Jacques Bergier e il “Realismo Magico”: un nuovo paradigma per l’era atomica

Recentemente tradotto in italiano dai tipi de Il Palindromo, “Elogio del Fantastico” dello scrittore e giornalista francese Jacques Bergier, noto soprattutto per aver scritto con Louis Pauwels “Il mattino dei maghi”, fornisce un’analisi dell’opera di alcuni “scrittori magici” al tempo sconosciuti al pubblico francofono (tra cui Tolkien, Machen e Stanislav Lem), volta a definire un nuovo paradigma per il XXI secolo che possa coniugare la scienza e la fantascienza con la categoria ontologica del “sacro”.


di Marco Maculotti
copertina: ritratto di Jacques Bergier

Jacques Bergier (1912 – 1978) — giornalista, scrittore e ingegnere francese, nato in una famiglia di ebrei russi — è noto soprattutto per aver scritto a quattro mani con Louis Pauwels Il mattino dei maghi: introduzione al realismo fantastico (1960), un compendio a metà strada fra un’opera di fantascienza distopica e un trattato esoterico capace di unire fra loro, in maniera più o meno coerente (e, soprattutto, alquanto avvincente) tematiche borderline così distanti tra loro, quali ad esempio l’alchimia, le civiltà scomparse, il nazismo esoterico, il socialismo magico, la mitopoiesi orrorifica di H.P. Lovecraft e Arthur Machen, la Terra Cava e le teorie teosofiche di Madame Blavatsky.

La “via” che Bergier, «divulgatore scientifico, esperto di narrativa dell’Immaginario, scienziato “di sinistra” che aveva fatto al Resistenza ed era stato nei lager tedeschi», propose di seguire fu appunto quella del cosiddetto “Realismo Fantastico” (o “Magico”): un nuovo metodo di indagine in cui le conoscenze scientifiche più avanzate (fra cui, la fisica quantistica) erano destinate a fondersi con antichi corpora sapienziali, spesso di carattere segreto ed iniziatico (si pensi ai filoni alchemico, ermetico e teosofico), oltre che con il gli studi fortiani sul paranormale e la fantascienza di respiro cosmico del nuovo secolo. Dal punto di vista di Pauwels e Bergier, come scrive Gianfranco de Turris,

« […] non c’era una differenza sostanziale fra teorie e ipotesi sostenute nella saggistica scientifica e nei racconti di immaginazione: tutto si poteva mettere sullo stesso piano… Inoltre, più o meno apertamente, sostenevano la tesi di una specie di “complotto mondiale” che da tempi immemori cercava d’impedire simili collegamenti e quindi la scoperta di nuove verità, per mantenere l’umanità a livelli conoscitivi inferiori. »

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Tema, quest’ultimo, che Bergier trattò soprattutto nella sua opera I libri maledetti, dove giunse a postulare l’esistenza di una setta di “Uomini in Nero” antica quanto la stessa civiltà, che da millenni è adibita a occultare, bruciare e togliere dalla circolazione certi testi ritenuti particolarmente dannosi per le implicazioni che sarebbero in grado di far sorgere nella mente dei lettori più accorti. Questi enigmatici “Uomini in Nero”, che concettualmente ben poco si distaccano dai celeberrimi Men in Black portati all’attenzione del pubblico statunitense dagli ufologi come da Hollywood, avrebbero tra le altre cose pianificato la distruzione della Biblioteca di Alessandria, ispirato la Santa Inquisizione nella sua tristemente famosa “caccia alle streghe”, persuaso capi di Stato a mettere fuorilegge società segrete, impartito le censure, ordinato gli arresti di personaggi geniali ed innovatori e infine formulato il cosiddetto “segreto iniziatico”, che se violato può condurre addirittura all’immolazione per mano dei confratelli e superiori. 

