I “Siculi” Magiari e le origini del loro misterioso alfabeto

Prosegue lo studio di Alessandro Bonfanti sui Siculi Magiari della Transilvania, stavolta con un excursus sul loro enigmatico sistema grafemico, a torto scambiato da alcuni studiosi per runico. Come pure nei precedenti articoli della serie, anche questa volta l’analisi dell’Autore si spingerà fino alle steppe asiatiche.

di Alessandro Bonfanti

Tornando ai Siculi magiari della Transilvania, vi è poi l’accesa dissertazione sul sistema grafemico tuttora in uso presso questa fiera popolazione legata tenacemente alle proprie tradizioni, ossia Székely Rovásírás, a torto creduto e/o scambiato per sistema runico. Anche su questo argomento adduco tutte le prove possibili per una confutazione (le vostre domande sono state tante). Quest’antico alfabeto ungherese, Rovásírás, fu usato dagli Ungari nel periodo medievale, tra VII e X sec. dell’era volgare, dunque da molto prima che il Regno d’Ungheria ebbe inizio, essendo giunto nell’attuale area comprendente gran parte del bacino sub-carpatico assieme a questa tribù di ‘’Siculi’’ magiari, che, come già detto, avrebbero preso tale nome dal luogo di stanziamento, il quale giungeva fino all’attuale Serbia.

In alto, la sub-regione siculo-magiara costituita dai distretti di Mureş, Harghita e Covasna, confinanti ad Est con le regioni Bucovina e Moldova, in Romania.
A sinistra, la vecchia bandiera della Székelyföld; al centro, la nuova bandiera; a destra un corteo indipendentista.
Immagini di giovani Siculi magiari vestiti in abiti tradizionali; a destra, durante lo svolgimento di una cerimonia.

Le altre tribù magiare si sono incuneate nel territorio dei Siculi magiari, stanziandosi tutte quante nell’attuale Ungheria, ossia nell’antica Pannonia, territorio che a sua volta prende nome dallo stanziamento di un’altra popolazione, i Pannoni, che nulla c’entrano con i gruppi ugro-finnici. L’insediamento degli Ungari ha ‘’tagliato’’ in due i Siculi magiari, arginando una parte di essi nell’attuale Romania, l’altra parte nell’attuale Serbia. Questi ‘’Siculi’’, rimasti ‘’emarginati’’, hanno potuto conservare perfettamente tutti gli arcaismi linguistici e tutti gli atavismi tradizionali, tra i quali anche il sistema grafemico detto Rovásírás, tuttora in uso presso questa comunità ed erroneamente detto ‘’antico alfabeto runico ungherese’’. Ma da dove proviene questo interessantissimo sistema di scrittura? Inizio col ribadire ancora che non trattasi di un sistema runico assolutamente, poiché i glifi runici, essendo tali, presentano caratteristiche che esulano dalla funzione semplicemente rappresentativa ed evocativa di un determinato suono prodotto dall’apparato fonatore umano entro uno spettro delimitante per articolazione, timbro e modulazione, ossia quel che si definisce un fonema, il quale è una qualità di suono includente variazioni quantitative vibratorie (i cosiddetti allofoni dello stesso fonema o gradienti d’intensità quantificabili). I glifi sono prima di tutto un’immagine incisa, marcata su una superficie, essendo Actio = Forza da parte di una Voluntas = Potenza, non un suono dunque, assolvendo alla natura fonica solo in un secondo momento: evocano un’immagine, un concetto, un puro processo logico, un lampo intuitivo. I glifi sono segni sacri, cosmogonici e teurgici. I glifi, pertanto, possono adattarsi, in quanto strumenti di comunicazione, all’uso secondario nonché improprio dell’evocazione di un tipo di suono, un fonema. Ma è osservabile il fatto concreto che i glifi rappresentano tutti i suoni/fonemi che gli si vuole attribuire: ogni tribù germanica ha dato da sé nel tempo valori fonetici ad ogni glifo, diversi fonemi quindi variabili da tribù a tribù e in seno ad una tribù medesima diversi fonemi nel corso del tempo. I glifi runici sono dunque veri e propri simboli evocativi, teurgici, elementi rituali che catalizzano ed emanano: Voluntas, Potentia, Actio. Vi invito a scrutare per un po’ nella Weltanschauung indoeuropea.

