W.B. Yeats, William Blake e il sacro potere dell’immaginazione

Anche se vissero l’uno a distanza di un secolo dall’altro, nelle biografie di Blake e Yeats è possibile intravedere due vite parallele, fondate su alcune idee-guida speculari che ne orientarono l’attività artistica e letteraria: l’ideale della “religione dell’arte”, la missione salvifica dell’artista, l’enfasi posta sulla facoltà immaginativa ai fini del processo di autorealizzazione e l’annuncio dell’avvento di una nuova èra a venire.


di Marco Maculotti

Egli è uno di quei grandi artisti di Dio che annunciarono misteriose verità a delle piccole congreghe. Mentre gli altri avevano parlato ai teologi e ai maghi, lui parlò ai poeti e agli artisti. Gli altri prendevano i loro simboli dalla teologia e dalla alchimia, lui dai fiori di primavera e dalle foglie dell’estate; ma il messaggio è lo stesso, e la verità proclamata è quella che Dio annunciò all’argilla rossa all’inizio dei tempi.

— W.B. Yeats, “William Blake: una biografia”

Da una parte William Blake, forse il più grande artista che l’Inghilterra abbia mai prodotto; dall’altra William Butler Yeats, probabilmente il più eccelso letterato irlandese che la storia ricordi. Chi meglio di loro due potrebbero parlare del potere “magico” dell’immaginazione e delle fughe astrali nel mondo immaginale per portare indietro, sulla nuda terra, qualche scintilla della Verità eterna? Ragion per cui è da salutare con entusiasmo questa recente pubblicazione Mimesis (Milano 2015) William Blake e l’immaginazione, a cura di Luca Gallesi che contiene due scritti di William Butler Yeats sulla visione sacrale prima ancora che artistica di Blake: “William Blake e l’immaginazione” (1897) e “Una biografia” (1905).

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VITE PARALLELE

Già a Yeats dovette apparire chiaro il filo d’oro che lo legava a Blake, nonostante fosse vissuto un secolo prima di lui: nel saggio “William Blake: a biography” egli non manca di elencare una serie di episodi comuni alla sua biografia come a quella di Blake (nonché, aggiungiamo noi, a quella di altri grandi scrittori moderni, come ad esempio Lovecraft), quasi a definire un sostrato comune: la presenza di voci durante l’infanzia, il sentirsi estraneo e deriso dai coetanei nell’adolescenza, il rifiuto dell’istruzione scolastica e l’utilizzo durante l’età matura della scrittura automatica (particolarmente famoso, a tal riguardo, per Yeats è l’opera A Vision).

Nondimeno, dietro le curiosità puramente biografiche dei due, a Yeats preme mettere in rilievo alcune idee-guida che hanno plasmato sia l’opera di Blake che la sua: la “religione dell’arte”, la missione salvifica dell’artista, l’enfasi posta sulla facoltà immaginativa ai fini del processo di autorealizzazione, l’annuncio dell’avvento di una nuova èra a venire. Nella visione integrale del mondo dei due — sottolinea Gallesi — «non c’è spazio per la frattura tra dimensione artistica, sfera spirituale e vita quotidiana», citando poi un illuminante aforisma di Ungaretti riferito a Blake (ma che potrebbe benissimo riguardare anche Yeats) che recita [p. 8]:

Il vero poeta anela a chiarezza: è smanioso di svelare ogni segreto: il proprio, il segreto della sua presenza terrena cercando di conoscere il segreto dell’andare della storia e dei motivi che reggono l’universo, cercando d’impossessarsi, folle, del segreto dei segreti.