« La nostra civiltà, come ogni civiltà, è una congiura. Una miriade di minuscole divinità […] storna i nostri sguardi dal volto fantastico della realtà. La congiura viene adoperata per non farci riconoscere l’esistenza di un altro mondo entro quello che abitiamo, di un altro uomo entro quello che siamo. Bisognerebbe rompere il patto, farsi barbari; e innanzitutto essere realisti: cioè partire dal principio che la realtà è sconosciuta. Usando liberamente le conoscenze a nostra disposizione, stabilendo tra queste ultime rapporti inattesi, accogliendo i fatti senza pregiudizi vecchi o nuovi, […] vedremmo emergere, insieme alla realtà, il fantastico. »

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Anche solo da queste brevi note introduttive, il lettore può immaginare quanto il Nostro stravedesse per il recente filone letterario di narrativa fantastica e fantascientifica, che aveva preso le fila dall’orrore cosmico dei già menzionati Lovecraft e Machen per salire fino alle profondità siderali delle stelle e dello spazio infinito. Appassionato del genere fin dalla più tenera età (lesse Jules Verne e Louis Jacolliot a soli tre anni e in seguito divorò letteralmente le opere di Philip K. Dick, Isaac Asimov, Arthur C. Clarke, Gustav Meyrink, Jorge Luis Borges), Bergier così dichiarò fuori dai denti i suoi intenti letterari e l’eclettico metodo di indagine nell’introduzione al già menzionato Mattino dei maghi:

« Noi pensiamo che proprio al centro della realtà l’intelligenza, per poco che sia iperattivata, scopra il fantastico. Un fantastico che non invita all’evasione, ma a una più profonda adesione. È per difetto di fantasia che letterati e artisti cercano il fantastico fuori dalla realtà, nelle nuvole. Non ne ricavano che un sottoprodotto. Il fantastico, come le altre materie preziose, deve essere estratto dalle viscere della terra, dal reale. E la fantasia autentica è ben altra cosa che una fuga verso l’irreale. »

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Non sorprende dunque trovarsi fra le mani un saggio di Bergier, Elogio del Fantastico — in edizione italiana grazie ai tipi de Il Palindromo/I Tre Sedili Deserti, tradotto e curato da Andrea Scarabelli che ne firma pure un esteso commento in appendice — completamente dedicato ai profili di coloro che egli definì scrittori magici, creatori di aperture su mondi “altri”, universi (im)possibili differenti dal nostro e ciò nonostante coerenti, dimensioni parallele o alternative che si aprono nelle pieghe del Reale o sotto il velo di Maya, arcaici passati ipertecnologici e futuri distopici che riecheggiano la profezia lovecraftiana sulla venuta prossima di una “Nuova Età Oscura”.

Già nel Mattino dei maghi, Bergier inquadrò le vari correnti cultuali e culturali ascrivibili ai filoni sapienziali dell’esoterismo e dell’occultismo come residui di «una conoscenza molto antica di natura tecnica applicata contemporaneamente alla materia e allo spirito», al punto che sui reperti custoditi nei musei non farebbero capolino fantasie astratte ma «prescrizioni tecniche precise, chiavi per aprire le potenze contenute nell’uomo e nelle cose» [A. Scarabelli, Jacques Bergier, o del realismo fantastico, p. 288]. Specularmente, il Nostro avanzerà anche una definizione “tecnologica” della magia, «residuo tecnico di civiltà più avanzate della nostra e oggi scomparse, i cui fenomeni ci risultano incomprensibili quanto lo sarebbe una radiolina a transitor per i primitivi» [Ivi, p. 289].

In Admirations (questo il titolo originale dell’Elogio del Fantastico), oltre ai già plurimenzionati Lovecraft e Machen, la penna di Bergier vuole portare alla conoscenza del lettore altri grandi epigoni della nouvelle vague del Fantastico: Robert E. Howard e Abraham Merritt, Ivan Efremov e Stanislav Lem, J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis, John Campbell, John Buchan e, per finire, Talbot Mundy. Tutti questi autori, sebbene considerati dall’autore come dei “razionalisti”, ebbero il merito di aver saputo trascendere tale razionalismo sfociando, con le proprie creazione immaginali, «nella metafisica, nella religione, nel mito e addirittura nel sacro» [de Turris, p. 15]. Concordando con Tolkien, Bergier sostenne la prerogativa propria dell’uomo, attraverso la letteratura fantastica, di creare; in ciò, essendo riconosciuta al genere umano una possibilità che condivide unicamente con Dio [Ivi, p. 272].

