Aspetti shamanici nel culto di Ganesha, il nume dalla testa elefantina

Partendo da Airāvata e dal mitologhema del “frullamento dell’Oceano di Latte” per poi giungere fino a Ganesha, Giuseppe Acerbi si propone di individuare alcune corrispondenze esoteriche fra le divinità dalla testa di elefante dell’antica India, Iran, Giappone e Americhe.


di Giuseppe Acerbi
orig. pubblicato sul blog dell’Autore Alle Pendici del Monte Meru

e successivamente ripubblicato su L’Immagine Perduta

Tutto cominciò da Airāvata, l’Elefante Celeste (delle Nuvole), bianco pachiderma nato dallo sbattimento dell’Oceano di Latte. Cosa fosse tale oceano non è mai stato ben chiaro agli studiosi d’induismo, ma affrontando il tema senza la solita pregiudiziale accademica – come hanno fatto a suo tempo certuni [1] – arriveremmo a scoprire che il leggendario sbattimento altro non sarebbe in realtà che la trasposizione mitica d’un fenomeno di spostamento dei poli il quale, pigliando in prestito un’espressione del Grossato, potremmo definire “pendolarismo polare”. Senza però limitarci al parziale riduzionismo astronomico dei due autori citati, che pur ottimi nella loro analisi testuale peccavano di scientismo; infatti, nonostante il riconoscimento dell’importanza nell’antichità dell’astrologia, non facevano di conseguenza lo sforzo necessario per distinguerla dall’astronomia.

Il pendolarismo polare, ha messo ben in evidenza la scuola hancockiana con efficaci e documentate videoregistrazioni, è strettamente connesso alla precessione equinoziale; un fenomeno di retrogradazione che, a sua volta, fa retrocedere lo Zodiaco Solare (o Lunare che sia) di 1° ogni 72 anni e che quindi può essser facilmente preso ad indice del trascorrere dei millennî. Il problema, tuttavia, è che nemmeno dopo aver aggiunto tale spiegazione le cose finiscono qui. Ossia, la dinamica astrale – usiamo questa terminologia neutra per non accreditare ad Ipparco, presunto scopritore ellenico della legge processionale attorno al 130 a.C. secondo gli storici della scienza, ed all’astronomia greca la scoperta d’un fenomeno celeste già invero lungamente noto tanto al Veda quanto all’Ermetismo – non aveva in passato un senso puramente descrittivo; ma era invece collegata a determinati cicli temporali, che la delimitavano appropriatamente e ne evidenziavano l’intrinseca potenzialità simbolica, atta a sollecitare una vasta conoscenza del cosmo.

In altre parole, l’intera vicenda dello sbattimento oceanico inerisce ad un quadro d’eventi primordiale che è precisamente il II Ciclo Avatarico. Vedi al riguardo il nostro articolo sull’argomento [2]. Se in essa è coinvolto il serpente Vāsuki, var. di Ṣeṣa-Anantaè per implicito rimando al Dragone del Nord, l’asterismo circumpolare dominante il perno artico della volta celeste in quel ciclo e posto in generale al centro del suddetto movimento pendolare. Secondo quanto si può dedurre da un semplice calcolo astronomico, all’esaurimento di detto ciclo, così com’è avvenuto ai tempi nostri nel Duemila (quantunque l’apparenza c’inganni), vi è stato un passaggio di dominio dal Dragone alla Polare. Ovviamente, con tutte le implicazioni mitiche relative.

La base cosmologica nell’Apocalisse giovannea del sorgere della Bestia a 10 Corna, incarnazione di Chrónos-Aiôn, è tutta qui, benché la fuorviante interpretazione allegorica del testo stesso alluda a 10 città. Fuorviante, è naturale, per i miscredenti oppure per i profani quali i semplici credenti; che, se sanno andar oltre la lettera, lo fanno solamente su questo piano. Se Vasuki era appunto il Dragone, l’Oceano non poteva esser che l’Artico. Come e dove fosse possibile la vita colà o nei paraggî e quali fossero le terre emerse in quei millennî (il II ciclo fa riferimento al Nordest del mondo, non alla Terra Iperborea, ovvero ad un arco geografico ideale che va grossolanamente dalla Siberia Orientale sin quasi alla Polinesia e da quella zona fino all’Alaska) non è nostro compito ivi stabilire. Il periodo di datazione da tenere in considerazione, astralmente calcolato, corrisponde all’incirca a 56-50.000 anni a. l’E.V.  Né si possono manipolare i temi scritturali a proprio piacimento: l’essenziale è cercare d’intenderli nei loro profondi significati, pur attenendosi formalmente alla lettera.

