I diabolici convegni di Arthur Christopher Benson

Dagon Press ha recentemente pubblicato in italiano — con il titolo “La finestra chiusa” (traduzione a cura di Bernardo Cicchetti) — i racconti sovrannaturali di Arthur Christopher Benson, insieme a Montague Rhodes James uno dei più significativi “ghost-writer” inglesi di inizio XX secolo, nonché paragonabile per suggestioni e tematiche a scrittori a lui grossomodo contemporanei ed egualmente “esoterici” come Arthur Machen, H.P. Lovecraft e Algernon Blackwood.

di Marco Maculotti

C’è stato un tempo in cui le ‘storie di fantasmi’ venivano prese molto più seriamente di quanto si faccia ora e di quanto si sia mai fatto almeno nell’ultimo secolo. Erano altri tempi, in cui le classi sociali intellettualmente ed economicamente dominanti si esprimevano attraverso un canone letterario del tutto diverso da quello attuale, il quale rispondeva a un canone culturale eterogeneo nelle sue componenti, che inglobava la visione del mondo e del peccato anglicana e protestante insieme alle suggestioni sovrannaturali veicolate negli studi classici, per lo più medievali. Sul finire del XIX secolo, in piena età vittoriana e poi edoardiana, con una manciata di racconti letti durante un ritrovo collegiale natalizio, il più importante scrittore inglese di ghost-stories, Montague Rhodes James, rivoluzionò interamente il genere, lasciandosi alle spalle un secolo di romanzo gotico più o meno spurio e storie di fantasmi più psichici che effettivi.

Portentoso medievalista ed esperto di miniature, nonché in seguito rettore al King’s College di Cambridge, MRJ anticipò H.P. Lovecraft veicolando nei suoi spettri molto più che le semplici anime irrisolte dei disincarnati — una prospettiva che dall’altra sponda dell’Atlantico vide eccellere Ambrose Bierce —, rivelandoli invece epifanie di antichissimi demoni, sopravvivenze astrali di maghi neri, spiriti dannati di intelligenze perverse che ormai solo parzialmente si possono definire umani. I ‘fantasmi’ di MRJ esibiscono quasi sempre una fisicità abnorme, lineamenti orrendamente liquefatti come nei film gore di Lucio Fulci; non di rado questa fisicità ‘deviata’ si configura come spia di una regresso ad caos che ha condotto, come nel Great God Pan e in The Inmost Light di Arthur Machen, dalla forma umana indietro fino ad atavismi dimenticati, che nei racconti di MRJ assumono ora caratteristiche tipiche degli aracnidi (The Ash Tree), ora dei batraci (The Haunted Dolls’ House), e persino anticipatrici degli incubi tentacolari di lovecraftiana memoria (The Treasure of Abbot Thomas).

I tre fratelli Benson nel 1907

Oggi però non intendiamo parlare di M.R. James, di cui d’altronde abbiamo già discusso in passato sulle nostre pagine, bensì di Arthur Christopher Benson (1862-1925), che del primo fu collega e amico intimo, trovandosi a vivere nella sua stessa epoca e condividendo con lui la predilezione, in ambito narrativo, della forma del racconto breve per esprimere quel tipo di suggestione ‘perturbante’ che, nella loro ottica, derivava quasi sempre da uno straripamento nel nostro mondo ordinario di potenze di natura totalmente altra rispetto all’essere umano. Benson, che si dedicò alla stesura dei suoi ‘racconti’ neri negli ultimi decenni della sua vita, era anche amico di un altro James, il famoso Henry autore del Giro di vite, nella cui casa visse e che gli fece da mentore incoraggiandolo nella scrittura. Ma Pietro Guarriello, impeccabile come sempre, nella postfazione sottolinea giustamente come nella famiglia Benson i fantasmi fossero di casa, visto che ghost-stories di successo le scrisse anche il padre Edward White Benson (1829-1896), arcivescovo di Canterbury, fondatore anche di una Ghost Society che in seguito divenne la Society for Psychical Research, nonché i due fratelli minori di Arthur, Edward Frederic (1867-1940) e Robert Hugh (1871-1914).