« Uno scrittore magico è colto da un certo demone e cessa di esserlo per ragioni non più limpide di quelle della psicologia del genio o della conversione. » [p. 29]

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Il punto di vista a dir poco innovativo di Bergier, il quale arrivava a sostenere che «l’unico interesse della scienza è che fornisce idee alla fantascienza» [p. 267], attrasse fra gli altri il plauso dello storico di fantascienza Charles Moreau, che lo omaggiò con le seguenti parole di ammirazione [cit. in Scarabelli, op. cit., p. 273]: «Bergier ha costituito un legame tra due mondi, meravigliato dal versante fantastico e dall’evoluzione della tecnica», dando loro «caratteri nobili, penetrando nei paradossi della scienza e del meraviglioso» e aggiungendo che, d’altronde, «la scienza ha bisogno del meraviglioso per rinascere, come una fenice».

Con queste premesse, Il mattino dei maghi fu motivo di scompiglio e controversie alla sua uscita avvenuta in Francia nel 1960: ad ogni modo ciò non influisce sull’eventualità di considerare il metodo di lavoro di Bergier e del collega Pauwels alla stregua di una vera e propria rivoluzione in atto, «una nuova sintesi tra ragione calcolante e intuizione spirituale che ha sommerso i principi del XIX secolo», che il Nostro ebbe modo di inquadrare come «carceriere e boia del fantastico» [Ivi, p. 274], e che Scarabelli parafrasa come «risacca di un Illuminismo che ha eliminato qualsiasi tradizione altra per proporsi come unica verità», in tutto e per tutto simile a «una forma di monoteismo secolarizzato».

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Nel “secolo breve”, al contrario, il fantastico rientra prepotentemente dalla porta sul retro, attraverso la scienza stessa (si consideri come esempio paradigmatico il racconto lovecraftiano From Beyond, pubblicato nel 1920) e come conseguenza della cosiddetta “morte del romanzo realista”, i cui “assassini” sono da riconoscere nel Doctor Faustus di Thomas Mann e nel Finnegans Wake di James Joyce.

A tal riguardo, fu Borges a relegare il Realismo come un semplice episodio nella storia dell’arte delle parole: la grande letteratura, in qualunque epoca, non fu mai realista, ovunque e in qualunque momento della storia dell’uomo avendo trionfato l’Immaginario, con la sola eccezione del periodo storico a cavallo tra XIX e XX secolo. A ciò si aggiunga quanto sostenuto dallo storico delle religioni romeno Mircea Eliade, il quale espresse l’opinione che la letteratura fantastica non possa scomparire, in quanto «prolungamento della creatività mitologica e dell’esperienza onirica» [Ivi, p. 278] — un’idea che emerge in Miti, sogni e misteri (1957) e, più di recente, nei saggi contenuti in Occultismo, stregoneria e mode culturali (1983).

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Ci accingiamo ora a tratteggiare brevemente i profili degli “scrittori magici” presentati al pubblico francese da Bergier in questo “Elogio del fantastico”: profili — come avremo modo di vedere — eterogenei, caratterizzati da profonde differenze tanto nel background culturale quanto nella propria personale weltanschauung, e ciò nondimeno tutti forieri di visioni “altre” e creatori di universi immaginali alternativi.

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John Buchan (1875 – 1940)

La visione distopica di John Buchan (1875 – 1940), primo autore presentato da Bergier, si fondava sulla società umana e sui labili rapporti di forza e di comunicazione che ne determinano il funzionamento a livello globale. Nei suoi romanzi è centrale la concezione dell’esistenza di un potere invisibile, sapientemente occultato dietro le sagome di coloro che vengono comunemente ritenuti dalle masse i veri potenti. Egualmente, Buchan lascia intendere come al di sotto delle guerre visibili se ne combatta una invisibile, “sottile” come quella combattuta in tempi antichi dai druidi contro i colonizzatori cristiani. Il vero potere, ad ogni modo, è quello esercitato sulle menti altrui: e solo chi ha una volontà realmente “centrata” può modificare gli eventi a suo piacimento (è questo ciò che si definisce abitualmente “magia”).