Il tema che qui affrontiamo è dunque semplicemente uno, la cronologia natale di Airavata e quindi del simbolo elefantesco. Abbiamo spiegato altrove [3] che ciò che appare in India quale attribuzione peculiare di quella terra costituisce al di là d’ogni illusorio etnocentrismo un motivo dotato indubbiamente d’una valenza generale, visto che si riferisce a tempi nei quali ancora non esistevano gli stati territoriali e, secondo quanto ci confermano tanto lo studio filologico della Bibbia quanto quello moderno della Preistoria, non era ancora avvenuta la “confusione delle lingue”; in altre parole, traducendo il tema in termini a noi comprensibili, l’eclissamento parziale del linguaggio simbolico universale. È ad una cultura shamanica generalizzata nell’intero globo [4] che, naturalmente, ci riferiamo. In base all’assioma avatarico nell’ambito d’ogni ciclo vi sarebbe una data Direzione dominante, che si sposterebbe di volta in volta in senso solare. Ripetiamo, la Direzione in questo caso sarebbe quella Nordorientale. Se vogliamo capire i miti dobbiamo attenerci alla logica ad essi inerente anziché stabilire se corrispondano a verità o meno, il che uno studioso serio dovrebbe sempre dare per scontato. Non a caso gli antichi concepivano il mito quale storia vera, seppur condita d’elementi fantastici.

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Rappresentazione tradizionale del cosiddetto “Frullamento dell’Oceano di Latte”.

A riprova della veridicità di siffatto mitologhema del Rimestamento Oceanico sta il fatto che una mitologia affine sia rintracciabile in aree attigue a quella sommariamente delineata: Medio Oriente, Asia Centro-meridionale, Asia Orientale ed America Settentrionale. Basta pensare al dīv Akvān neoiranico (av. Aka Manah), demone dalla testa elefantina e dalle molte zanne, nonostante le miniature persiane lo ritraggano come generico mostro [5]; del Deccan abbiamo già detto, ma anche in area nipponica e nordamericana si conoscono da tempo dei racconti che rammentano da presso il corrispondente mito indiano [6]. Sennonché in quest’ultimo caso era stata scambiata maldestramente da parte degli studiosi della cultura pre-colombiana una testa elefantina per una testa di tapiro, non essendo ancora avvenuto in America il rinvenimento di fossili di mammuth, sicuramente trasmigrati colà per vie artiche. Dopodiché l’enigma è stato chiarito senza più bisogno di ricorrere all’Atlantide, argomento che in un primo tempo aveva pregiudicato il dovuto riconoscimento della presenza di pachidermi nell’arte maya.  Il sol fatto d’essere entrata nel dibattito sull’ubicazione e l’esistenza del continente perduto aveva sino ad allora impedito alla questione d’essere risolta con senno [7].

In India la leggenda del Samudra e dell’Amṛtama(n)thana, il Rimestamento oceanico e la conseguente produzione d’Ambrosia da parte del Kūrmavatāra, compare dapprima nei Brāhmaṇa, poi nell’epica ed in numerosi purāṇa. È il Serpente (Vāsuki) a svellere il Merumandara, la Montagna Cosmica adoperata da zangola per frullare l’oceano come se fosse latte onde ottenere burro, e la Tartaruga (Kūrma) a far da perno inferiore. Il primo funge altresì da corda nello sbattimento, mentre Deva (Costellazioni) ed Asura (Pianeti) ne tengono rispettivamente capo e coda. Il significato cosmologico essendo già stato elementarmente chiarito, risulta evidente quale possa essere il senso spirituale dell’operazione al di là della lettera; visto che Kurma è il II Avatara, avente il compito di mantenere quasi intatto il Dharma nonostante lo scombussolamento generale.  Meno facile invece è comprendere quale sia il senso dei doni secondarî, Ambrosia a parte. Ossia la venuta alla luce del Cavallo Bianco, Uccaiḥśravas, di certo in origine un onagro simile all’<asino> avestico a giudicare dall’espressione. Il riferimento vicendevole va comunque a Canopo, quale polo antartico opposto al Dragone.