Il sistema magiaro è solo grafemico, ossia costituito da segni e vocanti solo fonemi, in pratica un alfabeto. I grafemi non hanno dunque valenza rituale, ma solo valore fonetico: ogni grafema corrisponde uniformemente ad un fonema, proprio come il nostro alfabeto, proprio come quello che io sto usando adesso per scrivere questo articolo, né più né meno. Rovásírás ebbe però un’origine, come tutte le cose del resto: nihil ex nihilo. Ma da dove proviene allora? Basta osservare attentamente le forme dei vari grafemi che lo costituiscono. Molti di questi grafemi provengono dai glifi runici usati da vari popoli del gruppo germanico che nella loro discesa verso il Sud si erano stanziate provvisoriamente nell’area carpatica: Goti, Gepidi, Longobardi, Vandali. Questi popoli, e tra loro maggiormente i Goti, ebbero contatti abbastanza lunghi con popoli allogeni, non solo ugro-finnici, tra cui i Magiari, ma anche con popoli di estrazione uralo-altaica, tra i quali i ben noti Unni. Questo contatto ha avuto la sua akmé nel V sec. dell’era volgare, ma può essere circoscritto tra il IV ed il V sec., ossia nel tempo in cui gli Unni conobbero la massima espansione territoriale, portando con sé molti popoli affini dalle steppe russe, e nel tempo in cui questi movimenti spinsero questi Ungari ‘’Siculi’’ a prendere possesso dell’area comprendente le attuali Romania, Ungheria e Serbia, dal bacino sub-carpatico ai Balcani settentrionali. Questo è il periodo di ‘’gestazione’’ di Rovásírás, usato da tutti gli Ungari (gli avi degli attuali Ungheresi) dal VII al X sec., soppiantato poi da quello latino, a sua volta riadattato per render meglio la fonetica magiara. Da questa sua somiglianza con certi glifi germanici, a sua volta ascrivibile alla diretta influenza per acquisizione di quest’ultimi per il solo uso profano, ossia scrittorio, è stato definito ‘’alfabeto runico ungherese’’ nello Standard ISO 15924: ‘’Old Hungarian Runic’’. Ma è palese che trattasi di un errore. Con la fondazione del Regno d’Ungheria, a seguito dell’incoronazione di Stefano I, che unì tutte le tribù per lo più nomadi in un sol popolo, Rovásírás fu eliminato con la forza, ma esso è rimasto fortunatamente in uso fino ad ora presso i Siculi transilvanici, gli ‘’emarginati’’ Ungari, i quali nel loro isolamento hanno vinto la secolare battaglia per la sopravvivenza delle loro avite tradizioni. È bello, infatti, vedere ancora oggi cartelli stradali di quelle aree rurali scritti in Rovásírás, anzi in Székely Rovásírás. Abbiamo anche la testimonianza circa l’uso da parte dei Siculi magiari di questo sistema alfabetico nella Cronica di una certo Simone di Kéza, un testo del XIII sec., nel quale vi è riportato che proprio i ‘’Siculi di Transilvania’’ usavano lo stesso alfabeto dei Valacchi (Vlad detto l’Impalatore, il terrore dei Turchi, alias ‘’Dracula’’, era infatti di etnia siculo-magiara). Ma poi la nota iscrizione della Chiesa di Atid risale al 1668; e poi altre ancora che giungono fino al XIX sec., provenienti da varie località della Romania, come Sângeorgiu de Mureș, Târgu Mureș, Mezőkeresztes, Kecskemét, Ghindari, Turda, Racu etc. Questo alfabeto presenta anche alcune innovazioni: ha aggiunto nel corso di tutti questi secoli, fino a oggi quindi, varianti per meglio distinguere certi allofoni evolutisi all’interno del sistema fonetico; ha aggiunto grafemi numerali in gran parte di palese derivazione romana (da 1 a 10, ma poi per 50, 100 e 1000 sono stati effettivamente utilizzati grafemi ideati da loro stessi); e persino di nuovi affinché compensassero perdita e/o aggiunta di fonemi per via delle catene di trazione e spinta alle quali una qualsiasi lingua è soggetta nel suo corso evolutivo. Pertanto, questo sistema alfabetico (grafema = fonema), così come lo vediamo adesso nelle aree di diffusione (Romania), è abbastanza nuovo, non proprio antico dunque, essendo stato innovato e rinnovato (o viceversa) costantemente nel tempo, fino ai giorni nostri. Vi è uno studioso, un certo András Róna Tas, il quale ha detto che questo sistema alfabetico deriverebbe dall’antico alfabeto mongolo dell’Orhon, il quale a sua volta deriverebbe da alfabeti come il Pahlavi, o il Sodgian, o il Kharoshthi, e che a sua volta questi alfabeti deriverebbero dall’alfabeto aramaico; poiché ‘’i popoli magiari sarebbero entrati in contatto con popolazioni turche tra VII e VIII sec., essendo infatti molte le acquisizioni ungheresi dal Turco’’. Ma basta osservare che la più antica iscrizione nell’alfabeto dell’Orhon risale alla prima metà dell’VIII sec., circa 720 era volgare; e poi, cosa più importante, i grafemi dei due sistemi alfabetici non sono corrispondenti, non essendo corrispondenti anche i fonemi costituenti le due lingue. Ma anche il sistema alfabetico mongolo conserva una certa influenza gotica, proprio perché il popolo dell’Orhon sarebbe stato il diretto discendente del popolo unno, e gli Unni, sì, vennero a contatto con i popoli germanici. Mettete a confronto i vari sistemi alfabetici summenzionati e poi mi dite se trovate queste ‘’affinità’’ che possano far pensare anche vagamente ad una diretta derivazione. Né luoghi né tempi, soprattutto i tempi, non coincidono. Il sistema Rovásírás trae il suo nome dal verbo roni ‘’segnare’’, preso dal proto-magiaro ed in uso dal XIX sec., dunque nella nostra era. Le varie acquisizioni di lemmi tra una lingua ed un’altra, i cosiddetti ‘’prestiti’’ (termine che io sostituisco con il più efficiente ‘’acquisizione’’), sono un fenomeno comune, dovuto esso a scambio principalmente commerciale o per esercizio di un potere amministrativo, senza dunque comportare un mutamento significativo nel profilo genetico, culturale e spirituale di una determinata popolazione. Oggi alcuni di noi mangiano una fetta d’ananas o un kiwi senza perdere le proprie caratteristiche fenotipiche. Nessuno si addormenta su un ‘’divano’’ e si risveglia turcofono, sebbene la parola abbia origini persiane, dunque sempre indoeuropee. Un altro esempio è rintracciabile nel coronimo degli stessi Siculi magiari presenti in Romania, Székelyföld, che in Ungherese significa ‘’Territorio dei Siculi’’, nel quale non sfugge di certo quel föld ‘’campo/territorio’’, di chiara origine germanica, basta confrontarlo con il vicino tedesco moderno Feld e con il più lontano inglese moderno field. Ma né gli Ungheresi né i Siculi magiari sono di stirpe germanica, trattandosi soltanto di influenza adstratica. 