Con le sue visioni che non esitiamo a definire fanta-geopolitiche, Buchan viene ad oggi ricordato come uno dei romanzieri più profetici e “chiaroveggenti” del primo dopoguerra. D’altronde egli sapeva ciò di cui stava scrivendo, essendo stato anche un noto e apprezzato politico oltre che un romanziere: fra le altre cose, al momento del decesso avvenuto nel 1940 ricopriva la carica di viceré del Canada. Nonostante ciò, comunque — per usare le parole di Bergier — Buchan seppe trascendere «lo stretto recinto del gretto materialismo delle persone rispettabili e della cultura ufficiale», se non altro anche perché egli stesso si considerava in possesso della cosiddetta “seconda vista”, un tipo di chiaroveggenza menzionato dalle popolazioni di cultura celtica, portato all’attenzione degli accademici, per la prima volta, dal saggio del reverendo scozzese Robert Kirk The Secret Commonwealth, scritto nel 1692 e pubblicato per la prima volta nel 1815.

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Abraham Merritt (1884 – 1943)

Completamente diversa la “visione” di Abraham Merritt (1884 – 1943), di cui sulle nostre pagine abbiamo già recensito il romanzo Il vascello di Ishtar, anch’esso recentemente pubblicato in italiano da Il Palindromo nella stessa collana di questo Elogio del fantastico. L’immaginazione di Merritt prende il “la” dalle dottrine teosofiche riguardanti l’esistenza di ere che si ripetono ciclicamente secondo le evoluzioni cosmiche, come ricordato pressoché ovunque nelle culture tradizionali (età esiodee, yuga, “Soli”, ecc.), e di antiche linee di sangue pre-umane dimoranti su isole o continenti in seguito occultatisi o inabissatisi a causa di diluvi o altri cataclismi.

Sono questi i temi che fondano lo scheletro narrativo di alcuni dei più significativi romanzi di Merritt, da Il pozzo della luna a Il volto nell’abisso, da Gli abitatori del miraggio Striscia, ombra!, che si rifà esplicitamente al mito di Atlantide [p. 68]. Altre sue opere sono invece incentrate sulla tematica della stregoneria: è il caso del racconto Le donne del bosco e dei romanzi Sette passi verso Satana Brucia, strega, brucia. Con riguardo specialmente agli scritti di questo filone “stregonesco”, Bergier espone al lettore una sua personalissima ipotesi: l’inquadramento del nazismo, in tutti i suoi “riti” (sacrificali e non), come una “religione maledetta”, le cui “offerte di sangue” sarebbero state indirizzate ad “Altre Divinità” dimoranti, allo stesso modo delle incommensurabili deità lovecraftiane, negli abissi cosmici [p. 67].

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Arthur Machen (1863 – 1947)

Del gallese Arthur Machen (1863 – 1947) — che al tempo era ancora incomprensibilmente sconosciuto in Francia nonostante il grande successo riscosso oltremanica dal romanzo Il Grande Dio Pan e soprattutto dal racconto Gli angeli di Mons — Bergier tratteggia la giovinezza trascorsa a classificare libri occulti e ad interessarsi di testi alchemici, quindi ne sottolinea l’adesione, dietro l’insistenza dell’amico A.E. Waite, alla celebre Associazione Segreta dell’Alba d’Oro: la Golden Dawn [p. 80-1]. Ma quel che è più importante ai fini del “Realismo Fantastico” bergieriano è lo stretto legame, nella mitopoiesi macheniana, che esiste fra le meraviglie della nuova scienza e i suoi rischi, che al contrario sono tutto fuorché nuovi: lungi dall’adottare una visione disincantata o moralista, Machen si limita a suggerire al lettore la possibilità che operazioni scientifiche apparentemente innocue siano in grado di far piombare gli sperimentatori in scenari da incubo, non troppo dissimili da quelli del Sabba e delle possessioni demoniache [p. 86]:

« L’ingenuo materialismo del XIX secolo ha dichiarato bancarotta. La terribile realtà dei poteri occulti della materia è stata portata alla luce del giorno da Hiroshima e Nagasaki. La psicologia del profondo e l’orrore dei campi di concentramento hanno messo a nudo le forze oscure che controllano l’anima razionale, senza che essa se ne renda conto. Quella di Machen è una visione eterna, i cui simboli concordano con la realtà rivelata dalla scienza. »

