Acragas (Agrigento, in Sicilia), Formino di Sparta, Poliarato di Taso, Empedotimo di Siracusa e Socrate di Atene. È interessante il fatto che Clemente considerasse Socrate come uno sciamano. Alla lista, che contiene anche un personaggio immaginario, inventato da Eraclide del Ponto, un discepolo di Platone e Aristotele, possiamo aggiungere pochi altri nomi: Cleonimo di Atene, Ermotimo di Clazomene e Leonimo di Crotone.

Gli iatromanti più illustri sono strettamente legati ad Apollo Iperboreo; il paese degli Iperborei era un territorio settentrionale, descritto da un famoso «viaggiatore dell’aria», Aristea di Proconneso.

Abari viene dal Nord, con una freccia che appartiene ad Apollo oppure sulla freccia di Apollo, probabilmente un raggio di sole (dopotutto Apollo è una divinità solare). I filosofi della tarda antichità riconoscevano in lui un sacerdote di Apollo Iperboreo. Alla fine del VII secolo a.C., secondo alcuni, o alla fine del VI, secondo altri, Abari incontra Pitagora a Olimpia. Quest’ultimo si alza di fronte ai convenuti e mostra la sua coscia d’oro, un simbolo che lo denota, agli occhi di Abari, come un’epifania di Apollo. (A Crotone Pitagora era considerato essere Apollo Iperboreo in persona). Il dialogo simbolico continua: Abari consegna a Pitagora la freccia (o, secondo un’altra versione, è Pitagora che gliela porta via), in segno di sottomissione.

Aristea è il Phoibolamptos (posseduto da Apollo) per eccellenza. Grazie a questa sua intima connessione col dio, egli effettuò un viaggio fino alle terre iperboree, descritto nel suo poema Arimaspeia, che già circolava agli inizi del VI secolo, ma sfortunatamente era scomparso prima della fondazione della biblioteca di Alessandria. Aristea fu colto da morte improvvisa nella bottega di un follatore di Proconneso. Il follatore lo lasciò per andare ad avvertire la famiglia, ma al loro arrivo Aristea non c’era più. È chiaro che egli era caduto in uno stato temporaneo di morte apparente ma che si era poi ripreso. Qualcuno lo vide sulla strada per Cizico. Sei anni dopo, egli fece ritorno a Proconneso per scrivere la sua Arimaspeia; ciò significa che nel frattempo egli aveva viaggiato inoltrandosi il più possibile verso nord. Non ci sorprende, dunque, che nessuna delle decine e decine di teorie formulate in proposito sia riuscita a ricostruire il suo itinerario. Egli non viaggiava in questo mondo, bensì in quello degli sciamani, dei veggenti e dei viaggiatori dell’aria.

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Duecentoquarant’anni dopo, Aristea comparve nuovamente a Metaponto, sotto le sembianze di un corvo, il fedele compagno di Apollo [2]; egli esortò gli abitanti a erigere un santuario in onore del dio e una statua in onor suo. L’oracolo di Delfi convalidò la verità della richiesta e così i due monumenti furono costruiti; Erodoto ci informa che essi erano circondati da allori — le piante sacre ad Apollo. Altri fenomeni testimoniano che Aristea era un estatico, la cui anima poteva lasciare il corpo prendendo forma di uccello (il corvo). Come tale, egli aveva percorso in volo l’immensa distanza che separa la Grecia dalle terre iperboree e ritorno.

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Arnold Böcklin, “Der Heilige Hain/The Sacred Wood” II, 1886.

Una volta stabilita la connessione di alcuni iatromanti con Apollo, possiamo ora procedere con la descrizione di altri aspetti che essi avevano in comune. Solo pochi svolgono tutte le funzioni che, insieme, formano il ritratto dello sciamano greco: stregone (iatros), veggente (mantis), purificatore (kathartes), autore di oracoli (chresmologos), viaggiatore dell’aria (aithrobates), autore di miracoli (thaumatourgos) [3].

Un maestro della deprivazione sensoriale era Epimenide di Creta; da ragazzo, egli si recò nella caverna sul monte Ida (dov’era nato Zeus) e vi dormì per un periodo che secondo gli autori va da un minimo di quarant’anni (Pausania 1.14.4) fino a un massimo di sessanta (Esichio). Secondo Esichio, egli poteva far uscire la sua anima dal corpo e farla ritornare. Secondo Massimo di Tiro (Dissertatio XVI), Epimenide, durante il suo lungo sonno, visitava gli dei, ascoltando le loro conversazioni e imparando «il vero e la virtù» (aletheia kai dike) [4].