Questo sistema alfabetico magiaro è stato studiato per la prima volta nel 1598 da János Telegdi, il quale li descrisse nel libro Rudimenta Priscae Hunnorum Linguae (‘’Basi dell’antica lingua degli Unni’’), facendo vedere, oltre alla traslitterazione dei grafemi, anche i testi che furono redatti e conservati con questo sistema, come le preghiere cristiane. Tutto questo maelstrom, tutta questa confusione sulle origini di Rovásírás, inteso esso come ‘’caretteri runici turcici’’ (sic) lo si deve a due ricercatrici, le quali agli inizi dello scorso secolo hanno cercato di rintracciare le origini di questo alfabeto: Gyula Sebestyén, etnologa, e Gyula Németh, turcologa. La prima, Gyula Sebestyén, è autrice di due saggi: Rovás és rovásírás (‘’Rune e scrittura runica’’), edito nel 1909, e A magyar rovásírás hiteles emlékei (‘’Le autentiche reliquie della scrittura runica ungherese’’) edito nel 1915. Ha seguito le loro orme anche Edward D. Rockstein, con il suo The Mystery of the Székely Runes, Epigrafic Society Occasional Papers, edito nel 1990.

L’alfabeto in questione ha subito molti riadattamenti, anche durante quel periodo, proprio in Ungheria. Adorján Magyar fu colui che a partire dal 1915 si battè per l’uso dell’alfabeto per scrivere l’odierno Ungherese, apportando innovazioni su esso, specie per le vocali: caratteri nuovi per distinguere a da á, così come e da é, senza però apportare segni che contraddistinguessero le morae, ossia le lunghezze vocaliche. Ed un altro, Sándor Forrai, nel 1974 introdusse innovazioni per distinguere i da í, o da ó, ö da ő, u da ú, ü da ű. Questo perché in origine molte delle iscrizioni con il suddetto sistema alfabetico mancavano di vocali, o raramente venivano scritte. 

Il regime della cortina di ferro cercò in tutti i modi di sradicare questo sistema, e dopo la caduta del muro di Berlino e dunque all’avvenuto crollo del sistema comunista, a partire dal 1989, ebbe inizio il revival del Rovásírás. So che nel 2009 è avvenuta la standardizzazione Unicode di questo sistema alfabetico. Il corrente alfabeto non contiene ancora grafemi veri e propri per i fonemi dz e dzs, frutto di rifonologizzazione piuttosto recente dell’Ungherese, così come i grafemi latini per i fonemi q (ossia kw), x e y (quest’ultimi due sono di origine ellenica) ed infine per w (figlio dell’antico digamma indoeuropeo), ma nella codifica Unicode sono state accettate legature di grafemi (anche perché trattasi di suoni composti, provenienti da sovrapposizioni di fonemi). Il sistema Rovásírás, come vuole la Tradizione, procede da destra verso sinistra.

Ma cosa c’entrano i grafemi dell’alfabeto dell’impero mongolo dei Göktürk della Valle dell’Orhon (o Orkhon)? Vediamo un po’. Questo sistema alfabetico, dunque basato sul binomio grafema = fonema (e basta) risale all’ VIII sec. dell’era volgare e fu usato dai Khanati di questo regno fino al X sec., sempre con andamento da destra verso sinistra. La prima scoperta di queste iscrizioni risale al 1889, durante la spedizione guidata dall’esploratore Nikolay Yadrintsev nella Valle dell’Orhon, in Mongolia. Esse furono dapprima pubblicate da Vasilij Radlov, ed a seguire, nel 1893, decifrate da Vilhelm Thomsen, un noto linguista e filologo danese. Ed anche in questo caso non mancano le associazioni incaute ad ‘’altro’’, così come abbiamo precedentemente visto per l’antico alfabeto magiaro. Ed anche in questo caso vale la medesima spiegazione data sulle origini dell’alfabeto magiaro. In breve, entrambi hanno una comune origine peri-carpatica, ma un’embriogenia differente, avvenuta in luoghi e in tempi differenti: il primo dall’incontro tra gruppi proto-ungarici (non si dica ‘’proto-ungheresi’’) e gruppi germanici (prevalentemente Goti e Gepidi); il secondo dall’incontro tra gli Unni ed i medesimi gruppi germanici. Il vero problema da risolvere è infatti che non è stato il sistema alfabetico magiaro a derivare da quello degli Unni poi divenuti nel tempo Göktürk, né l’esatto opposto. In sostanza, tra IV e VI sec., nel bacino carpatico tutti questi popoli sono entrati in contatto, creando anche alleanze militari ed è stato lì che è avvenuto lo scambio culturale di cui vi parlo. Da quello scambio culturale, gli Ungari (dunque anche quelli conosciuti nel tempo come Siculi della Transilvania) hanno creato il loro sistema alfabetico, a partire dal periodo di stanziamento in Pannonia, dunque nel corso del VII sec.; mentre gli Unni hanno portato questo ‘’dono’’ culturale in Mongolia a seguito del crollo del loro dominio sull’Europa alla morte del loro condottiero Attila, e proprio lì nel corso dell’VIII sec. ha permesso loro di creare l’alfabeto della Valle dell’Orhon: non vi sono iscrizioni magiare prima del VI sec., così come non vi sono iscrizioni dei Göktürk precedentemente all’VIII sec.; però entrambi i popoli ebbero contatti con le popolazioni germaniche nel corso del V sec. Ecco come è svelato l’arcano. Il sistema dei Göktürk è più giovane di quello magiaro, e poi entrambi sono fioriti quando ormai i rapporti, o meglio dire le interfacce culturali, erano finiti da secoli. Ci sono due gap, due vuoti da colmare: l’uno diacronico, l’altro geografico. Non mancano gli studiosi che hanno attribuito il sistema mongolo ora al Pahlavi, ora al Sogdiano, per poi ascendere fino all’Aramaico. Questo sistema ha avuto la sua diffusione, essendo presente sui monumenti lasciati dai Tu-jue in Cina al tempo della dinastia Tang; fu utilizzata successivamente dall’Impero uiguro; e la variante detta ‘’Yenisei’’ è presente a partire dal IX sec. nelle terre del Kirghizistan, così come nella Valle del Talas nel Turkestan. Non accetto la teoria sugli Avari quali portatori di questo sistema grafemico in Europa diffondendolo tra i Siculi magiari. Anche qui vi sono anacronismi. E cosa ancora più importante è che non vi è la corrispondenza grafema-fonema tra i due sistemi alfabetici, sebbene alcuni grafemi siano molto simili (perché entrambi appresi dai Goti) fanno però riferimento a fonemi diversi. Ma poi, c’è da dire che il corpus delle iscrizioni della Valle dell’Orhon comprende un’esigua documentazione: due monumenti eretti nella summenzionata Valle tra 732 ed il 735 dell’era volgare, in onore a due regali del Regno dei Göktürk, ovvero il cippo eretto per il principe Kül Tigin (cippo detto volgarmente ‘’obelisco’’, del 732) e quello eretto per l’Imperatore Bilgä Qāghān (735); più qualche altra iscrizione sparse nell’area. La più antica è quella del cippo eretto nel 720 per Tonyuquq. Voglio tralasciare quanto dicono alcuni studiosi di questo ‘’settore’’ epigrafico, che reputo fuorviante [1].