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William Blake, “America: a Prophecy”, 1793

Come sottolinea Gallesi [p. 69], «Il grandioso apparato simbolico di Blake servì a Yeats da potente e concreta scuola mitologica; in Blake Yeats aveva trovato un corpus poetico che si legava a tutti i suoi interessi filosofici, estetici, artistici e soprattutto spirituali attraverso quello che sembrava l’annuncio di una nuova religione universale», aggiungendo inoltre una nota del 1892 del poeta irlandese secondo cui «se non avess[e] fatto della magia l’oggetto costante del [suo] studio non [avrebbe] potuto scrivere neppure una riga del [suo] Blake». Non è certo un caso se, dopo aver studiato l’opera di Blake, l’interesse di Yeats per l’occultismo si fece sempre più preponderante, avvicinandosi agli ambienti teosofici prima e alla Golden Dawn dopo.

Sia Yeats che Blake «annunciarono una Nuova Era che avrebbe capovolto i valori della loro. Blake annunciava il rovesciamento del materialismo per lui rappresentato da Bacone, Newton e Locke mentre Yeats reagiva contro il mito del progresso che ai suoi occhi era una enorme menzogna» [p. 70]. In qualche modo Yeats rinnovò l’idea di Blake che l’arte corrisponda all’albero della vita e la scienza a quello della morte (o della conoscenza), i due leggendari alberi presenti nell’Eden. Anche gli orizzonti intellettuali, filosofici e spirituali dei due erano molto simili: «Plotino, Böhme, Swedenborg, le Sacre Scritture, Milton e i mistici medievali preferiti da Blake si rispecchiano nella mitologia celtica, in Nietzsche e nell’occultismo amati e studiati da Yeats». Soprattutto in Nietzsche Yeats aveva trovato un pensiero che «scorreva violentemente nello stesso letto dove era passato quello di Blake».

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William Butler Yeats (1865 – 1939)

Tra i grandi ispiratori di Blake, i più influenti furono Swedenborg, Jacob Böhme e altri mistici ed alchimisti che parlavano dell’immaginazione come del “corpo di Dio”, delle “membra divine”: da questa intuizione ne trasse come corollario ciò che nemmeno i suoi “maestri” avevano compreso, cioè che «la comunione di tutte le creature viventi, sia giuste che peccaminose, suscitata dalle arti immaginative, è il perdono dei peccati predicato da Cristo» [p. 14]. Egli comprese queste Verità nell’arco della sua vita attraverso una serie di visioni mistiche: in uno degli ultimi anni confermò di scrivere sotto ordine degli spiriti e rivelò [p. 45]:

Non appena smetto di scrivere vedo le parole volare per la stanza in tutte le direzioni. Poi il libro è pubblicato e gli spiriti possono leggerlo. 

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William Blake, “Satan in His Original Glory”, 1805

La sensazione di essere stato prescelto fin dal momento della nascita dalle intelligenze divine per una missione spirituale di cui avrebbe beneficiato l’umanità intera — o, perlomeno, chiunque avesse potuto comprendere le sue rivelazioni senza rimanere accecato dalla loro luce abbagliante — lo accompagnò fin dalla giovinezza. Una profezia di Swedenborg in particolare sembrò convincerlo una volta per tutte di ciò, al punto da rimanere impressa nella sua mente per tutta la vita, come racconta Yeats [p. 22]:

Swedenborg aveva affermato che il vecchio mondo sarebbe finito e un nuovo mondo sarebbe cominciato nell’anno 1757. Da quel momento in poi le vecchie teologie sarebbero state arrotolate come una pergamena e la nuova Gerusalemme sarebbe scesa sulla terra. Non sappiamo con che frequenza questa profezia riguardante l’anno della sua nascita sia risuonata nell’orecchio di William Blake, ma certamente non avrebbe potuto che ritornargli in mente nel momento in cui le sue strane facoltà cominciarono a manifestarsi riempiendo l’oscurità di volti indistinti e i verdi prati con impronte di fantasmi.

