Il Mythos e il Logos: la sapienza greca nei miti platonici

Conoscere se stessi e il mondo delle idee tramite il mito, o, in altri termini, giungere al Logos tramite il Mythos: questa l’idea principale che regge la sapienza greca, come ha divinamente illustrato Platone nelle sue opere. Il mito della caverna, il mito di Er, quello dell’auriga e di Eros ci illustrano che in quella che noi chiamiamo “realtà” nulla è certo, tutto è in continuo movimento: la verità si trova al di fuori del fuoco, al di fuori della caverna e della mente stessa, dunque nel mondo delle idee, che Platone chiama “iperuranio”; ovvero, “al di là del cielo”.


di Samuele Baricchi
copertina: Jean Delville, “School of Plato”

Il mito nella cultura greca rappresenta il fondamento della società delle città-stato e della vita dell’uomo greco. In età arcaica le popolazioni micenee guardano con ammirazione al cielo, e, riprendendo un tipo di sapienza ancora più antica, prevedono gli eventi futuri, rileggono il passato, analizzano il presente. I Greci avevano una mitologia collettiva molto ben strutturata, per esempio da Esiodo e da Omero; noi uomini contemporanei e moderni ce li creiamo da soli, in quanto padroni del nostro destino, grande eredità e lascito dell’umanesimo e del periodo storico del Rinascimento.


Gli Eroi, figli degli Dèi, e il Fato

La grecità pone le sue fondamenta in un’era ancestrale, in cui il sangue degli eroi si mescola con quello degli dèi. Le dinastie greche giustificavano il proprio potere politico tramite una discendenza divina, e questo non solo in età arcaica, bensì anche in un’era più recente, e persino nell’epoca ellenistica, successiva alle conquiste di Alessandro il Grande. Achille, il più potente e veloce degli eroi della guerra di Troia, discende per parte di madre dalla stirpe delle creature divine e immortali, Teti, legata al mare, all’acqua, all’inconscio, nella simbologia comune. L’acqua, anche junghianamente, rappresenta sempre la mente stessa.

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Michel Martin Drolling, “The Anger of Achilles”

Lo stesso Alessandro fece in modo di essere considerato da tutti i popoli da lui conquistati il discendente di Amon, per gli Egizi, e di Zeus o di Eracle, inizialmente, o di Dioniso, da parte di madre, una madre che aveva origini orientali come lo stesso dio Dioniso, che secondo il “mythos” si spinse oltre i confini della terra allora conosciuta, e viaggiò fino in India, sulle sponde del fiume Oceano, che avvolge le terre emerse, secondo la visione della terra per i Greci.

Ma gli eroi greci non sono solo “semidivini” per nascita. Analizzando i miti, il loro stato semi-divino (o eroico) emerge anche nella misura in cui, durante la loro vita, abbiano saputo comprendere la potenzialità della loro stessa psiche, della profondità dell’aspetto inconscio, utilizzando queste potenzialità ognuno, per quanto concerne il mito omerico, secondo le rispettive predisposizioni.

Odisseo è un capo tribale, al pari di Achille, e nonostante sia uomo comune, riesce in ogni caso ad essere considerato “eroico” in quanto utilizza la sua intelligenza per poi vincere la stessa guerra di Troia. Si potrebbe quasi affermare che il vero eroe della mitologia omerica, e della grecità, sia Odisseo, l’uomo legato al “logos” più di tutti gli altri, che con i suoi stratagemmi e ragionamenti, riesce, anche durante l’Odissea, poema di cui è protagonista, a sopravvivere e ad andare oltre ogni avversità. Ogni eroe omerico ha di per sé un diverso approccio alla realtà.

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Giovanni Domenico Tiepolo, “The Procession of the Trojan Horse into Troy”

Agamennone, devoto agli dei al punto da sacrificare la sua stessa figlia, Ifigenia, ma devoto alla causa della conquista della Tessaglia più di ogni altra cosa, perpetua il sacrificio per avere venti favorevoli per partire verso Troia. Il significato morale di questo gesto, dal punto di vista degli dei, si esplica nel momento in cui viene imposto dagli dèi proprio perché, per quante morti quella guerra avrebbe causato, Agamennone sarebbe stato l’uomo ad aver sofferto più di tutti gli altri.

