Le origini “pagane” della festa bolognese della porchetta

Lorena Bianconi è l’autrice del volumetto “Alle origini della festa bolognese della Porchetta” (Clueb, 2005), ricorrenza celebrativa del 24 agosto che caratterizzò le estati bolognesi per almeno 500 anni. L’autrice mette in discussione le supposte origini medievali della festa e attraverso una lettura antropologica della sua ritualità, la comparazione con antichi culti precristiani e analizzando l’uso rituale del maiale nel mondo antico, giunge alla conclusione che potrebbe trattarsi del relitto di antiche ritualità  precristiane connesse al cambio stagionale.

In questa sede potrete leggere due estratti, scelti da noi, di due saggi che la dott.essa Bianconi ha redatto sull’argomento (uno dei quali a quattro mani con la collega Maria Cristina Citroni) e, se voleste approfondire, avrete anche la possibilità di scaricare gratuitamente i due saggi integrali in formato PDF.

S A G G I O # 1

SAN BARTOLOMEO E LA PORCHETTA.
Indagine storico-antropologica intorno a una festa popolare bolognese
Lorena Bianconi

(estratto scelto:)

[…]Non potendo ravvisarsi alcun legame tra la tradizione bolognese e la vita o il martirio di San Bartolomeo, si potrebbe ipotizzare che essa fosse parte di una eredità lasciata da antichi riti pagani, che furono assorbiti in epoca alto-medievale nel culto di San Bartolomeo. L’uso rituale del maiale nel mondo antico è in effetti attestato da una molteplicità di fonti. In diverse culture questo animale ha sempre goduto di una forte e ambivalente carica simbolica, che si manifestava attraverso le forme più svariate di venerazione, sacrificio e pasto comune, oppure assoluta repulsione ed evitamento. In Etruria, in Grecia ed anche a Roma il sacrificio del maiale si verificava per esempio in momenti molto delicati della vita sociale e individuale, la stipulazione di alleanze tra regnanti e i matrimoni: “Romani, Etruschi e antichi Greci uccidevano la Porca nelle alleanze dei regi, ma anche i magnati di Etruria lo facevano, in principio delle loro nozze”, e Festo conferma che “alla fine di una guerra immolavasi una porca nel far la pace”. È quindi lecito affermare che le civiltà che ci hanno preceduto, sovente hanno attribuito al maiale, in particolare alla scrofa, lo status di animale sacrificale.

A questo si può aggiungere che anche la preparazione e il tipo di cottura che doveva subire la porchetta bolognese erano assai vicine a quelle a cui erano destinati gli animali sacrificali del mondo antico. In Grecia, la preparazione di un animale destinato all’immolazione consisteva generalmente nello sventramento, estrazione delle interiora e successiva bollitura o arrostimento della vittima, il cui corpo doveva in ogni caso rimanere intero. Queste prescrizioni erano valide anche nel mondo Romano: il Porcus Trojanus, un maiale che veniva sacrificato in occasione di alleanze e matrimoni, prima di essere servito doveva essere “sbudellato, sventrato, riempito di pepe, aromati, aglio, sale, finocchio fresco e poscia cotto intiero nel forno” e la femmina era reputata la migliore da cuocersi in tal maniera. Ebbene, questo era lo stesso trattamento che subiva la porchetta bolognese, prima di essere gettata al popolo: essa veniva infatti sventrata, riempita “di bonissima robba e perfettissima speciaria” e in seguito arrostita tutta intera, “per non fargli oltraggio, o torto”.

Rimandi alle pratiche sacrificali del mondo antico si riscontrano poi anche nell’attrezzatura che si utilizzava a Bologna per presentare la porchetta poco prima di gettarla al popolo. L’animale, una volta cotto, veniva riposto sopra una particolare tavola (“Sopra un asse ella si vede / cotta bene e custodita)”, che venne utilizzata dai venditori di porchetta almeno fino all’XIX secolo e pare fosse comunemente chiamata “matra”. Quest’asse dovrebbe derivare da una tavola, la “mactra”, che già usavano gli antichi romani.

Si deve inoltre riflettere sul fatto che, nell’ambito della festa del 24 agosto, lo Scalco aveva un compito fondamentale: doveva infatti cucinare e presentare al pubblico la porchetta che sarebbe stata gettata. Nello specifico, questi preparava l’animale togliendo le viscere e riempiendo l’addome di spezie ed aromi, la cuoceva in arrosto e la poneva in mostra sulla matra, seguendo una sorta di cerimoniale. Una volta presentato al popolo l’animale arrostito, egli doveva per prima cosa trinciarne il capo, che veniva gettato separatamente, prima o dopo il resto del corpo e in seguito tagliava tutto il rimanente, che dalla matra veniva gettato sugli astanti. Tutto questo, annunciato ogni volta da squilli di tromba, quasi a segnalare la solennità del momento. Rispetto a questo, si ricordi che in Grecia, “a partire dal V sec. a.C. le diverse operazioni del sacrificio sono assicurate da un personaggio, il mageiros, il macellaio-cuoco-sacrificatore, il cui nome funzionale esprime la convergenza tra l’uccisione delle vittime, il commercio della carne e la preparazione degli alimenti carnei”.