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William Blake, “Dante at the Moment of Entering the Fire”, 1824

RITORNO ALL’EDEN

Sentendosi anche per questo gravato dal crisma del profeta, cui il Fato avrebbe riservato una vera e propria missione salvifica in un’Inghilterra che da lì a pochi decenni sarebbe stata scombussolata dall’avvento e dalle riforme di Cromwell, Blake definì la sua capacità visionaria come un «ritorno allo stato edenico»: nel suo pensiero l’Eden (o la Nuova Gerusalemme, o il Paradiso Ritrovato) sarebbe ricomparso allo scomparire delle vecchie teologie, conducendo così l’umanità ad una vera e propria unione col divino nello splendore della luce così a lungo negata. Nella sua visione escatologica, come si deduce da The Argument The Marriage of Heaven and Hell [p. 34]:

[…] “l’uomo giusto”, e cioè l’uomo immaginativo, camminava nella valle della vita mortale tra rose e sorgenti di acqua di vita fino a quando il “villano”, cioè l’uomo privo di immaginazione, arrivò tra le rose e le fonti e allora “l’uomo giusto” se ne andò irato nella foresta tra i “leoni” della protesta amara. 

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William Blake, “Jacob’s Leddar”, 1799-1806

Per Yeats come per Blake, per accedere alla dimensione ultima (e al tempo stesso primigenia) della realtà occorre abbattere le vecchie forme e strutture, forzando così i nostri sensi ordinari e distruggendo la fitta rete di false deduzioni create dalla ragione, cui nell’escatologia blakiana va attribuita una funzione speculare al velo di Māyā delle filosofie orientali. Il superamento del mondo dei sensi diventa così per Blake sinonimo di ritorno allo stato edenico o, per dirla con Mircea Eliade, una vera e propria esperienza di «uscita di livello» e accesso al «tempo sacro». Nella postfazione in appendice al libretto, Gallesi sottolinea giustamente che, per Blake [p. 60]:

Il visionario sa istintivamente che in origine Dio e l’uomo erano una cosa sola, ed è compito dell’arte mostrare questa verità a tutti; in questo senso si può parlare di arte profetica, non come predizione bensì di svelamento, poiché la caduta dell’uomo non accade in una dimensione cronologica ma ontologica; la frattura dio-uomo può essere sanata in qualsiasi momento, qualora l’uomo sia disposto “a farsi trasportare in cielo dalle ali dell’immaginazione e ad aprire le porte della percezione”. 

Agli occhi di Blake, il rinnovato incontro con Dio sarebbe simile a una sorta di ricongiungimento con il nostro Sé divino: una delle immagini più spesso usate per descrivere simbolicamente il processo immaginativo e visionario è quello di un’allodola che salendo in cielo incontra a metà strada un’altra allodola che scende, e in cui si rispecchia. In questo senso quello dell’artista con la Verità eterna che giace dietro il velo dei sensi è paragonabile a uno ieros gamos tra il cielo e la terra che si rinnova eternamente. Idea che sicuramente incontrava il plauso di Yeats, secondo cui [p. 60]:

Il poeta deve proseguire a perfezionare le forze e la percezione terrena fino a sublimarle in modo che la forza e la perfezione divina scendano a incontrarle, e il canto della terra e il canto del cielo si uniscano. 

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William Blake, “The Reunion of the Soul & the Body”, 1813

IL POTERE DELLA VISIONE

Centrale ai fini della maturazione di tali idee fu l’osservazione della natura durante le sue lunghe passeggiate londinesi verso sud nel Surrey e verso nord vicino alla Wellings’ Farm, nonché lo studio dell’arte religiosa tra i soffitti a volta dell’Abbazia e le tombe del cimitero limitrofo: fu allora che, baudelairianamente, «le torri e le guglie diventarono dei geroglifici per l’immaginazione poetica», al punto che giunse a scrivere e ripetere in svariate occasioni che «il modello gotico è un modello vivente» e a paragonare le grandi chiese gotiche alla tomba di Cristo [pp. 27-8]. Da questo punto di vista, spiega Yeats [p. 28]:

Cristo era il nome simbolico dato da Blake all’immaginazione, e la tomba di Cristo non poteva essere altro che un rifugio, dove l’immaginazione poteva dormire in pace fino al momento in cui Dio l’avrebbe risvegliata. Quale rifugio più bello di questa antica Abbazia avrebbe potuto trovare? Fuori la massa “indefinita” schiamazzava e si accalcava mentre dentro le forme “definite” dell’arte e della visione si raccoglievano ed erano in pace. 