Nel mito greco antico vi è sempre una sorta di devozione cieca al Fato e ai capricci degli dèi, ma anche un significato profondo che riflette il desiderio di conoscenza di tutta la popolazione che s’affaccia sul mar Egeo. Le mura di Troia, non a caso, sono concentriche e ricordano le mura di Atlantide, simili ad orbite celesti. L’uomo antico guardava il cielo e, dai movimenti degli astri, comprendeva in parte la sua stessa vita, il suo stesso modo di essere, e la sua predisposizione alla creatività, al costruire, e rifletteva l’universo sopra di sé, trasponendolo sulla terra, con le sue opere architettoniche.

Anche le città di derivazione celtica sono costruite in quel modo, mentre in epoca più recente gli antichi Romani iniziarono a costruire le città seguendo lo schema dei propri accampamenti militari, a pianta quadrata. Il quadrato è comunque inscrivibile in una sfera: tutto ritorna al cerchio, all’Uroboro e all’eterno ritorno del tempo ciclico, che l’uomo è portato a percepire per via della sensibilità derivata dall’osservazione, anche inconscia, dei cicli delle stagione, del giorno e della notte. Sole, Luna e notte, e poi di nuovo Sole, Luna e ancora notte. Così all’infinito, nella mente dell’uomo; e quindi anche nella sua facoltà immaginativa.

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Mary Evans, “Plato’s Cave”

Platone e il mito della caverna

Il mito è infatti, secondo Platone, filosofo discepolo di Socrate, l’iniziatore del metodo di ragionamento scientifico, interrogare gli altri e mai credere ciecamente, chiedersi sempre perché, e arrivare alla causa prima delle cose e delle questioni, una “menzogna” esplicata alle persone comuni per argomentare tramite degli esempi, delle storie, delle fiabe, problematiche e questioni filosofiche estremamente complesse. Platone nelle sue opere usa il “mythos” proprio affermando il fatto che questi miti sono spiegazioni verosimili della realtà, non dimostrazioni comprovate delle sue teorie, ma bensì degli esempi archetipici, esemplificativi, redatti per spiegare questioni molto complesse.

Il mito più famoso di Platone riguarda la caverna. Vi è un fuoco, al centro della caverna: il filosofo Eraclito vedeva nel fuoco l’elemento principale e primigenio della realtà, in continuo movimento. Il principio del reale si estrania nell’elemento del fuoco. Le persone sono legate di schiena, e vedono sul fondo della caverna le ombre mutevoli proiettate dal fuoco, che fa filtrare la sua luce attraverso dei simulacri, poggiati alle spalle degli uomini.

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Il filosofo, e lo stesso Socrate, per Platone, svolge quest’azione: si slega, tramite la facoltà della ragione, del “logos”, e si volta di faccia e di petto verso i simulacri, scoprendo che proiettavano ombre mendaci e false sul fondo della caverna. Svolgendo un altro passaggio, scopre addirittura che la luce che era convinto di vedere, è alimentata da un fuoco, la stessa realtà fisica, in continuo movimento, in continuo mutare, dove nulla è certo, ma il filosofo, oltrepassando il fuoco, giunge all’uscita della caverna, per vedere infine il Sole. In questo mito vi è l’elemento della caverna, la coscienza umana, la mente, la psiche, che è abituata a vedere immagini proiettate da un fuoco, la realtà, direttamente sulla sua profondità; ma la verità, secondo Platone, si trova al di fuori del fuoco, al di fuori della caverna e della mente stessa dunque, nel mondo delle idee, che chiama “iperuranio”. Ovvero, “al di là del cielo”.

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Rene Magritte, “The Human Condition”

Platone sostiene che le idee degli uomini, qualsiasi idea, in realtà esista già in uno stato che va oltre ogni cielo e ogni universo, a uno stato molto sottile, ma anche molto “alto”, molto profondo, al di là di ogni percezione e osservazione. Le idee terrene, le idee degli uomini mortali, sono semplicemente l’imitazione della natura che si trova al di là delle sensazioni. La sensazione ultima, la percezione finale, è quindi per Platone la “non” sensazione, solo lì, uscendo completamente dalla propria psiche, turbata dalle ombre proiettate dal fuoco, e dalla propria percezione, addirittura quella razionale, che è comunque limitata perché si trova “dentro” la caverna, l’uomo può uscire completamente da se stesso, e dai suoi limiti, e vedere il Sole, l’autentico “logos”. Il Sole dal punto di vista archetipico è anche elemento di vita, luce che si contrappone al buio delle profondità della caverna. Il Sole e il cielo azzurro al di fuori della caverna rappresentano l’iperuranio stesso, dove Platone pone la “vera” realtà.