A Bologna dunque, il 24 agosto, lo Scalco assumeva in sostanza le tre funzioni specifiche del mageiros greco: era un macellaio, perché sventrava; era un cuoco, perché insaporiva e arrostiva le carni; era infine anche “sacrificatore”, perché, annunciato da squilli di tromba, presentava al popolo la porchetta e con aria solenne ne trinciava le carni, seguendo una procedura specifica. Possiamo dunque notare come le pratiche relative alla preparazione e alla cottura della porchetta della festa bolognese, l’attrezzatura utilizzata e il ruolo dello Scalco, richiamino in effetti diversi elementi del mondo religioso-rituale degli antichi Greci e Romani, per cui l’ipotesi che l’uso della porchetta durante la festa del 24 agosto potesse essere il residuo di una qualche forma di ritualità precristiana non è del tutto priva di fondamento. D’altra parte, ancora oggi non è raro trovare nelle tradizioni popolari italiane che quasi sempre accompagnano le festività religiose, i resti di antichi riti più o meno arcaici. Questo, specialmente per quanto riguarda le feste che sono in stretta relazione con il cambio di stagione e con le fasi della vita agricola.

Le più antiche forme di religiosità tendevano in effetti a leggere certi fenomeni della natura, soprattutto quelli che si presentavano con regolarità (solstizi, equinozi, arrivo delle piogge, ecc.), come particolari momenti di contatto con il sacro. Per questo, il sopraggiungere di tali fenomeni veniva spesso accompagnato da festeggiamenti e dallo svolgimento particolari azioni rituali. A questo proposito, è forse utile sapere che in molte zone d’Italia (in Lombardia, Campania e Abruzzo, in Toscana, in parte dell’Emilia e sull’Appennino Modenese) il 24 agosto ancora oggi viene indicato come un periodo caratterizzato da cambiamenti climatici, meteorologici, nonché agricoli, considerati annuncio della fine della stagione estiva.

Lo suggeriscono alcuni proverbi, diffusi soprattutto nelle zone di montagna, che identificano in modo piuttosto esplicito il 24 agosto con il momento in cui le prime avvisaglie del cambio di stagione si affacciano sul finire dell’estate. In Veneto per esempio, i montanari vedendo arrivare i primi segni dell’inverno, dicono “Bartolomé non fai per me”, oppure “San Bartolomio, ciò su laa to arzeliva e va’ con Dio” (l’arzeliva è il fieno della seconda falciatura che in montagna si fa alla fine di agosto). In Valtellina si dice “San Bartulamé, muntagna bèla te lasi dedré. A San Bartulamé i muntagni i sta per sé. A San Bartulamé, la montagna la se varda indirée” («San Bartolomeo, montagna bella ti lascio di dietro. A San Bartolomeo le montagne stanno per conto loro. A San Bartolomeo la montagna la si guarda indietro». Il giorno di San Bartolomeo i pastori che erano saliti ai primi di luglio sugli alti pascoli, cominciano a scendere verso la valle con gli animali). In Val Saviore è diffuso il proverbio “Guai a trùas a Linsi o a l’Adamé, dopo San Bartolomé” («è molto pericoloso trovarsi sulle cime più alte dopo il 24 agosto». Linsì sta a indicare la malga Lincino sopra Saviore, ai piedi del ghiacciaio dell’Adamello). […]

(testo integrale, con note e suggerimenti bibliografici:)

S A G G I O # 2

Alla bona Porcellina: Giulio Cesare Croce e la festa bolognese della Porchetta
Lorena Bianconi e
Maria Cristina Citroni

(estratto scelto:)

[…]La celebrazione bolognese andrebbe allora intesa non semplicisticamente come un cinico palliativo per la fame e la miseria del popolo, ma come un vero e proprio gioco rituale collettivo, fondato sul concetto di dono e di allegro spreco, volto a introdurre, semel in anno, in un mondo di uguaglianza, di “sovrabbondanza”, di “felicità” e di pace quasi ultraterrene. Di fatto, si è già accennato altrove a una interpretazione tendente a vedere nella celebrazione bolognese quasi un “rito di pacificazione” sociale, volto ad ottenere una momentanea ma simbolicamente importante concordia tra le classi, una più o meno esplicita espressione del desiderio condiviso dalla popolazione «di una generalizzata tensione all’unità, alla coesione e all’armonia sociale».