Ma poi, chi erano questi Göktürk? Essi furono un popolo di stirpe altaica, dunque turcica, menzionato nei testi cinesi con il nome di Tujue. Questo regno ebbe inizio nella seconda metà del VI sec. con il Khagan Bumin-Tuman ed i suoi figli nel territorio occupato precedentemente dagli Unni (non saprei dire con accuratezza se proprio essi furono i veri eredi degli Unni, i diretti discendenti oppure un popolo che, essendo vassallo dei più antichi Unni, ha subito solo una grande influenza culturale, oppure ancora un popolo nato dalla fusione dei due elementi); un regno che, come quello unno, si espanse rapidamente verso occidente, non trovando molte opposizioni tra gli sparuti popoli delle steppe, molte delle quali a quel tempo di stirpe altaica (non c’erano più i temibili popoli ari delle steppe, Sciti e Sarmati principalmente, dai quali le popolazioni altaiche appresero molto dal punto di vista culturale e spirituale: sciamanesimo, uso del cavallo, tattiche di guerra etc.). Göktürk significherebbe ‘’Turchi celesti’’ o ‘’Turchi numerosi’’ e furono il primo popolo altaico a lasciare testi scritti, redatti con questo sistema alfabetico. La loro religione era il Tengrismo sciamanico, ricchissimo di elementi indo-iranici (di quei popoli indoeuropei che abitavano le steppe, i diretti discendenti, assieme a Hindu e Medo-persiani, della Cultura dei Kurgan, e quest’ultimo, lemma peraltro uralo-altaico per ‘’tumulo’’, proprio perché così le attuali popolazioni locali chiamano queste strutture sepolcrali indoeuropee). I Khanati di questo regno ricevettero nelle loro corti vari missionari cristiani (nestoriani principalmente), manichei e buddisti.