Tra le visioni che ebbe non si può non citare il momento in cui, all’interno dell’Abbazia dove svolgeva il suo apprendistato, gli apparvero i 12 apostoli in spirito. Ma forse ancora più importanti per la formazione dell’artista furono le visite in sogno che Blake ricevette da un’ombra che assomigliava a suo fratello Robert, prematuramente deceduto (Blake sostenne anche di aver visto il suo spirito ascendere al cielo applaudendo con gioia), che gli insegnò a incidere le poesie sul rame e a stampare le illustrazioni e le decorazioni ai margini delle stesse.

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William Blake, “Queen Catherine’s Dream”, 1783-1790

Riallacciandosi forse in maniera non voluta alla tradizione britannica dei fairies come spiriti dei trapassati che ci accompagnano pur dimorando in una dimensione invisibile, Blake espresse la convinzione, in una missiva inviata a un amico, che «i nostri amici defunti sono realmente con noi più di quanto appaiono alla nostra parte mortale», concludendo che [p. 35]:

[…] ogni perdita terrena è un guadagno immortale. Le rovine del tempo costruiscono dimore nell’eternità. 

D’altronde, fra le varie apparizioni in cui Blake ebbe modo di imbattersi durante gli anni, ci furono anche fantasmi ed entità feriche (sembra che anche Böhme abbia sperimentato lo stesso tipo di visioni): Blake descrisse le fate come «i sovrani del mondo vegetale» e per lui il termine “vegetale” significava “corporeo” e “sensuale”. Blake sperimentò queste visioni quando, lasciata Londra nel 1800, si stabilì nel villaggio di Felpham, i cui luoghi colpirono grandemente la sua immaginazione: «Blake incontrò re, profeti e poeti di ogni genere, che camminavano in spettrali processioni sul bordo del mare, “ombre maestose, grigie ma luminose e di statura superiore a quella umana”». Ad una signora che viveva nelle vicinanze raccontò di aver assistito al funerale di una fata [p. 43]:

[…] notai che la larga foglia di un fiore si stava muovendo e sotto vidi una processione di creature delle stesse dimensioni e dello stesso colore delle cavallette verdi e grigie. Trasportavano un corpo disteso su una foglia di rosa che seppellirono cantando per poi scomparire. 

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William Blake, “Europe: a Prophecy”, 1794

L’ETERNO SCONTRO TRA LOS E URIZEN

È importante sottolineare l’ambiguità del regno vegetale nell’escatologia blakiana: se da una parte egli riteneva che tutti gli “eventi naturali” fossero dei messaggi simbolici provenienti da potenze misteriose, dall’altra lo vedeva come il «regno di Satana», connesso appunto alla parte “corporea” e “sensoriale” dell’essere umano, e quindi alla parte “bassa” dell’immaginazione. Forse per definire la sua duplice visione nei confronti della Natura, Blake mise in giro durante la sua permanenza a Felpham, sotto forma di un’assurda parabola, la storia del leggendario Hayley, del quale si diceva che avesse due mogli e che ne tenesse una in un bosco incatenata al tronco di un albero [p. 45]. Ai suoi occhi il Giudizio Universale «non sarà il processo gestito da un legislatore personificato, ma l’affrancamento dalla “natura” e dalla “comprensione corporea”».

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Nei Prophetic Books egli espone al lettore la convinzione che «Dio si trovi nei più minuscoli effetti così come nelle più grandi cause»; essendo la creazione la “discesa” di Dio a causa della debolezza dell’uomo, tutto sulla terra è visibile come parola di Dio e come Dio nella sua essenza. Tuttavia, «quella parte della creazione che possiamo toccare e vedere solo coi sensi corporei è “infetta” a causa del potere di Satana, che tra gli altri nomi ha anche quello di “Opacità”: ecco quindi che l’altra parte che possiamo toccare e vedere solo coi nostri sensi spirituali e chiamiamo “immaginazione” è davvero «il corpo di Dio e la sola realtà» [p. 39]. Scrive Yeats in “William Blake: a biography” [p. 48]:

Blake vedeva […] dappertutto il contrasto universale tra luce e oscurità e non fu mai sereno. Per lui l’universo appariva pieno di un’intensa energia che era allo stesso tempo infinitesimale e infinita, dato che in ogni filo d’erba e in ogni granello di polvere, Los, “la mente eterna”, combatteva contro il drago Urizen, “il Dio di questo mondo”

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William Blake, “The Great Red Dragon and the Woman Clothed with the Sun”, 1805-1810

Questa visione manicheista, che presenta notevoli punti di contatto anche con il Mazdeismo iraniano (in A Vision Yeats ricorda come «senza aver mai letto Hegel vedeva il mondo come conflitto, dato che la sua mente era stata piena di Blake dall’infanzia in poi»), viene da Blake rappresentata soprattutto dal conflitto simbolico di Los, il principio formativo divino che sta metà strada tra l’esistenza assoluta e la vita corporea (paragonabile al Logos dei neoplatonici), contro Urizen, il satanico «dio di questo mondo» e «creatore di leggi morte e araldo della cieca negazione» [p. 41]. Per liberarsi dalla morsa di Urizen l’uomo ha solo una via da percorrere: abbellire e vivificare la propria esistenza con l’arte e l’immaginazione, allenando i propri sensi spirituali (“dilatati” rispetto ai sensi ordinari “opachi”, sottoposti al giogo di Urizen).

Opponendola in una dicotomia con la ragione, col cui termine Blake intendeva le deduzioni legate alle osservazioni dei sensi («credeva fermamente che la fredda e logica ragione analitica fosse la più omicida di tutte le facoltà» [p. 27]), egli pose l’immaginazione come unico vero perno attraverso cui liberarci dalla mortalità e dalla precarietà di un’esistenza altrimenti priva di un vero appiglio superiore.

Nella sua visione, «le sensazioni di questo “stupido corpo”, questa “ombra della terra e dell’acqua” non erano altro che cose semi-viventi, cose “vegetative”, ma la passione, quella “gloria eterna”, le aveva fatte diventare una parte del corpo di Dio»: ciò essendo quel che capita all’artista quando, mettendosi al servizio dell’Arte intesa nel suo senso più elevato, diventa in qualche modo un Sacerdote dell’Immaginale, un vero e proprio pontifex per chi sia in grado di fruire in modo integrale delle sue opere.

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William Blake, “The Death of the Virgin”, 1803

LA BEATA MORTE

Anche per questo Blake accolse il trapasso, che avvenne a 70 anni d’età, a braccia aperte. Nel 1827 venne colpito da una strana malattia e fu preda di brividi e continui svenimenti. Negli ultimi mesi di vita egli scrisse ad un amico [p. 50]:

Sono arrivato molto vicino ai cancelli della morte e sono tornato debolissimo, un vecchio fiacco e traballante nel corpo, ma non nell’anima o nello spirito, non nella mia essenza di uomo che è l’immaginazione che vivrà in eterno. Qui divento sempre più forte man mano che questo stupido corpo si corrompe. […] Raxman se ne è andato, e noi dovremo tra non molto seguirlo nella nostra dimora eterna, lasciando le delusioni di Dea Natura e le sue leggi per liberarsi dalle leggi dei numeri, nello spirito dove ciascuno è re e sacerdote nella propria casa. Tale è la volontà di Dio così in cielo come in terra. 

Poco prima di spirare assunse un’espressione beata e con lo sguardo raggiante cominciò a cantare tutte le cose che vedeva in paradiso. «Fece tremare il soffitto», raccontò uno dei presenti; e una pensionante della stessa casa, presente al momento della morte, disse [p. 51]:

Non ho assistito alla morte di un uomo, ma a quella di un angelo benedetto dal Signore. 

"The Soul Hovering over the Body"
William Blake, “The Soul Hovering over the Body”, 1813