Airavata, il Bianco Mastodonte a 4 Zanne, allude viceversa ai solstizî e agli equinozî, divenuti allora per la prima volta evidentemente oggetto di culto. Altri doni, che non stiamo ivi a discutere per brevità, sono infatti: il Sole, la Luna, la Vacca dell’Abbondanza (Surabhi, immagine probabile d’una nuova terra, primo tesoro uscito dal Rimestamento), la paradisiaca Dea dell’Abbondanza (Śrī, la Dea delle Acque — Vāruṇī, cioè Venere — e le Apsaras — Sirene, in quanto essenze delle acque). Oltre ovviamente, come surriferito, all’Amṛta (Immortalità) o Soma (Luce) che dir si voglia ed al Kaustubha (la Gemma dei Desiderî = Cuore). Ciò indica la prima forma, attiva, di meditazione e conseguente contemplazione. Per contro simultaneamente spunta fuori il Kālakūta, un terribile veleno recante la distruzione dell’intero universo se non fosse bevuto da Śiva; tale veleno, secondo J. Gonda, non sarebbe altro che “il mortale principio della vita naturale”. In concomitanza i testi parlano d’una conflagrazione con venti pieni di fumo e di fiamme, che oggi diremmo piroplastici, solo in seguito temperata da abbondanti piogge; e, conseguentemente, d’una notevole moría d’animali terrestri ed acquatici. Ricordiamo a scanso d’equivoci che la cosmologia hindu prevede eventi del genere ogni 6.480 anni circa, cioè alla fine degli Yuga (Eoni), allorché i Sette Pianeti (Saptagraha) si riuniscono tutti nel segno zodiacale del Toro. Com’è avvenuto, di recente, nel Duemila.

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La “Grande Tartaruga”, presso La Quirigua, Guatemala.

In Giappone si ha una versione del mito ricalcante quella indiana, forse giunta per via buddhista; ma pure nel contesto shintoista, vedi Ko-ji-ki e Nihon-gi, troviamo la coppia demiurgica IzanagiIzanami intenta a  rimestare le acque primeve affinché caglino e formino la terra. Trattasi anche qui della tipica leggenda illustrante una creazione secondaria.

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Presso i Toltechi, come palesa il Codice Cortes, appare lo stesso scenario mitico; però il ruolo della Tartaruga e della Serpe è direzionalmente invertito (l’una in alto e l’altra in basso), a dimostrazione che il vero senso originario si era irrimediabilmente perduto [8]. Capo e coda della serpe, a mo’ di corda, sono tenuti per l’occasione da un nume a testa d’elefante (Chac, dio della pioggia) da un lato e da due divinità oscure dall’altro. Alla corda è connesso un simbolo solare (Kin).

Nei miti degli Zuni, tribù pellerossa del New Mexico di stirpe pueblo, è una dea madre a frullare l’oceano colla sua mano; colla differenza che la montagna, non diversamente dalla pianta-del latte (in Messico identificata all’agave), è in tal caso un’assunzione di forma da parte di lei e persino l’oceano-di latte è una sostanza vitale da costei emanata colla propria saliva sputando in un vaso. Altri codici maya presentano d’altronde varianti mitiche che associano la suddetta pianta alla tartaruga ed al dragone.

Nell’Avesta (Yt– xix. 46) un’analoga battaglia coinvolge da un lato Aka ManahAshma DævaAzhi Dahāka (accoliti di Aṅgra Mainyu) e dall’altro Vohu ManahAsha Vahishta ed Atār (accoliti di SpƏnta Mainyu) per il possesso della XvarƏnah (‘Gloria’) [9]. In quanto all’Akvān-e-dīv firdusiano, occorre precisare che la trasformazione demonica avvenuta a carico di cotale figura dalla testa elefantina ricalca l’attitudine avestica a scambiar di ruolo dæva ed ahura. Spiega l’Albrile che siffatta fisionomia segue ad altre quali l’assunzione di testa d’onagro (l’iconografia lo rende del tutto teriomorfico), fatto che in base alla nostra interpretazione di cui sopra, si chiarisce esaurientemente. Oltretutto, Akvān viene decapitato da Rostam [10]; e ciò richiama alla mente direttamente Gaṇeśa, il secondo figlio di Śiva.