Un evento storico importante da citare per meglio capire le origini di questo sistema alfabetico è quello dell’ascesa al potere del primo Khan di questo regno, Bumin. Nel 546, Bumin Khan attaccò i Tiele che si ribellavano ai Juan Juan, a sua volta alleati degli Eftaliti, nemici quest’ultimi degli indoeuropei Persiani. All’inizio, Bumin, attaccando i Tiele, avrebbe voluto ottenere in sposa una principessa dei Juan Juan, i quali però gliela negarono. E così, Bumin decise infine di attaccare proprio i Juan Juan, unendo le sue milizie con quelle del Regno di Wei, allora dominante sulla Cina settentrionale. Nel 552 sconfisse le milizie del Regno dei Juan Juan, al comando dell’ultimo Khan Yujiulü Anagui, divenendo così signore di quelle terre, sposando la principessa dei Wei, Changle, ed autoproclamandosi ‘’Re dei re’’, Il-Qaghan, del nuovo Impero dei Göktürk con capitale la città di Ötüken. Successivamente, Bumin lasciò la parte occidentale del Regno al fratello Istämi, il quale diede supporto militare ai Persiani per porre fine al Regno degli Eftaliti, i vecchi alleati del Regno dei Juan Juan. Questa guerra sarebbe stata causa dell’avanzata in territorio europeo del popolo degli Avari, i quali, secondo quanto affermano in merito alcuni studiosi, sarebbero stati coloro che avrebbero portato in Europa questi ‘’glifi runici’’, diffondendoli tra gli Ungari, ossia ancora tra i Siculi magiari. Il problema è che qui ci troviamo di fronte a mille aporie, non solo dal punto di vista cronologico, ma anche geografico e geopolitico. Ma perché proprio gli Avari ed anche i Bulgari, quelli di stirpe turanica (gli ‘’originali’’), non hanno mai usato questo sistema alfabetico, né varianti di esso? Il Regno dei Göktürk conobbe un lungo periodo di sanguinosissime guerre civili e frazionamenti (Khaganato orientale e Khaganato occidentale), sostenute dalla dinastia cinese Sui prima e da quella Tang poi. Proprio la parte orientale, quella che mantenne il nome Göktürk, per tutto il VII sec. fu vassalla dell’Impero cinese della dinastia Sui (quella occidentale prese il nome Onoq ‘’Dieci frecce’’), ribellandosi solo una volta, quando il Khan Hsien al momento del passaggio dalla dinastia Sui a quella Tang tra i 626 ed il 630. Ma questo tentativo fallì, perché i famosi Tiele, che al tempo si chiamavano ormai Uiguri (confederazione dei Tiele), fedeli al nuovo Imperatore cinese Tang Taizong, si ribellarono a sua volta. E così, catturato Khan Hsien, la parte orientale divenne un protettorato Tang. A sua volta anche la parte occidentale, dopo l’assassinio del Khan di Onoq, Tung Sche-Hu, venne frazionato in due regni in lotta tra loro, quello dei Tulu e quello dei Nushipi, e che presto vennero conquistati nel 657 dalle milizie cinesi della dinastia Tang. Ma sempre dalle ceneri di questi due regni d’origine Göktürk emersero più tardi ad Oriente gli Uiguri, ossia i discendenti dei Tiele, ed ad Occidente i Turgesh, successori degli Onoq, ossia i Turchi che noi tutti conosciamo, quelli che poi si convertirono all’Islam ed occuparono la penisola anatolica, l’odierna Turchia. René Grousset traccia una linea genealogica e migratoria che può fare maggior luce su quanto sinora esposto: nell’VIII sec., gli Oghuz, entrando in conflitto con gli Uiguri per il dominio della regione Zhetysu e subendo una sconfitta, si spostarono verso il Mar Caspio; raggiunsero nel corso del IX sec. la regione Transoxiana, nel versante occidentale del Turkestan, prendendo il posto dei Peceneghi e dei Kangarli lungo il fiume Ural, nella regione Emba, costringendo quest’ultimi a migrare a Nord del Mar Nero o ad unirsi a loro; stanziandosi poi nel X sec. nell’odierno Kazakistan e raggiungendo da lì sia la Russia meridionale sia l’area occupata dai Bulgari lungo il corso del Volga (prima ancora che questi si insediassero nell’attuale Bulgaria, occupata da popoli slavi). E fu proprio in questo periodo, il X sec., che il clan della confederazione guidato da Seljuk (dal quale discesero i noti Selgiuchidi), una volta giunto nel Khorasan, si convertì all’Islam e, raggiungendo poi il territorio persiano nell’XI sec., prese in seguito possesso dell’attuale Turchia [2]. È chiaro che questi Oghuz sono i discendenti degli Onoq, chiamatisi nel tempo Turgesh, divenendo poi (cito ora tutte le varianti eso-etnonimiche): Torks, Ghuzz, Guozz, Kuz, Oguz, Oğuz, Okuz, Oufoi, Ouz, Uguz, Uğuz, Uguz, Uz.

Mi sembra giusto ora vedere più da vicino alcuni di questi popoli di provenienza uralo-altaica, almeno quelli che sono giunti in Europa ed ivi hanno risieduto tra noi. Gli Àvari (non Avàri) si presentano come un popolo enigmatico, essendo le fonti molto esigue sul loro conto. È infatti una ‘’teoria’’ (o meglio dire solo ipotesi) che questo fosse stato un popolo di lingua uralo-altaica, strettamente imparentato con quei Bulgari che, prendendo possesso di quella che una volta era la Tracia, avrebbe regnato sugli Slavi ivi presenti, dando così nome alla regione, sebbene la lingua sia rimasta indoeuropea, precisamente del ceppo slavo meridionale (meglio dire slavonico), ancora oggi usato nelle comparazioni. Gli Avari si stabilirono lungo il medio corso del Volga nel corso del VI sec., compiendo incursioni in Europa, giungendo anche in Pannonia, dopo che quest’area fu lasciata dai Longobardi diretti verso l’Italia (siamo infatti sul finire del VI sec.). Una cosa è certa però, il loro vasto possedimento europeo ebbe nome di Khanato, ed una volta fermati nella loro espansione dall’esercito franco-carolingio, essi si stabilirono tra le popolazioni slave e quelle magiare del ceppo ugro-finnico. Ad esempio, il nome Attila risulta infatti essere molto diffuso tra i moderni Ungheresi. Circa i temibili Unni, si sa che era un popolo guerriero nomade proveniente dalla regione siberiana meridionale e che nel corso del V sec. alla guida di Attila attaccò l’Impero Romano occidentale, formando un vasto Impero euroasiatico. Oltre alle fonti cinesi, quelle del tempo della dinastia Han (206 a.C. – 220 era volgare), che li localizzano nella Siberia meridionale, abbiamo a disposizione quelle ‘’nostrane’’, del siriano grecofono Ammiamo Marcellino, autore delle Res gestae, e del bizantino (di probabile origine gotica, lo si vede nel nome, derivativo del teonimo germanico Jord) Giordane, autore del De origine actibusque Getarum e del De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum, rispettivamente del IV e VI sec. Ammiano ci informa (libro XXXI, 2, 1) che gli Unni provenivano dalle steppe, ‘’oltre le paludi meotiche’’: Hunorum gens monumentis veteribus leviter nota ultra paludes Maeoticas glacialem oceanum accolens,