Mentre si trovava nella caverna cretese di Zeus, egli vinceva la fame con l’aiuto di una pianta miracolosa chiamata alimos (letteralmente «senza fame») mangiandola a piccole quantità. Abbiamo in altra sede suggerito un’interessante relazione tra i termini alimos e halimos, che differiscono solo nello spirito aspro. Halimos è un aggettivo che deriva dal sostantivo hals, halos, che significa «mare». Come sostantivo, halimos designa una pianta della famiglia delle Chenopodiacee (Atriplex halimus L.), così definita perché cresce vicino al mare. Antifane, un noto autore di commedie del IV secolo a.C., attribuiva ai pitagorici l’uso dell’halimos nella loro dieta.

Anche alimos ha una lunga storia: Erodoto di Eraclea, vissuto nel V secolo e autore di una saga di Ercole, indicava con alimos un «senza fame» che aveva salvato la vita dell’eroe greco Porfirio; nel suo Vita di Pitagora, egli asseriva che anche lo sciamano di Samo mangiava alimos — forse al posto di halimos.

Anche agli iatromanti si astenevano dal nutrirsi: Abari evitava il cibo e si presume che Pitagora sia morto di inedia. Abari, Aristea, Bakis, Ermotimo e Pitagora erano veggenti, capaci di prevedere il futuro. Epimenide fu in grado di predire le guerre persiane dieci anni prima dei fatti e venne ucciso dagli Spartani perché aveva profetizzato il disastro. Abari predisse un terremoto e un’epidemia di peste. Pitagora predisse la comparsa di un orso bianco a Caulonia, la presenza di un cadavere a bordo di una nave e le persecuzioni contro i suoi discepoli di Metaponto. Quattro leggende del IV secolo a.C. attribuiscono prodigi dello stesso genere sia a Pitagora che al profeta Ferecide di Siro. Bevendo l’acqua di un pozzo, i due erano in grado di predire un terremoto; previdero correttamente che una nave, nonostante il mare calmo, sarebbe colata a picco e che una certa città (Sibari o Messene) sarebbe stata conquistata. Infine Bakis previde l’invasione della Grecia da parte di Serse.

Abari, Bakis, Empedocle ed Epimenide erano «purificatori», un’attività che consisteva nell’allontanare il miasma da una città. Con miasma si poteva indicare la peste, ma anche un fenomeno totalmente spirituale, il risultato di un qualche inquinamento morale. Epimenide era il kathartes (purificatore) per eccellenza. Egli allontanò il miasma da Atene al tempo di Solone. Abari purificò Sparta dalla peste e anche Cnosso. Bakis purificò e guarì le donne spartane colte da furore dionisiaco.

Willard Leroy Metcalf (American, 1858-1925), May Night (1906)
Willard Leroy Metcalf, “May Night”, 1906.

Iatromanti come Pitagora, Abari ed Empedocle potevano alterare i fenomeni meteorologici con l’aiuto di incantesimi. Abari riusciva a controllare i venti più potenti, ma questa era in realtà la specialità di Empedocle, che meritò il titolo di alexanemos, «colui che respinge i venti». Infatti egli imprigionava i venti in sacchi di cuoio; prometteva ai suoi discepoli poteri sciamanici sul vento e sulla pioggia e anche la facoltà di riportare dall’Ade le anime dei defunti. Allo stesso modo Pitagora era in grado di placare le tempeste e la grandine e di calmare le  onde del mare. Potrebbe essere questa la ragione del fatto che, in virtù dei suoi poteri sull’acqua, egli sia stato salutato da un fiume dalla voce umana.

Empedocle, Epimenide e Pitagora potevano ricordare le loro precedenti incarnazioni. Epimenide credeva di esser stato Eaco, fratello del re di Creta Minosse. A Creta egli veniva venerato come neos koures, una divinità locale strettamente connessa con Zeus. Grazie al lungo stato di trance nella caverna sull’Ida, egli si guadagnò la meritata fama di esperto in catalessi (morte apparente). Tornato dal suo viaggio presso i Magi orientali, Pitagora trascorse per tre volte nove giorni nella grotta sull’Ida, portandosi Epimenide come guida. Giambico razionalizzò tale leggenda, facendo di Epimenide un discepolo di Pitagora.