Sebbene in parallelo si sia diffusa nel continente indiano una mitologia concernente Airāvata (var. Airāvaṇa), con caratteri elefantini anziché mastodontici. Questa leggenda dell’Elefante Bianco ha finito per esser associata ad Indra (Pico Marzio), il re degli dèi, che in virtú di dio delle piogge è subentrato all’anziano dio delle acque Varuṇa (Urano). E dall’induismo è passata al buddhismo. Quivi il Bianco Elefante, privato del suo orizzonte mitico originario, è stato assunto ad emblema dei Cakravarti; figure di sovrani universali originariamente ispirate nelle steppe centro-asiatiche dalla visione notturna della Stella Polare e di poi tramutatesi nei millennî a noi prossimi in modelli imperiali che hanno influenzato le corti d’Asia e d’Europa, dalla Persia alla Macedonia; come insegna Shakespeare nel suo Julius Caesar, ove si paragona Cesare alla Polare. Dal nome del primo imperatore romano derivano letteralmente sia l’idea austro-asburgica di Kaiser che quella russo-ortodossa di Czar. L’Elefante Bianco ha funto inoltre da contrassegno dei Bodhisattva, personaggî salvifici affiancati ai Buddha e svolgenti compiti analoghi a quelli avatarici.

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Airāvata, veicolo di Indra.

Gaṇeśa, il dio decapitato [11]

Di norma è Skanda il primo figlio di Mahādeva e Gaṇeśa fa da secondo, ma in certe icone familiari più complete vien aggiunto Bhairava, che precede in linea ereditaria entrambi. Assieme le 5 divinità rappresentano i Mahāyuga (‘Grandi Anni’, il doppio dei comuni Yuga), ciascun nume presiedendo ad uno di essi. La serie ciclica è aperta da Mahadeva e chiusa dalla consorte, con in mezzo i 3 figli a far da tramite fra l’inizio e la fine del Manvantara. Perciò Gaṇeśa, fungendo da terzo figlio, di norma si richiama al IV Grande Anno; coincidente cronologicamente col G.A. atlantideo, conclusosi nel 10.960 a.C. (quel che in termini vishnuiti va sotto la denominazione di VII ed VIII Ciclo Avatarico rispettivamente dominati da Rāma e Kṛṣṇa).

Orbene, in tal veste Gaṇeśa si presenta ai fedeli quale dio monodono ispiratore delle arti, letteratura compresa, e dei commercî. Il Dumézil parlerebbe di “terza funzione”, benché in tal caso si possa constatare d’esser al di fuori del tipico ambito un po’ forzatamente definito indoeuropeo. L’assimilazione a Giano Bifronte da parte della Getty [12] è tuttavia pertinente, tanto più che a volte pure il figlio di Śiva iconograficamente assume doppio volto. Il Courtright [13] ha tuttavia mostrato l’indubbia connessione del Signore degl’Inizî e Rimotore degli Ostacoli con altri personaggî affini della mitologia indiana, vale a dire il demone Gajāsura/ Gajendra/ Gajānana ed il succitato Airavata, i quali si rifanno apparentemente a tempi maggiormente arcaici.

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In sintesi, è possibile affermare che Gaṇeśnasce dall’Elemento Etere e che quindi raffigura anch’egli un nume primordiale. L’Elefante era una volta la cavalcatura di Iśvara, che l’ha ceduta a Śiva; quest’ultimo indossa testa e pelle di pachiderma avendo sconfitto Gajāsura in qualità di Gajāntaka, dopodiché dona una delle 2 zanne a Gaeśa e l’altra gliela concede quale scettro. Ecco perché il figlio del Gran Dio ha una zanna soltanto. Le 2 Zanne, sinceramente, ci paiono un’allusione al microcosmo ed al macrocosmo, oltreché ai 2 Poli Celesti. La medesima sorte di Gajasura capita a Gajendra o ad Airavata, che viene decapitato da Nandin (luogotenente shivaico talora in forma taurina) oppure da Viṣṇu, ed anche in questo frangente la testa è offerta a Gaṇeśa.  Più direttamente è Iśvara talvolta che riporta in vita il dio decapitato offrendogli la testa del proprio elefante, cioè la propria (per l’identità originaria del nume col proprio veicolo, principio valido in tutta l’iconologia religiosa), e qua il cerchio si chiude.