Secondo le fonti cinesi, dopo aspre lotte, questi Xiong-Nu (fermati dalla grande muraglia), sul finire del I sec. dell’era volgare migrarono in parte verso Occidente attraverso la Valle dell’Ili, stabilendosi lungo il corso del Volga, invadendo i territori occupati dagli indoiranici Alani e dei germanici Goti (Ostrogoti e Visigoti); i rimanenti rimasero sotto l’influenza politica della dinastia Han, a settentrione della Cina. Ma perché gli Unni mirarono al potere romano? Una delle tante spiegazioni, pensate, provengono proprio dalla Cina. Ve ne parlo brevemente. Le fonti cinesi, infatti, parlano di un regno unno comprendente un’area delimitata dal corso fluviale del Talas, dal complesso montano dell’Altaj e dal corso del fiume Tarim. Una volta, in una delle tante campagne belliche condotte dagli Unni contro il confine settentrionale cinese (nel corso del 36 a.C.), i Cinesi notarono un gruppo di mercenari al servizio degli Unni che combatteva compatto ‘’come le squame di un pesce’’. Costoro erano legionari romani, provenienti a detta dei Cinesi dalle regioni più orientali del Regno dei Parti. Si sa che i Parti fecero prigionieri legionari romani a seguito della disfatta di Crasso a Carre nel 53 a.C. e di quella di Marco Antonio nel 36 a.C. Penso sia molto probabile che proprio questi legionari romani abbiano parlato di Roma e del suo grande splendore con chi aveva dato loro una promessa di libertà, ossia gli Unni. Ma i Cinesi conoscevano già i Romani. La Via della Seta metteva infatti in comunicazione Ovest ed Est, solo che questi ‘’rapporti’’ si sarebbero intensificati un po’ dopo questi avvenimenti. Alcuni archeologi però dissentono su questa identificazione tra Xiung-Hu e Unni, come ad esempio Otto Maenchen-Helfen e Christopher Kelly. Secondo quest’ultimo, gli Unni proverrebbero dalle steppe del Kazakistan. Secondo Silvia Blason Scarel la fase di formazione degli Unni, prima di travolgere Alani e Goti, avvenne nell’area compresa tra il Lago d’Aral ed il Mar Caspio; questi Unni avrebbero così aggirato il Mar Caspio a Settentrione giungendo ad occupare un immenso territorio fino alla palude Meotide intorno al Mar d’Azov, così come ricorda lo storico Ammiano Marcellino nelle Res gestae (libro XXXI, 2) [3]. Sugli Unni abbiamo le testimonianze occidentali che li descrivono come un tipico popolo dalla fisionomia mongolide, sebbene non manchino descrizioni che li ascrivono ad un fenotipo europide od almeno europoide, come se si trattasse di un’orda poligenetica. Ma si sa, nei tempi antichi, era abbastanza facile fare certe confusioni, soprattutto se per ‘’Unni’’ si intendeva un esercito di cavalieri molto intraprendenti e feroci. È infatti molto probabile che all’interno della milizia del Regno unno vi fossero anche contingenti indoeuropei ed ugro-finnici, dunque dalla fisionomia europide, ossia nordide, oltre a quella europoide. Procopio, altro storico, infatti, parla di Aparni, ossia ‘’Unni bianchi’’, e le stesse fonti cinesi parlano dei Kian-Yun, i Khioniti, ossia gli ‘’Unni rossi’’. Ammiano li descrive sul finire del IV sec. (libro XXXI, 2, 1-11) in siffatto modo [4], eccone una sintesi: il popolo degli Unni supera ogni limite di barbarie, avendo infatti l’abitudine di solcare profondamente con la lama di un coltello le gote dei neonati, affinché il vigore della barba al momento della crescita subisse indebolimento a causa della rugosità delle cicatrici, lasciando dunque invecchiare imberbi, senza bellezza alcuna e simili ad eunuchi; hanno membra robuste e salde, un grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, al punto che possano essere ritenuti animali bipedi, simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che adornano i parapetti dei ponti; sono molto rozzi nel tenore di vita, non sentono il bisogno del fuoco, né di condire il cibo, nutrendosi solo di radici d’erbe selvatiche e di carne cruda di qualsiasi animale che essi riscaldano per un po’ di tempo tra le loro cosce ed il dorso dei loro cavalli; non usano abitare case provviste di tetto, ma poi aborrono l’uso di una modesta sepoltura, ed infatti tra costoro non si vede alcun fastigio di canne o una semplice tenda; usano vagare per colline e boschi, abituati sin dalla culla a sopportare neve, fame e sete, rimanendo al coperto solo per causa di forza maggiore; pertanto, si allontanano sempre, rientrando negli alloggi solo nel maggior bisogno, ed infatti nessuno di loro si sente al sicuro sotto un tetto; adoperano vestiario di lino oppure fatto di pelliccia di topo, né dispongono di una veste per la casa ed un’altra per andar fuori; fermano al collo una tunica di colore sbiadito, senza mai deporla e dunque cambiarla affinché divenuta troppo logora non si sia ridotta a brandelli; così stanno nelle assemblee, discutendo degli interessi comuni; nessuno di loro lavora la terra, nessuno di loro tocca mai un aratro, vagando senza fissa dimora, senza una legge ed uno stabile tenore di vita; come gente in continua fuga, si spostano con i carri, che poi sono la loro unica abitazione, dove le loro mogli tessono le loro orribili vesti e generano figli, che restano con loro fino alla pubertà; infidi e scostanti nelle tregue, agiscono subitamente ad ogni buona opportunità e sempre all’occasione cancellano ogni buon sentimento con violento furore; ignorano, come animali irragionevoli, bene e male, essendo sempre ambigui ed oscuri nel parlare; né sono legati al rispetto di una religione o di una forma di culto, ma ardono di grande avidità per l’oro; pertanto, sono mutevoli di temperamento e facili preda dell’ira, al punto che spesso in un solo giorno, anche senza provocazione, più volte tradiscono gli amici e poi, anche senza l’intervento di qualcuno che li plachi, si riconciliano.