Come nelle opere di Machen e Lovecraft, anche nelle ‘storie di fantasmi’ di M.R. James e A.C. Benson il Caos proveniente dalla dimensione invisibile si abbatte sulla vita di tutti i giorni degli sventurati protagonisti precipitandoli nel terrore, e forse in questi ultimi ancora più che nei primi le ‘vittime prescelte’ devono maledire principalmente la loro curiosità intellettuale che li conduce passo dopo passo come condannati al patibolo: in quasi tutti i racconti, i personaggi di MRJ e ACB destinati a cadere nei vortici dell’orrore si avvicinano di propria volontà, in maniera quasi ossessiva, a determinati posti e oggetti misteriosi, gravati da sinistre leggende, espressioni paradigmatiche di un mondo sovrannaturale e magico che, seppur evocato in epoca vittoriana ed edoardiana, non presenta soluzione di continuità con il folklore dei ‘secoli oscuri’ del Medioevo. Si potrebbe pensare che questo tipo di pensiero magico difficilmente si possa coniugare con lo spirito anglicano e protestante degli anglosassoni, ma invece a ben guardare ne è in ultima analisi la nemesi esistente a un livello subconscio, la proverbiale ‘altra faccia della medaglia’. 

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A.C. Benson

Il motivo del ‘luogo maledetto’ da cui le potenze malefiche, stuzzicate, ritornano momentaneamente in vita, tipico della produzione letteraria di MRJ, si ritrova in The Red Camp (“Il campo rosso”), racconto che presenta notevoli corrispondenze con diverse storie del primo (Martin’s Close, Wailing Well, A Warning to the Curious). A far precipitare gli eventi, come nel lovecraftiano The Moon-Bog, è la sventata decisione del protagonista di bonificare un boschetto sinistro, noto per la presenza di un antico fortino legato a una leggenda su una sanguinosa battaglia e un tesoro sepolto, per estendere i pascoli di sua proprietà. Analogamente agli incubi folk-horror di Machen, il fortino in rovina, che funge da portale sull’Altro Mondo (una volta scavato, viene paragonato a «una brutta cicatrice sulla collina verde»), si trova all’interno di un antico tumulo funerario, sede degli spiriti disincarnati nella tradizione celtica; e come in certi racconti del gallese (Novel of the Black Seal), si accenna alla «storia delle antiche razze che avevano abitato la terra» per fare luce sul mistero del fortino nel Campo Rosso. Più che alla tradizione anglosassone, effettivamente, “Il campo rosso” sembra ispirarsi maggiormente a quella scoto-irlandese e gallese, al punto che certe affermazioni del canonico sembrano prese pari pari dal trattato dell’omologo scozzese Robert Kirk sul Secret Commonwealth di elfi, fauni e folletti, scritto sul finire del XVII secolo e pubblicato per la prima volta nel 1815 (da Sir Walter Scott) e una seconda nel 1893 (da Andrew Lang): è dunque probabile che Benson, in quanto appassionato di folklore britannico, avesse consultato tale fonte prima di scrivere il suo Red Camp.

I topoi della ‘collina fatata’, della ‘selva oscura’ e del ‘tesoro da trovare’ si ritrovano anche in The Snake, the Leper and the Grey Frost (“Il serpente, il lebbroso e il gelo grigio”), che però si distacca nettamente dagli altri racconti di questa silloge in virtù del differente registro stilistico utilizzato. Si tratta infatti del racconto più anomalo della raccolta, una sorta di Quest-Fantasy dal sapore molto più fiabesco che perturbante, e al tempo stesso indubitabilmente iniziatico (tradizionalmente le fiabe da sempre veicolano verità iniziatiche). Accenni alla ‘porticina’ che appare sul fianco della collina per poi scomparire magicamente, al Missing Time tipico dei racconti folklorici di tutto il mondo vertenti sull’accesso all’Altro Mondo e infine alla grande presenza di cadaveri sul luogo del ‘passaggio’ (un motivo comune alla tradizione iranica e siberiana) sono spie della sincera passione di Benson per le tradizioni antiche, locali e non.

Il ‘fantasma’ di Out of the Sea (“Dal mare”), posto in apertura di questa raccolta, si distanzia notevolmente dal modello antropomorfico: viene descritto come «una bestia malvagia che viene dal mare», «scur[a] e informe», «cornuta e pelosa», che si trascina dietro un ripugnante tanfo di salsedine e corruzione, gli occhi «stretti e osceni», animati da una fiamma opaca gialla. Come gli agenti invisibili demoniaci di alcuni tra i più celebri racconti di James, per esempio Oh, Whistle and I’ll Come to You, My Lad e A Warning to the Curious, anche i ‘residui psichici degenerati’ di Out of the Sea sono quasi impercettibili alla vista di colui che li ha risvegliati, che li può intravedere unicamente con la coda dell’occhio («non riesco mai a vederla chiaramente; è come una macchia negli occhi… non è mai lì quando la guardi… scivola via di nascosto»). Motivo che si ritrova anche in The Slype House (“Casa Slype”), dove la «strana cosa» è «pallida e cornuta, molto confusa», racconto basato su una figura tipica di MRJ e poi cara anche a HPL, quella dell’enigmatico outsider che vive recluso in una sinistra magione, trascorrendo la sua appartata esistenza

in malefiche ricerche sui segreti oscuri della natura […] e su molte altre opere occulte delle tenebre, come i rapporti con gli spiriti del male e le influenze nere che attendono le anime.