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[…]

Pitagora riusciva perfino a ricostruire le vite precedenti degli altri, anche quelle degli animali. Poteva altresì parlare con i morti. Empedocle possedeva una reminiscenza più completa delle sue precedenti incarnazioni, poiché era in grado di risalire anche a quelle vegetali e animali […].

La catalessi era una caratteristica comune a molti iatromanti. Abbiamo già esaminato le singolari tradizioni su Aristea di Proconneso, il famoso viaggiatore dell’aria. Ma l’esperto di catalessi più famoso fu forse Ermotimo di Clazomene, un veggente specializzato in viaggi extracorporei. Come un medium professionale, Ermotimo si stendeva, nudo, sul letto. Entrato in uno stato intermedio tra la vita e la morte, la sua anima lasciava il corpo per visitare vari luoghi, e poi ritornava indietro. Riavutosi dalla trance, il veggente poteva riferire esattamente gli eventi a cui aveva assistito mentre si trovava fuori dal corpo.

Sfortunatamente, durante uno dei suoi viaggi, la moglie consegnò il suo corpo inanimato ai suoi nemici, i Cantaridi, che erano probabilmente una confraternita dionisiaca. I Cantaridi lo bruciarono, privando la sua anima del corpo [5]. A Ermotimo era dedicato un tempio il cui accesso, a causa del tradimento della moglie, erano vietato alle donne.

Il più grande specialista di morte apparente dell’antica Grecia fu Empedocle di Agrigento, fondatore della prima scuola occidentale di medicina, la Scuola siciliana [6].

[…]

Wenzel Hablik, Crystal Castle in the Sea (1914)
Wenzel Hablik, “Crystal Castle in the Sea”, 1914.

Anticamente, visioni o esperienze di morte apparente non erano gli unici fenomeni legati alla medicina, ma anche le esperienze extracorporee di viaggi nello spazio, come nelle leggende di Formione di Crotone e Leonimo di Atene.

[…] Il Dioscuro che ferì Formione fu anche lo stesso che lo guarì. Questa è una caratteristica dell’heros iatros: egli cura il danno che ha arrecato [7]. Questa stessa ambivalenza dell’eroe guaritore ricorre nella leggenda di Leonimo di Atene; anch’egli prese parte alla battaglia di Sagra e fu ferito da Aiace. Come Formione, anche Leonimo consultò un oracolo, il quale gli assegnò un compito molto difficile: doveva andare nell’Isola Bianca (Leuche). Ci vuol poco a capire che Leuche è un luogo ultraterreno, dove gli eroi defunti continuano la loro esistenza. Di luoghi simili, in Grecia, se ne conoscono molti e quasi tutti sono accomunati da specifici riferimenti alla luminosità: Leuche, Licia (l’isola omerica dove l’eroe Sarpedonte fu portato dopo la morte), le rocce di Leucade, che segnavano un punto d’accesso all’Aldilà.

Esistevano anche altri regni ultraterreni, come il paese degli Iperborei, Aithiopis e le Isole dei Beati, tutte accessibili ai defunti, ma non ai comuni mortali. Se questi ultimi volevano visitarle, dovevano in qualche modo sottoporsi all’esperienza iniziatica della morte, dopo di che, come sciamani, sarebbero entrati nell’aldilà in cerca di un fantasma, mossi da scopi chiaramente medici. Qui però i ruoli sono invertiti: lo sciamano non intraprende il suo viaggio nel mondo sotterraneo per ritrovare l’anima perduta di un paziente, ma va piuttosto in cerca di un guaritore ultraterreno, capace di curare le sue malattie. Leonimo trova il modo di raggiungere l’Isola Bianca, dove incontra Achille, Aiace e la bella Elena di Troia. Quando torna ad Atene è guarito.

[…]

Il paese degli Iperborei era il solare paradiso nordico di Apollo. Secondo quanto ci dice Aristea nella sua Arimaspeia, gli abitanti felici del regno di Apollo vivevano fino a mille anni. Uno studioso tedesco ha collegato il nome di Apollo con Abalo e con il termine più prosaico di «pomo» (apple). Abalo era l’Isola dei Pomi, la terra delle Esperidi; la parola medievale Avalon non era che una variante di Abalo, dunque di Apollo [8].

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Gustave Moreau, “The Muses Leaving their Father Apollo to Go Out and Light the World”, 1868.