Fin qui la testimonianza di Ammiano sembra riferirsi proprio ai Mongoli, sia nella descrizione del fenotipo sia nella descrizione delle abitudini. Ma noi dobbiamo capire se queste informazioni prima di tutto siano vere, attinte di prima mano. Sapete, un po’ di scetticismo non guasta mai. Ma qui si sa, entra in gioco quello che percepiva e comprendeva un erudito dell’ecumene romana circa genti provenienti da luoghi a lui totalmente estranei. Costoro non erano infatti antropologi, ed è dunque chiaro che enfatizzavano (a volte sin troppo) tutto quello che non riuscivano a sentire come simile e presentivano come una minaccia, ossia un pregiudizio fondato su una possibile ed imminente pericolo. Secondo Christopher Kelly, infatti, qui vi è il topos che contrappone lo straniero, il ‘’barbaro’’, percepito ‘’rozzo ed incivile’’ ed il ‘’Romano civile e civilizzatore’’, in quanto tutti i popoli al di fuori del confine romano erano considerati ‘’inferiori e senza leggi’’, ed inoltre ‘’brutali, disonesti, senza cultura, senza buon governo e religione’’, proprio come fece Erodoto nei confronti degli Sciti; pertanto, sempre secondo Kelly, è improbabile che Ammiano sia venuto a contatto con gli Unni, come invece avrebbe fatto lo storico Prisco di Panion nel V sec., il quale visitò la corte di Attila, dandone una descrizione più positiva e dunque attendibile [5]. Ad esempio, Ammiano dice che gli Unni avevano per casa i propri carri, mentre Prisco parla di tende; Ammiano dice che gli Unni mangiavano carne cruda, quando sono noti in Archeologia calderoni usati in cucina ed attribuibili a questo popolo. Giordane descrive gli Unni nella sua De origine actibusque Getarum in questo modo (libro I, 24) [6]: “(1) Dopo un breve periodo, così come narra Orosio, la stirpe degli Unni, più feroce della stessa ferocia, si scatenò contro i Goti. Dalle antiche tradizioni apprendiamo che questa fu la loro origine: Filimero, re dei Goti, figlio di Gadarico il Grande, che a sua volta era il quinto nella successione a detenere il dominio sui Goti dopo la loro partenza dalla Scandinavia e che, come abbiamo detto, entrò nella terra degli Sciti con il suo popolo, trovò tra il suo popolo alcune streghe, che egli stesso chiamò Haliurunnae nella sua lingua madre. Sospettando di queste donne, le espulse dal suo popolo, costringendole a vagare in esilio, lontane dal suo seguito. (2) Lì, gli spiriti impuri, che le videro mentre vagavano nel deserto, si concessero loro nell’amplesso generando questa razza selvaggia che inizialmente abitava nelle paludi. Un popolo povero, disgustoso e gracile, quasi non umano e con una lingua che scarsamente sembrava umana. Questa è l’origine degli Unni che giunsero nelle terre dei Goti. (3) Questo popolo, come narra lo storico Prisco, si stabilì sulla riva più lontana della palude Meotica. Amavano la caccia e non mostravano altra abilità in alcuna arte. Dopo esser cresciuti costituendo una nazione, cominciarono a disturbare le stirpi vicine con furti e rapine. Una volta, mentre i cacciatori della loro tribù erano come al solito alla ricerca di uno spasso sul margine più lontano della palude Meotica, apparve inaspettatamente alla loro vista una daina che entrava nella palude, fungendo essa da guida al percorso, avanzando e fermandosi più volte. (4) I cacciatori la seguirono attraversando a piedi la palude, che avevano ritenuto sempre impraticabile come il mare. E così la terra sconosciuta della Scizia si rivelò loro e la daina scomparve. Ora, secondo me, gli spiriti maligni, dai quali discendono gli Unni, fecero ciò per invidia degli Sciti. (5) E gli Unni, che erano prima ignari del fatto che esistesse un altro mondo oltre la palude Meotica, rimasero colti d’ammirazione per la terra degli Sciti. Ed essendo perspicaci, essi credevano che questo percorso, assolutamente sconosciuto in passato, fosse stato loro rivelato da una Divinità. Ritornarono alla loro tribù e, raccontando quanto era loro accaduto e lodando la Scizia, persuasero tutti gli altri ad affrettarsi ad intraprendere il percorso che avevano trovato alla guida della daina. Tutti quelli che gli Unni catturarono, una volta entrati in Scizia, furono sacrificati alla loro vittoria, tutti gli altri conquistati e posti sotto il loro dominio. (6) Come un ciclone costituito da più nazioni, attraversarono la grande palude e subito si avventarono sugli Alpidzuri, sugli Alcidzuri, sugli Itimari, sui Tuncarsi e sui Boisci, che confinavano su quella parte della Scizia. Anche gli Alani, che erano loro pari in battaglia, ma a differenza di loro più progrediti in civiltà, nelle maniere e nell’aspetto, furono sfiancati dai loro incessanti attacchi e ad essi si sottomisero. (7) Ciò più dal grande terrore suscitato dalle loro sembianze che dal fatto forse di essere superiori in campo di battaglia, facendo fuggire i loro nemici con orrore dinanzi al loro aspetto oscuro e spaventoso; e, se così posso definirlo, una sorta di grumo informe, non avendo proprio una testa e con buchi al posto degli occhi. La loro durezza è evidente nel loro aspetto selvaggio, essendo esseri crudeli con i propri figli sin dalla nascita, poiché usano tagliare le guance dei maschi con la spada, in modo che prima di ricevere per nutrimento il latte imparino a sopportare le ferite. (8) Pertanto invecchiano senza barba ed i giovani sono senza bellezza, perché il volto solcato dalla spada rovina con le cicatrici che lascia la naturale bellezza della barba. Sono di bassa statura, rapidi nei movimenti del corpo, vigili cavalieri, con spalle larghe, pronti all’uso di arco e frecce, con collo ben saldo, sempre eretti da orgoglio. Sebbene vivano sotto sembianze umane, possiedono la crudeltà delle bestie selvagge. (9) Quando i Goti videro questa stirpe intraprendente che aveva invaso molte nazioni, ebbero timore e consultarono il loro re al fine di sfuggire ad un simile nemico. Ora, sebbene il re dei Goti, Hermanarico, fosse stato conquistatore di molti popoli, come abbiamo detto pocanzi, mentre egli deliberava sull’invasione degli Unni, la tribù traditrice dei Rosomoni, che a quel tempo era tra coloro che dovevano a costui il loro tributo, colse l’opportunità di prenderlo alla sprovvista. Quando il re diede l’ordine che una certa donna della tribù che ho menzionato, Sunilda di nome, fosse legata ai cavalli selvaggi e fatta a pezzi guidandoli a tutta velocità in direzioni opposte (e ciò era stato voluto dalla furia del marito tradito), i suoi fratelli, Sarus e Ammius, vennero per vendicare la morte della sorella, piantando una spada nel fianco di Hermanarico. Costui, indebolito dal colpo, tirò fuori tutta la sua miserabile esistenza nella debolezza fisica. (10) Balamber, re degli Unni, approfittò dello stato di salute di Hermanarico, spostando un esercito nella terra degli Ostrogoti, già separatisi dai Visigoti a causa di qualche disputa. Nel frattempo, Hermanarico, che non era più in grado di sopportare né il dolore della ferita né la presenza degli Unni, morì alla grande età di centodieci anni. La sua morte permise agli Unni di prevalere su quei Goti, che come abbiamo detto, dimoravano ad Oriente e furono chiamati pertanto Ostrogoti’’.