Giova ricordare a questo proposito che nel mondo antico il sacrificio del maiale si attuava spesso in occasione di trattati di pace e di stipulazione di alleanze: in questo senso la festa della Porchetta potrebbe essere dunque interpretata, sulla scorta di quell’antica e autorevole tradizione etrusca, greca e romana, anche come una simbolica celebrazione annuale di un “trattato di pace”, di un patto di alleanza “collaborativa” tra nobili e popolo, volto in primis a sancire la propria fondamentale reciproca dignità e necessità.

Si può aggiungere infatti che, in particolare tra il XVI e il XVII secolo, questa festa, sostenuta e patrocinata dalla politica degli anziani consoli del senato bolognese, pur nell’apparente banalità delle sue dinamiche ludiche, sembra avere sullo sfondo un preciso e non casuale scenario a suo modo utopico-paritario, caratterizzato dalla condivisione fra nobili e popolo, oltre che dell’abbondanza di cibo prelibato, anche del fasto di un magnifico contesto e quindi dell’opulenza e della prosperità. Questa peculiare modalità politico-sociale della festa cinqueseicentesca, potrebbe essere dunque considerata una felice espressione di quel «filone della cultura politica controriformistica», evidenziato di recente anche da Gian Mario Anselmi, volta a «benignamente» e «munificamente» riannodare in un «armonioso ordine superiore e divino» le «tumultuanti e riottose vicende “sublunari”, umane e terrene». […]

Sembra dunque avere una certa consistenza nella struttura della festa della Porchetta anche l’identificazione di un evidente, e forse anche ovvio, aspetto ludico, anche se questa indagine necessita certamente di approfondimenti. Si può qui solo accennare, fra i collegamenti possibili, alla connessione della valenza ludica della festa con la funzione psico-sociale e culturale del gioco, studiata, per esempio, da Johan Huizinga in Homo ludens. […]

È qui forse utile ricordare che, come già nel Medioevo, tra XVI e XVII secolo il «principio comico universale» permeava ancora quella visione “popolare” del mondo di cui Giulio Cesare Croce fu portavoce. Potenza rigenerante e rinnovatrice, il riso era addirittura, seguendo Michail Bachtin, il principale veicolo di espressione della «seconda verità sul mondo», di un diverso modo di percepire e interpretare la realtà, non meno importante di quello serio, che fin dall’antichità accompagnò la «cultura ufficiale» come sua immagine speculare e “contrapposta”. Ogni festa, secondo Bachtin, «oltre al suo aspetto ufficiale, religioso e di regime, aveva ancora un secondo aspetto, popolare e carnevalesco, il cui principio era il riso e il “basso” materiale-corporeo».

E infatti, anche nella festa “di piazza” della Porchetta, persino gli aspetti più misteriosi e “terrifici” della vita, così come le pesanti problematiche della convivenza civile, potevano essere oggetto di riso “beneaugurante”. Pensiamo per esempio alle risse o alle «pacifiche battaglie de’ Pugni» che puntualmente si scatenavano fra il popolo per la contesa dei doni gettati: anch’esse possono essere considerate espressione di questo “principio comico rigeneratore” bachtiniano, in quanto è possibile interpretarle come “botte rituali” foriere di fecondità. Anche se le battaglie di pugni possono essere lette come una drammatizzazione catartica del conflitto sociale generato dall’ineguale spartizione delle risorse alimentari, il risvolto comico e la pubblica ritualizzazione, venivano in parte a indebolire la loro potenziale distruttività. Ricorrendo all’ “abbassamento”, alla “diminuzione” metaforica, prodotti dal riso, si otteneva così lo scopo di alleggerire l’aspetto drammatico e ineluttabile della vita. Grazie alle testimonianze del Croce, il vissuto popolare e il significato della festa bolognese della Porchetta, appaiono ora contraddistinti da una grande complessità.

Una complessità che è in fondo la complessità della vita, rivissuta emblematicamente nell’arco di un pomeriggio di fine agosto. Un intreccio di esperienze e di emozioni “di segno opposto”, vissute contemporaneamente all’interno della liberatoria cornice del «riso universale» e del divertimento generale: da una parte la vitalità, la gioiosa carnalità dei giochi e delle burle, l’abbondanza di carne dal profumo «tanto soave, e grato, che un mezzo morto si risentirebbe», dall’altra parte, l’esigenza razionale di riallocare nella metafora utopica la violenza, il “sacrificio”, il conflitto sociale. Un intreccio di significati che, sintetizzando l’atmosfera vitalistica ed esuberante della festa, si è altrove già definito come una sorta di annuale «tuffo rigeneratore» nel «caos primigenio», volto però a creare simbolicamente un nuovo slancio portatore di benefico cambiamento, nel segno dell’ottimismo, della prosperità e della pace collettivi. […]

(testo integrale, con note e suggerimenti bibliografici:)

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