E ancora [p. 103]:

« [Pur] ignorando il codice genetico, Machen intuì che la vita, vecchia di tre miliardi di anni, cela antichi poteri le cui manifestazioni possono essere terribili. »

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Ritratto di Ivan Efremov (1908 – 1972)

Un vero e proprio scienziato (precisamente geologo e palentologo) fu il sovietico Ivan Efremov (1908 – 1972). Bergier lo inquadra nel novero degli “scrittori magici” per la sua capacità assolutamente non comune di fondere con una coerenza invidiabile le sue conoscenze accademiche e quelle facenti capo al folklore delle steppe russe (e non solo): Incontro su Tuscarora, ad esempio, è incentrato sul topos pressoché universale della fontana miracolosa e dell’acqua che rimargina le ferite e assicura la vita eterna; Olgoi-khorkhoi sulla sopravvivenza nella Mongolia dei nostri giorni di un mostro preistorico [p. 106].

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Fu tuttavia grazie all’entusiasmo causato dalle prime esplorazioni spaziali che il nome di Efremov si diffuse oltre i confini sovietici: La nebulosa di Andromeda, pubblicato a puntate su “Tecniche per la gioventù” a partire dal 1957, registrò grandi successi di pubblico e di critica, sebbene in patria ci fu qualcuno di poco avvezzo al “Realismo Magico” che considerò pericoloso il genio dello scrittore [p. 109]:

« Il futuro del nostro autore fece indignare alcuni comunisti ortodossi. Il “Corriere Economico” dedicò al libro un articolo pieno di ingiurie. In quel futuro, infatti, nessuno avrebbe più parlato di Marx, Lenin e Stalin, ma sarebbero tornati i nomi degli dèi greci: Marte, Venere, Zeus… »

Il protagonista di un altro suo romanzo, Il filo del rasoio, viene utilizzato come alter-ego per esprimere la sua “visione” mi(s)ticheggiante, da mettere specularmente in relazione con la situazione di insofferenza in cui egli si trovava sempre più al cospetto del Partito: il personaggio in cui Efremov si rispecchiava, «osteggiato in epoca staliniana — e anche dopo –, abbandonerà l’URSS e fonderà in India un’alleanza tra la dialettica marxista applicata alla scienza e la magia tantrica» [p. 113].

Forse fu anche per questa sua “fuga” dal presente (e dal “tempo storico” propriamente inteso) che il romanzo riscosse particolare successo fra i giovani: «dalle quattro del mattino, nelle gelide notti siberiane la gioventù sovietica affrontava code interminabili per assicurarsi i capitoli de La nebulosa di Andromeda [p. 110]. Lo stesso Yuri Gagarin, primo uomo ad orbitare intorno al pianeta Terra, confessò a Bergier di aver deciso di intraprendere l’iter per diventare astronauta dopo aver letto il suddetto romanzo di Efremov [p. 110].

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John Wood Campbell (1910 – 1971)

Nella persona dello statunitense John Wood Campbell (1910 – 1971) Bergier riconosce l’iniziatore della fantascienza moderna: il suo primo racconto La sconfitta dell’atomo, pubblicato nel 1930, «contiene almeno una profezia per riga»: anticipa, fra le altre cose, l’avvento dei grandi computer moderni, «l’energia materiale totale, l’annichilazione della materia con un rendimento energetico pari al cento per cento». Nel seguito, pubblicato da lì a pochi mesi, fanno capolino l’intelligenza artificiale e gli automi senzienti [p. 128].

Il suo genio “chiaroveggente”, unito ad una notevole prolificità, lo porterà ad indagare per primo alcuni dei temi più eccitanti derivanti dalle più moderne prospettive scientifiche: la fisica dei quanti e quella nucleare, i viaggi intergalattici, il rapporto di simbiosi fra uomo e macchinaIl manto di Aesir (1939) è ispirato agli studi del fisico P.A.M. Dirac sul “positrone” e sulla cosiddetta “anti-luce” [p. 139]; La “Cosa” da un altro mondo (1938) conobbe riadattamenti cinematografici di successo, il più riuscito dei quali è quello di John Carpenter (The Thing, 1982), un vero e proprio “film culto” del genere.