Questo tuttavia porta non tanto Platone, ma il platonismo e il neoplatonismo a svilire la realtà sensibile, e lo stesso Platone considerava l’arte in modo negativo, in quanto “imitazione” di una realtà che già di per sé imita la realtà sovrasensibile, la “vera” realtà per il filosofo greco antico. Si potrebbe quasi dire, quindi, che dall’arte, andando a ritroso, si può conoscere la realtà, anche se essa è “mimesi” del reale. Tuttavia Platone utilizzava come metodo fondamentale di conoscenza la reminiscenza, ovvero il “ricordare”, l’anamnesi.

Nella mente degli uomini sono già presenti le idee, così come sono nell’iperuranio, sta tutto nel ricordare. È quindi un processo a ritroso, e si potrebbe affermare che anche dalle manifestazioni estetiche dell’arte è possibile compiere quest’anamnesi, questo ricordare, anche dalla letteratura fantastica. Lo stesso Platone infatti usa esempi tratti dall’ambito immaginativo per spiegare concetti molto complicati: la stessa letteratura fantastica, come si può notare, è pregna di quell’archetipica e ancestrale ricerca del sé autentico, attraverso miti inventati da scrittori, storie e fiabe per uomini adulti.

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Le città-stato greche, la “Repubblica” e il Logos

Un altro mito che usa Platone per giustificare politicamente il potere, da filosofo, è quello della creazione degli uomini. Essi infatti sono stati creati, secondo il mito platonico raccontato nella “Repubblica” dagli dei che hanno mescolato in essi, nella loro essenza e sostanza, diversi elementi. I governanti hanno in sé l’oro. A scendere, nelle classi sociali, l’argento, il bronzo e, infine, il ferro. Platone divide la società ideale della “Repubblica” secondo caste, per usare un termine relativo alla cultura indiana, dove quest’aspetto è sempre stato molto forte. La casta governante, nella società ideale, è quella dei filosofi, e non quindi di coloro che discendono da stirpe divina, ma di coloro che hanno in sé l’oro. L’oro ricorda il Sole e il Sole è l’immagine visibile del “logos”.

Gli uomini che governano, quindi, nella visione platonica della società, non devono essere coloro che si fregiano di essere uomini “comuni”, come tanto va in voga oggi giorno nella politica, né tanto meno chi si fregia di avere particolari titoli e competenze. Il governante, per Platone, dev’essere il filosofo, ossia colui che sa, e socraticamente, essendo Platone allievo di Socrate, colui che sa di non sapere, e quindi, sapendo di non sapere, non si accontenta dei dogmi e delle credenze, ma continua a cercare, continua a osservare, continua a ragionare e, quindi, scopre sempre qualcosa di nuovo e si avvicina al Sole fuori dalla caverna, fuori dalla propria mente, dalla propria psiche, fuori di sé, nell’iperuranio, al di là di ogni cielo e universo.

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L’essenza stessa delle cose ha una natura invisibile, molto sottile, ma esiste, ed esiste al di fuori del reale, il reale è solo imitazione della “vera” realtà. Il governante deve necessariamente corrispondere al filosofo, nella “Repubblica” di Platone. Il filosofo è colui che cerca il principio, che per la filosofia greca — mettendo da parte i presocratici che ricercavano il principio negli elementi naturali, negli archetipi della terra che si dispiegava davanti ai loro occhi, il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra, l’infinito, l’“apeiron”, l’illimitato — coincide con il “logos”, da Socrate in poi.

Ovvero, coincide con la stessa facoltà psichica umana, con la stessa mente umana, con il ragionamento, il verbo, la parola, ma anche perché per i Greci tutto ha un aspetto duale — e i primi filosofi avevano scambi e comunicavano con le culture orientali, sia nell’ambito commerciale sia dal punto di vista intellettuale — la parola all’interno di sé, quindi l’inconscio. Il governante nella “Repubblica” di Platone è colui che segue il “logos”. Fregiarsi di essere persone “normali”, vuole anche dire di ammettere di essere mediocri, così come è impossibile definire che gli uomini siano tutti uguali, come afferma Nietzsche: sarebbe un vero e proprio delitto contro il “logos” stesso. Tuttavia, nella visione platonica della società, solo il filosofo può comandare in quanto dubita di se stesso in continuazione: sa di non sapere.