Si distacca parzialmente dagli altri racconti The Temple of Death (“Il tempio della morte”), un’oscura avventura ambientata ai tempi delle guerre tra i Galli e i Romani che in certi passaggi sembra anticipare la corrente più ‘epica’ della letteratura Weird della prima metà del XX secolo (Robert E. Howard, Clark Ashton Smith), per non dire addirittura il celebre ‘sogno romano’ di Lovecraft, che sfortunatamente, a dispetto del suo notevole potenziale, non venne mai tradotto in un racconto vero e proprio. L’intera vicenda ruota intorno all’arrivo del predicatore cristiano romano Paullinus presso uno dei tanti ‘luoghi maledetti’ della narrativa di Benson, il cosiddetto ‘Tempio della Morte Grigia’, dove il sacerdote — in parte ispirato al Rex Nemorensis di cui Frazer — praticherebbe rituali indicibili per soddisfare la terribile divinità di cui il tempio è tabernacolo. Quest’ultimo si presenta fin da subito come un’epifania terrifica del cornuto Cernunno — in molti aspetti analogo al Pan che conobbe durante l’era vittoriana una seconda rinascita —, richiamato nel testo nella descrizione di una «testa cornuta e barbuta, deforme e grottesca», analoga alla maschera di Dioniso o di Sileno nella tradizione mediterranea. D’altronde, è chiaro che il dio venerato nel fitto del bosco presenti tinte fortemente ‘panico-dionisiache’, al punto che viene presentato in questi termini dal sacerdote che ne esercita il culto:

Il dio che ha creato questi grandi boschi solitari, e che ci abita, è molto diverso [da Cristo, ndr]. Ama la morte e l’oscurità, e le grida di bestie forti e furiose. Qui c’è poca pace, anche se i boschi sono silenziosi… e per quanto riguarda l’amore, è una specie brutale di amore. No, straniero, gli dei di queste terre sono molto diversi e richiedono sacrifici molto diversi. Si dilettano di sofferenze acute e agonie, di supplizi, gocce di sangue, sudori di morte e grida di disperazione.

Il tempio stesso, di natura megalitica, è ornato di «un’orribile incisione che a Paullinus sembrò opera di diavoli»: caratteristiche che ritroviamo in modo pedissequo nelle successive città dei ‘Grandi Antichi’ nel ciclo lovecraftiano (At the Mountains of Madness) e in alcuni romanzi Weird di Abraham Merritt (Dwellers of the Mirage). L’incisione ‘demoniaca’ di carattere ‘panico’, nel racconto di Benson, è quasi anticipatrice di quella di The Red Hand di Machen, raffigurando «una figura grossolana, con una faccia malvagia e lasciva», che a Paullinus dà l’impressione di essere «un servitore di Satana, se non lo stesso Satana, congelato nella pietra». 

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Sono ancora MRJ e Lovecraft i nomi tutelari che vengono in mente leggendo The Closed Window (“La finestra chiusa”), che in più di un’occasione richiama due dei più leggendari racconti del Solitario di Providence, segnatamente The Music of Eric Zann e The Haunter of the Dark. Al centro della narrazione vi è la cosiddetta “Torre della Paura” di Nort, un tempo utilizzata dal sinistro Sir James de Nort, antenato dei protagonisti del racconto, per oscure e misteriose operazioni occulte. In seguito all’improvvisa quanto inspiegabile morte dell’avo, la stanza in cima alla torre venne sigillata, ma quando i suoi discendenti vi rimettono piede sembra animarsi nuovamente delle nefande presenze che in quel luogo erano state imprudentemente evocate, nonché dello spirito dell’uomo che le aveva portate nel nostro mondo.