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John Ronald Reuel Tolkien (1892 – 1973)

Decisamente opposta nella sua predominanza del Mito sulla scienza è la mitopoiesi di un altro dei più paradigmatici “scrittore magici” della lista di Bergier: il filologo e linguista britannico John Ronald Reuel Tolkien (1892 – 1973). Vero e proprio demiurgo della parola (d’altronde, fu lui stesso ad affermare che «gli autori di fiabe sono creatori di universi» [p. 153]), Tolkien colpisce Bergier innanzitutto per la certosina coerenza ed accuratezza (si pensi, ad es., alla creazione di veri e propri idiomi) che permeano l’intera sua opera, nonché per la sua incredibile potenza archetipica collettiva, esulante la mera psicologia dell’autore [p. 148]:

« Non è mai stato inventato un mondo immaginario altrettanto molteplice e provvisto di coerenti leggi interne, così puro, nonché incontaminato dalla psicologia dell’autore. Mai mondo immaginario ha sfiorato l’autentica condizione umana senza cadere in allegorie. »

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Robert E. Howard (1906 – 1936)

Il successo delle opere di Tolkien fu preceduto e favorito dalla popolarità dello statunitense Robert E. Howard (1906 – 1936), suicida a soli trent’anni, considerato da Bergier un «genio venuto da fuori» alla pari di Lovecraft [p. 218]. Similmente a Tolkien e ancora di più a Merritt, Howard pesca a piene mani, per la creazione della sua saga di Conan il Barbaro, dalle tradizioni antiche riguardanti l’esistenza di supposte popolazioni pre-umane, civiltà antidiluviane e spaventosi cataclismi che avrebbero progressivamente cambiato drammaticamente il volto del pianeta Terra. L’esplicita menzione a Iperborea, nonché ai continenti sommersi di Lemuria e Atlantide suggerisce che la massima influenza per Howard a questo riguardo fu La dottrina segreta di Helena Petrovna Blavatsky, la “Bibbia” della Teosofia.

Ancora più degna di nota è una rivelazione che Howard stesso fece al collega Clark Ashton Smith in una lettera scritta nel 1933: egli ammise di aver scritto le avventure di Conan «in uno stato di semi-automatismo: Conan in persona era accanto a lui a dettargli i racconti. Lo considerava un personaggio reale» [p. 225]. Si mediti qui peraltro sul fatto che altri scrittori della medesima generazione di Howard (quali ad es. l’austriaco Gustav Meyrink, l’irlandese W.B. Yeats e il portoghese Fernando Pessoa, tutti e tre pienamente ascrivibili al novero degli “scrittori magici” secondo i criteri di Bergier) sperimentarono la scrittura semi-automatica in uno stato di incoscienza.

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Talbot Mundy (1879 – 1940)

Similmente a molti degli autori finora menzionati, anche Talbot Mundy (1879 – 1940) riteneva che le civiltà fossero nate e tramontate diverse volte, ragion per cui dedicò un ciclo di cinque libri (I Nove SconosciutiJimgrimLa guardia del DiavoloC’era una portaLuce nera) alla sopravvivenza nella nostra epoca di segreti delle antiche civiltà, che erano in possesso di una tecnologia più avanzata della nostra. Anch’egli profondamente influenzato dalla Blavatsky — ma anche da altri che hanno scritto sul tema del regno segreto di Agharti/Shamballah (R. Guénon, F. Ossendowsky, Saint-Yves d’Alveydre) — Mundy cala i personaggi dei propri romanzi in situazioni avventurose e caledoscopiche, concedendosi nondimeno pregevoli riflessioni di carattere esoterico, a metà strada fra Platone ed E.A. Poe [p. 237]:

« Invece di ambire a eguagliare la saggezza degli dèi, perché non ammettere che i nostri sogni ci legano all’universo da dove siamo giunti — prima di cadere nello spazio-tempo — e in cui faremo ritorno? Alcuni sogni sono i ricordi della saggezza acquisita nell’infinito antecedente la nascita del mondo, e i più saggi tra i saggi credono che la vita terrestre sia solo un sogno. »