Letteralmente Gaṇeśa significa infatti ‘Signore dei Genî’, la cosa rimandandoci chiaramente all’epoca preistorica in cui tutti gli enti delle foreste o delle acque erano attribuiti ad un genio. Il capo dei genî aveva giurisdizione su ogni altro ed era dunque il signore di tutti. Ora il termine Īśa, donde la voce Gaṇeśa deriva (<Gaṇa-īśa) per contrazione vocalica, è a sua volta collegata ad Īś (Spirito od Essere Supremo); la base da cui proviene con aggiunta del suff. –vara (giardino, recinto) il nome Īśvara (‘Signore’), paragonabile all’Ys (‘Signore’) siberiano. Come si può allora non identificare Gaṇeśad Īśvara?

Non solo, la funzione semiparadisiaca svolta da Airavata è pari a quella svolta da Gaṇeśa, dato che l’uno ha la testa dell’altro. Richiamandoci al parallelo nume romano, faremo notare che il primo compito di Giano, antecedentemente al riadattamento a terzo elemento del triregnum capitolino (in veste di Quirino), era la reggenza primeva; proprio come per il vero Gaṇeśa, il quale non per nulla in ambito hindu – vedi Mahābhārata – è associato all’Au, il sacro monosillabo richiamantesi in segreto all’attitudine contemplativa delle genti paradisiache. L’Aum, del resto, è ottenuto ancor oggi colla più segreta e primordiale delle tecniche di meditazione indiane. Che non è bene rivelare a chiunque, perché, come dice il Veda, gli Dei amano il segreto; sebbene, in realtà, essa sia citata nelle Upaniṣad.

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Note:

[1] G. De Santillana &  H. von Dechend, Il Mulino di Amleto – Adelphi, Milano 1983 (ed.or. Hamlet’s Mill. An Essay On Myth and the Frame Of Time – Harvard U.P., Harvard 1969).

[2] G. Acerbi, I dieci Avatar e la mitologia induista – Hera (A.XI, N°122, 7-03-10, Binasco [Pv] 2010), pp. 42-5.

[3] Ibîd.

[4] E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità – Jaca B., Milano 1989, passim.

[5] Il tema è stato qualche anno fa oggetto di studî (E. Albrile, Trame celesti. La malinconia del cosmo nei suoi inferni siderali – Laurentianum, N°51, 2-010, pp. 137-54).

[6] D. Mackenzie & C. Squire, Encyclopaedia of Myths and Legends in Art, Religion, Culture and Literature – Caxton P., Delhi 1992, Vol.VII, Cap.XI, pp. 190-2.

[7] Mack. & Sq., op.cit., Cap.III sgg.

[8] Op.cit., Cap. XI, passim.

[9] Apud  ‘ Wikipedia’, s.v. CHURNING OF THE OCEAN.

[10] Il passo è citato nell’Encyclopaedia Iranica, on line, dallo Šāh-nāma (ed.Mohl, Vol.3, p.270 ss).

[11] Cfr. B. Udai Nath, Da Ganesha a Dioniso: lo smembramento e la (re)integrazione, su AXIS mundi.

[12] A. Getty, Gaṇeśa. A Monograph on the Elephant-faced God – Munshiram M., N.Delhi 1971 (I ed. Clarendon P., Oxford 1936), Cap.II, p.14.

[13] P.B. Coutright, Gaṇeśa Lord of Obstacles, Lord of Beginnings – Oxford U.P., Oxford 1985, passim.

2 commenti su “Aspetti shamanici nel culto di Ganesha, il nume dalla testa elefantina

  1. L’oceano di latte sono le nuvole.
    Ga= che si muove
    n(e)= acqua
    sa= suscitare legami
    “acqua che si muove suscitando legami”

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