[…] più ci avviciniamo al nucleo del platonismo, più ci rendiamo conto di quanto gli iatromanti abbiano influenzato le credenze platoniche sull’aldilà, sulla reincarnazione e sui viaggi ultraterreni. […] In un certo senso, la filosofia platonica è essenzialmente una sintesi efficace delle credenze sciamaniche greche, sistematizzate e spiritualizzate.

Il platonismo si basa su un forte dualismo antropologico: gli esseri umani si compongono di un’anima preesistente, immortale e di un corpo perituro. Nel dialogo Cratilo (400c), Platone riporta tutta una serie di giochi di parole per descrivere la relazione anima-corpo, condividendone la maggior parte. Dunque il corpo (sôma) è la tomba (sêma) dell’anima, oppure, giocando su una perfetta omonimia, il corpo (sôma) è come il carceriere (sôma) della prigione dell’anima [9].

L’incarnazione (somatosis) dell’anima è il doloroso castigo dovuto alla caduta. Costrette all’interno del corpo, le anime sono infelici; il loro scopo è quindi di tornare in cielo, da dove sono venute e dove desiderano vivere in eterno, rapite in contemplazione del Mondo delle Idee, che è assoluta Verità, Divinità e Bellezza. Tuttavia questo stato è difficile da raggiungere a causa della corruzione che deriva dal prolungato contatto dell’anima con i desideri del corpo. Da questa relazione dipende come, quando e dove avrà luogo la reincarnazione (metensomatosis) dell’anima.

[…]

Hippolyte Flandrin (French, 1809-1864), Pietà (1842)
Hippolyte Flandrin, “Pietà”, 1842.

Platone condivide la credenza nella reincarnazione con gli iatromanti greci e anche con molti altri popoli che non conoscono l’uso della scrittura. Ciò gli permette di configurare un complesso sistema di pene postume, basato sulla qualità dell’esistenza di ciascuno sulla terra. Chi si è mantenuto sobrio e frugale, concentrandosi sulla vita della propria mente (che è l’immagine speculare del Mondo Intelligibile di cui sopra), sarà inviato a contemplare a lungo le Idee, dopo di che passerà a una ulteriore verifica in una nuova incarnazione. Se l’anima conduce una vita rigorosamente filosofica per tre volte di fila, potrà rimanere in eterna contemplazione.

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Ciò comunque accade molto di rado. Una volta iniziato il movimento discendente, diventa sempre più difficile per l’anima resistere alle urgenti pressioni del corpo. L’aldilà quindi doveva essere in continuo fermento: anime che ascendono e discendono senza sosta, trascorrendo il tempo in cielo o nell’Ade sotterraneo, dettagliatamente descritto nel Fedone. Se le anime alate dei filosofi degni della ricompensa eterna per i loro eccezionali meriti sono poche, altrettanto poche sono quelle dei peggiori depravati che ricevono il castigo perenne nell’Inferno. Per questi ultimi esiste una zona speciale, il Tartaro, luogo di indicibili tormenti da cui non si può fuggire.

La cosmologia platonica è complicata ulteriormente dal fatto che la terra è immaginata concava; il fondo della cavità — dov’è situato il mondo umano — presenta caratteri piuttosto diversi rispetto alla superficie. Questo riprende uno dei principi fondamentali del sistema platonico: ciò che è più in alto è migliore. Conformemente, i pianeti, che sono fatti di fuoco stellare, sono migliori rispetto alla superficie terrestre, e il Mondo delle Intelligenze Ideali è di gran lunga superiore ai pianeti e alle stelle.

La superficie terrestre, chiamata «Vera Terra», è per noi irraggiungibile, ma anche se non lo fosse, non potremmo sopportare questa esperienza, trovandoci come pesci che tentano di respirare aria. Infatti l’etere — l’elemento che sta sulla testa degli abitanti della Vera Terra — sta all’aria come l’aria sta all’acqua. Di conseguenza, coloro che vivono in questo paradiso aereo, che in realtà corrisponde al paese degli Iperborei o alle Isole dei Beati, con l’unica differenza di non trovarsi sulla nostra friabile terra ma al di sopra, camminano sull’aria e respirano etere.