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Clive Staples Lewis (1898 – 1973)

Il mundus imaginalis dell’irlandese Clive Staples Lewis (1898 – 1973), pur anticipando qua e là qualche recente scoperta o idea scientifica (ad es., come vedremo a breve, l’esistenza di “cinture di radiazioni” intorno al globo terrestre), fu invece profondamente influenzato dalle dottrine gnostiche che vedono l’essere umano come imprigionato su questo pianeta e sottoposto al dominio “sottile” degli Eldila (plurale di Eldil), esseri immateriali che abitano lo spazio tra un mondo e l’altro, aventi delle corrispondenze tradizionali con gli Arconti e gli Angeli Caduti. L’Eldil che comanda sul mondo sublunare ha le caratteristiche del Demiurgo degli Gnostici [p. 174]:

« L’Eldil che domina la Terra è folle. Ha abbandonato la grande confraternita degli Eldila, non ammette più l’autorità di Maladil il Giovane [il creatore delle stelle, ndr] ed esercita sul nostro pianeta una tirannia spietata. Affinché non possa estendere il proprio dominio su altri pianeti, la Terra viene circondata da una cintura di radiazioni. Tutto ciò fu scritto nel 1938: nel 1959, Van Allen e Vernoff scoprirono che il nostro pianeta è davvero circondato da una cintura di radiazioni. »

Profondamente credente in seguito ad una drammatica conversione («una resa incondizionata e colma di terrore» [p. 173]) avvenuta nel 1929, Lewis inquadrò il dramma cosmico dell’umanità, così caro alle correnti gnostiche del primo cristianesimo, in un’atmosfera escatologica (da “tempi ultimi”) che fa da cornice ai tre titoli della sua opera prima, la “trilogia fantateologica” formata da Lontano dal pianeta silenziosoParelandra Quell’orribile forza. Nella sua personalissima concezione per metà teologica e per metà letteraria, l’Autore reputa la scienza e la fantascienza («soprattutto quella che incita l’uomo ad abbandonare il pianeta» ai fini dell’esplorazione spaziale) alla stregua di «strumenti dell’Eldil oscuro, signore di questo mondo» [p. 175].

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Ai comandi di questo Princeps Huius Mundi rispondono gli adepti dell’Istituto Nazionale degli Esperimenti Coordinati, che a parere di Bergier «ricorda singolarmente alcune moderne organizzazioni transnazionali» nel suo anelito di instaurare una sorta di «dittatura di un razionalismo neo-hitleriano» [p. 179]. In quelle che lo scrittore francese definisce «le righe più opprimenti scritte nel XX secolo», Lewis dipinge la nostra epoca con tonalità lovecraftiane [pp. 184-5]:

« Le scienze fisiche, buone e innocenti in sé, avevano già cominciato ad essere distorte e subdolamente manovrate in una certa direzione. Negli scienziati si era sempre più affievolita la speranza di raggiungere verità obiettive; il risultato era l’indifferenza per questo problema e la ricerca esclusiva del potere puro e semplice. Ciance sullo slancio vitale e amoreggiamenti con il panpsichismo promettevano di ripristinare l’Anima Mundi dei maghi. I sogni di un destino lontano e futuro dell’uomo diseppellivano dal sepolcro basso e inquieto il vecchio sogno dell’Uomo-Dio. […]

Ci sarebbero state cose incredibili, dal momento che non credevano più in un universo razionale? Ci sarebbero state cose oscene, dal momento che sostenevano che ogni moralità era un semplice sottoprodotto soggettivo delle situazioni fisiche ed economiche degli uomini? I tempi erano maturi. Secondo il punto di vista accettato nell’Inferno, tutta la storia della nostra Terra conduceva a questo momento. Ora, infine, c’era la reale possibilità che l’Uomo cacciato dall’Eden riuscisse a scuotersi di dosso quella limitazione dei poteri che la misericordia gli aveva imposto come protezione contro i risultati estremi della caduta. Se questo piano riusciva, l’Inferno si sarebbe infine incarnato. »

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Stanislaw Lem (1921 – 2006)

Ci troviamo qui di fronte, come non di rado accade leggendo le creazioni degli “scrittori magici” della lista bergeriana, ad una posizione radicalmente e filosoficamente pessimista; la stessa che Bergier rintraccia, pur non ignorando le profonde differenze tra i due autori, anche nell’opera del polacco Stanislaw Lem (1921 – 2006), seconda “penna” del Blocco orientale che il Nostro portò all’attenzione del lettore francofono.