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Pianta dell’Atlantide platonica

Dunque ogni prospettiva politica in cui ci si fregia di essere “meglio” degli altri, più competente, oppure ci si vanta quasi di essere “comune”, perché gli uomini sono e devono essere tutti uguali, non può funzionare nella “Repubblica” di Platone. Solo chi è veramente assennato, e riesce ad andare al di fuori della caverna, al di fuori di ogni preconcetto, e riesce a seguire la luce del Sole in un viaggio verso di esso, deve governare, perché gli dèi hanno creato colui che segue il “logos” con dell’oro, non con dell’argento, o del bronzo, o del ferro. Da questo concetto Platone snocciola tutta la società dividendola in classi, e queste classi non si devono mescolare tra loro, altrimenti la società si sbriciola, e si svilisce, e si allontana dalla verità, diventando mimesi di un’ulteriore mimesi che già la realtà stessa è, rispetto al mondo delle idee, l’iperuranio. In questo Platone riecheggia idee che ricordano le caste indiane.

Tuttavia, è bene ricordare che l’uomo greco mai s’inginocchia o si sottomette, quindi il filosofo che governa dev’essere abbastanza assennato da evitare di diventare un tiranno. Alessandro il Grande non ebbe difficoltà a governare quei popoli che anticamente erano già abituati a inginocchiarsi, come i Persiani, che da sempre erano abituati alla tirannia, ma invece, non riuscì mai a governare i suoi stessi Greci, che si rifiutavano d’inginocchiarsi e di aderire a costumi per loro estranei e “barbari”, nel senso di non provenienti dal territorio greco delle poleis, le città-stato.

Queste città-stato derivano da una visione tribale della società; durante la guerra di Troia, secondo il mito omerico, i vari “wanax”, i comandanti delle città-stato, che all’epoca erano poco più che piccole tribù e congregazioni di villaggi, si uniscono in un unico assedio della città di Ilio. Achille era al comando dei mirmidoni, Agamennone dei micenei, Menelao degli spartani.

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William Blake

Il mito di Er e l’immortalità dell’anima

Il mito di Er parla dell’immortalità dell’anima, insieme al mito della biga alata. Ognuno di noi, secondo Platone, è una creatura millenaria, che ha scelto questa vita in base al tipo di esistenza che ha avuto prima. Questo mito escatologico è influenzato fortemente dal mito orfico della metempsicosi, ripreso anche dai pitagorici, e Platone adduce alla metempsicosi un aspetto morale, mentre per l’orfismo la metempsicosi rappresentava semplicemente un fenomeno naturale, senza responsabilità da parte dell’anima dell’individuo.

Er, figlio di Armenio, un soldato valoroso originario della Panfilia, morto in battaglia, mentre stava per essere arso sul rogo funebre, si ridestò dal sonno mortale e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà. La sua anima appena uscita dal corpo si era unita a molte altre e camminando era arrivata in un luogo divino dove i giudici delle anime sedevano tra due coppie di abissi, una diretta in cielo e l’altra nelle profondità della terra. I giudici esaminavano le anime e ponevano sul petto dei giusti e sulle spalle dei malvagi la sentenza ordinando ai primi di salire al cielo e agli altri di andare sotterra. Avevano quindi ordinato a Er di ascoltare e guardare ciò che avveniva in quel luogo per poi raccontarlo. Dalle voragini intanto uscivano delle anime sporche e lacere che avevano viaggiato per 1000 anni, in cielo o sottoterra, per espiare le loro colpe.

Chi in vita aveva commesso ingiustizie veniva punito con una pena 10 volte superiore al male commesso, mentre le buone azioni venivano premiate nella stessa misura. Tutti i castighi inflitti erano temporanei, meno quelli riservati a pochi, come per esempio ad Ardieo, despota di una città della Panfilia che aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore e aveva compiuto molte altre nefandezze. Quando i più malvagi, come i tiranni, tentavano di uscire dalla voragine, questa emetteva una sorta di muggito ed allora venivano presi, scorticati e rigettati negli Inferi. Questo mito riecheggia fortemente certe dottrine orientali, come per esempio il ciclo delle reincarnazioni nell’Induismo, attraverso le infinite ronde del Samsara, e la dottrina del karma.

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Ananke e le tre Moire nel mito di Er

Le anime rimaste per sette giorni in quel luogo venivano poi costrette a camminare per quattro giorni fino a quando giungevano in vista di una specie di arcobaleno dove a un capo pendeva il fuso, simbolo del destino, posato sulle ginocchia della dea Ananke (Necessità). Il fuso aveva un contrappeso formato da otto vasi concentrici rotanti, disposti uno dentro l’altro. Su ogni cerchio vi era una sirena che emetteva il suono di una sola nota che unendosi alle altre formava un’armonia.