Il fondo delle profonde fenditure della terra in cui viviamo è composto da materia di bassa qualità. La Vera Terra ha invece un suolo di pietre preziose, di gran lunga più pregiate delle nostre; è ricca d’oro e d’argento, di piante e animali meravigliosi. Nel Gorgia (523a e seg.), Platone definisce la Vera Terra come le Isole dei Beati; esse sono popolate da una razza di navigatori dell’aria che godono di un clima mite, non sono soggetti a malattie o decadimento e, nei templi, s’incontrano faccia a faccia con gli dèi: gli dèi infatti non sono altro che i radiosi abitanti dell’etere superiore.

Platone non si accontentò soltanto di usare, trasferendole in cielo, le antiche rappresentazioni sciamaniche di un paradiso terrestre. Nel libro X della Repubblica, per spiegare molti dei segreti dell’universo e dell’Aldilà, ricorse a uno scenario di pseudo-morte che sembra derivare direttamente dalle leggende degli iatromanti. Er, nato in Panfilia, in Asia Minore, figlio del potente Armenio, fu ferito in battaglia, ne riportò una commozione cerebrale e per tre giorni sembrò come morto. Nel frattempo, la sua anima giunse in un luogo al centro dell’universo (verosimilmente la Superficie della Vera Terra), vide anime che scendevano dal cielo e anime che salivano dall’Inferno, vide che queste tiravano a sorte per conoscere il loro destino successivo, vide che venivano purificate da un’alternanza di caldo e freddo e che bevevano l’acqua del Lete (il fiume dell’oblio), apprese la legge della trasmigrazione e vide le eterne sofferenze dell’assassino Ardieo, tenuto nel cerchio più basso del Tartaro come castigo per i suoi imperdonabili crimini. Il corpo di Er stava per essere seppellito quando l’anima fece ritorno e lo rianimò, con grande stupore di tutti i presenti.

Luigi Critone, L' isola dei morti (2012)
Luigi Critone, “L’ isola dei morti”, 2012.

Note:

[1] Clemente Alessandrino (Atene, 150 circa – Cappadocia, 215 circa) è stato un teologo, filosofo, santo, apologeta e scrittore cristiano greco antico del II secolo. È uno dei Padri della Chiesa.

[2] Il corvo è anche, nella mitologia germanico-norrena, il «fedele compagno» di Odino/Wotan, egualmente dio della profezia come Apollo, nonché, nella tradizione celtica, di Lug, che come Apollo ricopre la funzione di Dio della Luce [cfr. La festività di Lughnasadh/Lammas e il dio celtico Lugh].

[3] Tutte queste abilità magiche che si riscontrano nella Grecia antica sono le medesime che si ritrovano ovunque si parli di una tradizione sciamanica, ad es. nell’area mongolo-siberiana, in quella himalayana e tra le «Società di Medicina» dei nativi americani.

[4] Del mito di Epimenide di Creta scrisse anche Karoly Kerényi in K. Kerényi: “Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna”, pubblicato in Miti e misteri, Einaudi, Milano, 1950.

[5] Questa credenza secondo la quale, nel caso in cui il corpo di un estatico venga compromesso mentre l’anima è fuori da esso, il collegamento sottile tra anima e corpo verrebbe spezzato irrimediabilmente, è pressoché diffusa in tutto il mondo.

[6] Su Empedocle, cfr. Peter Kinglsey, Misteri e Magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica. Il Saggiatore, Milano, 2007.

[7] Anche questa ambivalenza funzionale (feritrice/curatrice) dello spirito/dio iniziatore è cosa nota a tutte le tradizioni sciamaniche, in cui sempre si fa menzione di uno «squartamento rituale» o «ferimento iniziatico» del neofita.

[8] Sul tema dell’Isola occulta e del kôma di Apollo presso Avalon (nonché di Saturno-Kronos presso Ogigia) cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”. Su Iperborea o la mitica «Terra Polare Primordiale» cfr. Le radici antiche degli indoeuropei e Patria artica o “Madre Africa”?; cfr. inoltre Giorgio Colli, La sapienza greca I. Adelphi, Milano, 1990; Joscelyn Godwin, Il mito polare. Mediterranee, Roma, 2001; Luigi G. De Anna, Thule. Le fonti e le tradizioni. Il Cerchio, Rimini, 2017; Gangadhar Tilak Bâl, La dimora artica nei Veda. ECIG, Genova, 1994.

[9] Sono concezioni, queste e quelle che seguono, che verranno riprese dagli gnostici prima e da varie correnti “eretiche” cristiane, ad es. i Catari, dopo. Sullo gnosticismo cfr. Le religioni del mistero: soteriologia del culto mithraico e di Attis/Cibele.