Nei romanzi di Lem, scrive Bergier, «ci scontriamo con l’incomprensibile… l’universo è troppo complicato perché noi si possa comprenderlo» [p. 190]. L’universo di cui fa esperienza il lettore di Solaris, per esempio, è il paradigma spaziale del “Totalmente Altro”: le architetture e geometrie non euclidee di lovecraftiana memoria che sorgono dall’oceano esulano completamente da ogni raziocinio e utilità umana, suggerendo piuttosto la concezione induista della manifestazione spazio-temporale come līlā, “gioco”, “distrazione”, “passatempo”, ma anche “mera apparenza”, “simulazione” [p. 191]:

« L’oceano non solo ha un’intelligenza “altra”, ma possiede anche mezzi tecnici superiori a quelli che conosciamo. […] Parti dell’oceano assumono forme, generano architetture, secondo leggi impossibili da spiegare. È arte? Matematica? Si tratta solo di un gioco? O forse siamo di fronte a una forma di attività intellettuale del tutto incomprensibile? Nessuno lo sa, né lo saprà mai. »

Il pessimismo di Lem è sì cosmico ma, a differenza di quello di Lewis, è del tutto privo della dimensione “sacrale”: Lem d’altro canto, a differenza di Efremov, incarnava per i Sovietici il letterato “modello”, ateo e ben saldo nelle sue credenze razionalistiche e materialistiche, capaci di sfociare eventualmente in correnti post-spirituali come quella cosmista, ma mai in concezioni “profetiche” ed “apocalittiche” come quelle di Lewis, e nemmeno orientate secondo una prospettiva di stampo “mitico-tradizionale” come avvenne per Tolkien, Machen, Merritt e Lovecraft.

Paradigmatico in questo senso è il racconto La verità, in cui un team di scienziati scopre con somma disperazione che la vera vita si sviluppa tra le alte temperature del plasma incandescente: «il Sole e le stelle sono viventi, ma noi no!», «Noi siamo ininfluente materia moribonda» [p. 195]. «La scienza materialista ha raggiunto il proprio limite, e per Lem non vi è nulla oltre il materialismo», chiosa laconicamente Bergier. «L’opera si chiude così all’insegna di una disperazione razionalista» [p. 194]. Un altro racconto di Lem, Dai ricordi di Ijon Tichy, avanza l’ipotesi che noi esseri umani «siamo solo registrazioni su nastri magnetici che si illudono di vivere»! Bergier intravede qui nello scrittore sovietico un’attitudine che non esita a definire diabolica [p. 196]:

« Lem utilizza le prove dell’esistenza dell’anima o della mente (telepatia, chiaroveggenza e premonizione) in senso contrario, dimostrando che non siamo nemmeno le macchine automatiche immaginate dalla psicologia comportamentale, bensì registrazioni prive di realtà materiale. »

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Jacques Bergier (1912 – 1978)

Per concludere, quale visione opporre al «gretto materialismo» che emerge dalla fantascienza sovietica di Lem? La pietra di fondazione del nuovo paradigma — quello, appunto, del “Realismo Magico” — è secondo Bergier da rintracciarsi nella corrispondenza tra uomo e universo (microcosmo e macrocosmo), un assunto antichissimo ben noto a maghi, alchimisti e cabalisti che lo scrittore francese aggiorna al 1969 [p. 198]:

« il cervello è come un computer che può costruire nei propri circuiti un modello del cosmo. »

E ancora, baudelairianamente [p. 199]:

« il cosmo intero è un enorme messaggio cifrato, aperto all’uomo. »


18 commenti su “Jacques Bergier e il “Realismo Magico”: un nuovo paradigma per l’era atomica

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