Le figlie di Ananke, le tre Moire, sedevano in cerchio poco distanti dalla madre: Cloto filava e cantava il presente, Lachesi il passato, e Atropo, “colei che non può essere dissuasa”, il futuro. Un araldo presentava le anime disposte in fila a Lachesi e, dopo aver preso dalle sue ginocchia un gran numero di sorti e modelli di vita, procedeva al sorteggio avvertendo che ognuno sarebbe stato responsabile della sua scelta e che nessuno sarebbe stato favorito poiché anche chi avesse scelto dopo il primo avrebbe avuto dei paradigmi di vita sempre più numerosi di coloro che dovevano ancora scegliere.

Er raccontava poi come le anime commettessero degli errori nello scegliere: ad esempio un’anima che era venuta dall’alto dei cieli e che era stata virtuosa solo per abitudine, avendo vissuto in una città ben governata, per desiderio di novità aveva scelto frettolosamente la vita di un tiranno per accorgersi poi, rimproverando la sua cattiva sorte, come questa fosse carica di dolori. Le anime provenienti dal basso invece avevano imparato dalle loro esperienze terrene e avevano scelto con maggiore giudizio. I più però sceglievano seguendo il modo in cui hanno vissuto precedentemente: ma non tutti. Per esempio, se Agamennone aveva scelto di vivere come un’aquila, Odisseo, stanco di rischiose avventure, aveva preferito la vita di un qualsiasi uomo tranquillo.

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Arnold Böcklin, “Odysseus and Calypsos”

Dopo aver compiuto la scelta ogni anima riceveva da Lachesi il “daimon”, il genio tutelare, che avrebbe sorvegliato che si compisse la vita prescelta; quindi l’anima doveva andare da Cloto a confermare il suo destino e infine da Atropo che lo rendeva immutabile. Le anime poi s’incamminavano attraverso la deserta e calda pianura del Lete, e, fermatesi per riposare sulle sponde del fiume Amelete (“fiume della dimenticanza”), tutte, tranne Er, furono obbligate a bere l’acqua che dà l’oblio e chi non era saggio ne beveva smoderatamente. Giunta la notte, le anime stavano dormendo quando a mezzanotte un terremoto le gettò nella nuova vita assieme a Er che, svegliatosi sulla pira funebre, poté raccontare la sua esperienza nell’aldilà.

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Il caso non assicura una scelta felice mentre determinanti potranno essere i trascorsi dell’ultima reincarnazione. Scegliere, nella visione platonica, significa infatti essere coscienti criticamente del proprio passato per non commettere più errori e avere una vita migliore. Le Moire renderanno poi la scelta della nuova vita immodificabile: nessuna anima, infatti, una volta operata la scelta potrà cambiarla e la sua vita terrena sarà segnata dalla necessità. Le anime si disseteranno con le acque del fiume Lete, ma quelle che lo hanno fatto in maniera smodata dimenticheranno la vita precedente, mentre i filosofi, che guidati dalla ragione hanno bevuto poco o niente, manterranno il ricordo dell’iperuranio di modo che, riferendosi ad esse, potranno ampliare la loro conoscenza durante la nuova vita ispirata e guidata dal proprio “daimon”.

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Gustavo Dore, “Dante nell’Empireo”

La biga alata e il mito di Eros

Il mito del carro e dell’auriga, o mito della biga alata, raccontato nel “Fedro” di Platone, serve a spiegare la teoria platonica della reminiscenza dell’anima, un fenomeno che durante la reincarnazione produce ricordi legati alla vita precedente. Racconta di una biga su cui si trova un auriga, personificazione della parte razionale o intellettiva dell’anima (logistikòn [λογιστικόν]). La biga è trainata da una coppia di cavalli, uno bianco e uno nero: quello bianco raffigura la parte dell’anima dotata di sentimenti di carattere spirituale (thymoeidès [θυμοειδές]), e si dirige verso il mondo delle Idee; quello nero raffigura la parte dell’anima desiderativa (epithymetikòn [ἐπιθυμητικόν]) e si dirige verso il mondo sensibile. I due cavalli sono tenuti per le briglie dalla ragione, che non si muove in modo autonomo ma ha solo il compito di guidare.

L’anima deve muoversi, per Platone, sempre verso l’iperuranio, al fine di conoscere l’essenza della realtà, che è mimesi del mondo delle idee. Nel “Simposio” troviamo il mito di Eros, figlio di Penìa e di Poros, che rappresenta lo spirito vitale che è fondamento ed energia dell’anima e del “logos”. Eros è ciò che smuove e anima l’auriga del mito della biga alata raccontato nel “Fedro”. Penìa rappresenta la povertà, Poros invece l’ingegno.