Tipicamente gaelica è invece la trama di The Grey Cat (“Il gatto grigio”), tra gli episodi migliori dell’antologia, soprattutto per l’elemento portante della presenza sovrannaturale teriomorfa: nel folklore dei paesi celtici, infatti, la quasi totalità delle entità provenienti dall’Altrove si approccia agli esseri umani dietro sembianze animali (si pensi solo all’esempio del Kelpie e delle Selkie). D’altronde la storia è ambientata tra le colline del Galles e i ruderi secolari che le costellano, e qui il ‘fantasma non-fantasma’ di turno si mostra al cavaliere protagonista, come da titolo, con l’aspetto di un gatto grigio. L’entità misteriosa sembra dimorare presso la sorgente di un ruscello, una polla nera e immobile considerata tabù dai contadini del luogo, al punto da esorcizzarla ogni anno ad Ognissanti (ovvero a Samhain) con un concerto di campane della durata di tutta la notte. Come nei Salici di Algernon Blackwood, l’elemento naturale appare qui compenetrato da potenze malevole se non addirittura demoniache, da un qualcosa di indefinito e tuttavia assolutamente palpabile «che nutriva avversione per la vita degli uomini». Analogamente derivano dal folklore gaelico anche i temi prettamente ‘ferici’ del racconto, come lo ‘strano sogno’ tramite cui al protagonista Roderick viene offerto di accedere alla collina mediante una porta invisibile posta sul suo versante e la musica elfica che accompagna l’avvenimento, e ancora la menzione al biancospino (pianta fatata per eccellenza) e al cambiamento profondo avvenuto nella sua interiorità dopo l’esperienza onirica — tema, questo, trattato diffusamente da Machen (The Hill of Dreams) ma anche, in forma saggistica, da Gustav Meyrink (La metamorfosi del sangue).

I due racconti più notevoli della silloge sono però quelli conclusivi. Basil Netherby (“La casa a Treheale”) non sfigurerebbe affatto in una raccolta di migliori racconti di M.R. James, di cui ricalca pedissequamente lo stile e le suggestioni. Ma contiene anche diverse anticipazioni del migliore Lovecraft, dalla musica dotata di «una voluttà selvaggia, smodata» di Netherby, che anticipa quella ben più nota del violino di Eric Zann, all’«improvviso varco tra gli alberi» che il protagonista trova verso la fine, in cui «gli arbusti erano strappati, spezzati e calpestati, come se qualcosa di pesante li avesse travolti», particolare che sembra anticipare in maniera sorprendente la conclusione di Dunwich Horror. Identica è anche la sorta di Nerherby, che come Wilbur Whateley appare fin dal principio condannato alla dannazione eterna in virtù dei suoi ‘diabolici convegni’, che hanno luogo grazie a un condotto che collega una porticina bassa nella stanza di quest’ultimo a una porta nascosta nel bosco circostante il castello. Lo stesso antenato di Basil, come quello di Wilbur, era solito incontrare «visitatori che […] non era conveniente ammettere in casa». Ma, come detto, c’è anche molto MRJ — oltre alla storia e all’atmosfera in generale, si noti soprattutto l’osservazione di Basil sul suo misterioso visitatore, ovvero che lo vedrebbe correre rapidamente verso di lui da «parecchio lontano», similmente alla presenza di Oh, Whiste. Ma ci sono persino reminiscenze macheniane, soprattutto nel discorso sulla «perfetta bellezza del male», che fa il paio con quello contenuto in The White People e si conclude con queste parole:

ora capisco […] che il male che ostacola l’umanità non è che la melma dell’abisso dal quale essa solo gradualmente sta emergendo.

Chiude l’antologia The Uttermost Farthing (“L’ultimo spicciolo”), che è anch’esso incentrato su una casa ‘infestata’ a causa delle abominevoli operazioni magiche che vi sono state compiute in passato. Gli autori di paragone sono sempre i medesimi: in particolar modo, per quanto riguarda le corrispondenze con Lovecraft, stupisce il particolare della macchia di intonaco sul pavimento, avente «una strana somiglianza con la sagoma di una figura prostrata» — viene alla mente The Shunned House — nonché la descrizione dell’«intera storia della famiglia» Faulkner (una sorta di anticipazione dei romanzi dell’omonimo William, uno su tutti As I Lay Dying, 1930), come «un costante cammino in discesa», una sorta di ‘involuzione atavistica’ che ricorda in egual misura alcune stirpi degenerate di lovecraftiana memoria e certi personaggi dei racconti di Machen. Per il resto, un ruolo centrale lo detengono le usuali redivive presenze invisibili e i mai troppo espliciti ‘esperimenti’ e ‘patti demoniaci’ tipici dei racconti jamesiani, nonché la convinzione — che potrebbe senza problema leggersi in un’opera macheniana —

che Dio stia lentamente e pazientemente operando per conquistare un mondo in cui esiste […] un elemento forte di qualcosa di atroce e orribile, che Lo sfida e coglie ogni occasione per annullare la Sua opera.

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