« Perciò, in quanto figlio di Poros e di Penìa, Amore si trova in questa condizione: in primo luogo è sempre povero e tutt’altro che tenero e bello, come invece ritengono i più, anzi è aspro, incolto, sempre scalzo e senza casa, e si sdraia sulla terra nuda, dormendo all’aperto davanti alle porte e per le strade secondo la natura di sua madre, e sempre accompagnato dall’indigenza. Invece per parte di padre insidia i belli e i virtuosi, in quanto è coraggioso e ardito e veemente, e cacciatore astuto, sempre pronto a tessere intrighi, avido di sapienza, ricco di risorse, e per tutta la vita innamorato del sapere, mago ingegnoso e incantatore e sofista; e non è nato né immortale né mortale, ma in un’ora dello stesso giorno fiorisce e vive, se la fortuna gli è propizia, in altra invece muore, ma poi rinasce in virtù della natura del padre, e quel che acquista gli sfugge sempre via, di modo che Amore non è mai né povero né ricco, e d’altra parte sta in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza. »

— Platone, “Simposio”

Eros è rivolto al mondo delle idee, alla conoscenza di un iperuranio che è estraniazione e raffigurazione della mente stessa dell’uomo. Conoscere il mondo delle idee, e tutto ciò che si trova al di là dei cieli e di ogni universo, è conoscere se stessi.

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Una rilettura moderna del mito della caverna platonica, della pittrice Hamill Lalita

Vivere il mito e conoscere se stessi oggi

Questo è quanto emerge, oggi come allora, da un’attenta lettura dei miti platonici. A questo punto ci viene automatico chiederci: come conoscere se stessi oggi? Quali miti nella nostra epoca possono considerarsi validi “aggiornamenti” di quelli messi per iscritto dai più grandi filosofi e cantori greci, più di duemila anni fa?

Nella letteratura fantastica, noi crediamo, si può rinvenire il naturale anelito umano verso la creazione mitopoietica; e tale creazione è strettamente connessa alla capacità degli autori di rendere in una forma poetica o letteraria gli accadimenti mitici rappresentazioni inconsce di sé  che il rispettivo “daimon” ha destinato loro al momento della reincarnazione nel piano sublunare.

La letteratura del Fantastico per esteso, il Fantasy e lo “sword & sorcery” raccontano miti, “canalizzati” da scrittori come Robert E. Howard, Clark Ashton Smith, C. L. Moore e il più recente Michael John Moorcock che nient’altro sono che percezioni estatiche della facoltà immaginativa umana, dello spirito dell’uomo che anima ogni sua opera, quell’Eros del “Simposio” platonico, quell’auriga che cerca disperatamente l’iperuranio e guida la biga alata verso il cielo, e dal cielo oltre l’infinito.

« Verrai con me ad Atlantide? Là, per vie di marmo giallo e azzurro, scenderemo ai moli d’oricalco e sceglieremo una galea con le vele in seta di Tiro e la polena d’oro che rappresenta Eros. Insieme ai marinai che conobbero Odisseo e a belle schiave dai seni ambrati, giunte dalle valli montane di Lemuria, alzeremo l’ancora per isole sconosciute e fortunate del mare esterno; finché, navigando sulla scia di un tramonto d’opale, smarriremo quell’antica terra nel crepuscolo di latte, e su divani di raso e avorio vedremo il sorgere di stelle ignote e astri morti. Forse non torneremo, ma seguiremo l’estate tropicale da un’isola di alcioni all’altra, sui mari d’amaranto del mito e della fiaba; mangeremo il loto, i frutti di terre che Odisseo non ha visto neppure in sogno, berremo i vini chiari delle fate distillati sotto l’eterno chiaro di luna. Ti troverò una collana di perle rosa e una di rubini gialli, ti metterò una corona di coralli preziosi simili a fiori di sangue. Vagheremo nei mercati di città perdute fatte di diaspro e in porti di corniola oltre il Catai; ti comprerò una veste color azzurro pavone damascata d’oro, rame e vermiglio, e una nera di sciamito con rune arancio, tessuta per magia, senza usare le mani, in un oscuro paese di filtri e incantesimi. »

— Clark Ashton Smith, “From a letter”

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Mary Evans, “Atlantide per come descritta da Platone”

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