Inoltre, sempre dal testo di Giordane si evincono altre informazioni che fanno riferimento alla vita ed alle gesta del condottiero Attila. In sintesi: essi si procuravano ferite sulle guance come segno di lutto per i guerrieri più valorosi, preferendo piangere gli eroi con il sangue degli uomini che con le lacrime delle donne; inoltre, essi praticavano la deformazione cranica, allungandosi la calotta cranica ad imitazione delle teste dei popoli indoeuropei dolicomorfi, ovvero sciti e sarmati, indoiranici generalmente, da quali mutuarono molte usanze [7]. Questa pratica, eseguita nella più tenera infanzia stringendo la testa mediante un forte bendaggio, a cranio-sinostosi non ancora avvenuta, avrebbe fatto apparire la propria testa congenitamente brachimorfa (tipicamente turanica e mogolide) ‘’simile’’ a quelle dolicomorfe delle élites indoeuropee dei quali gli Unni stessi ne subirono un grande fascino, mostrando certa una riverenza religiosa. I popoli altaici furono i primi a venire a contatto con i Kurgan (‘’tumuli’’), i sepolcri delle popolazioni scito-sarmate, di ceppo indo-iranico. Lì avrebbero visto le ossa ed i crani ed avrebbero capito che ‘’era necessario essere come loro’’, imitandoli anche nell’aspetto fisico e fisiognomico, potendo in siffatto modo acquisire ‘’la loro grande forza e sapienza’’. Lo sciamanesimo mongolo, come già detto, deriva proprio da questa cultura indoeuropea, così come l’uso copioso dello Svastica, soprattutto quello polare, il Sauvastica (con i bracci volti a sinistra), tuttora molto diffuso in Mongolia. Della lingua degli Unni è rimasto il nulla, e gli stessi antroponimi, come il più noto di tutti, Attila, non pare per niente d’origine turcica. Ed anche qui c’è chi propende per una filiazione ugro-finnica, ascrivendo tale lingua ad un dialetto proto-ungherese, oppure ascrivendo la stessa alle lingue iraniche. Ancora una volta, posso dimostrare quanto di erroneo vi è in queste altre teorie.

Vi ricordo infatti che ‘’Attila’’ non era un praenomen, ma un cognomen, ossia un epiteto, un soprannome, di origine gotica tra l’altro, dunque germanica e non altaica o d’altro ceppo, significante ‘’Piccolo padre’’, accostabile sia a livello semantico sia a livello di sequenza fonetica (cosa ancora più importante per rintracciarne la genealogia) all’ellenico prenome ‘’Attalo’’ (in pratica, il suo corrispondente ellenico). E così vanno trattati anche i nomi dei suoi predecessori, lo zio Rua ed il fratello Bleda. Un epiteto originatosi da un ben noto elemento radicale: atta ‘’papà’’ (forma vezzeggiativo-infantile indoeuropea), al quale si è aggiunto il suffisso per formare la forma diminutiva in –l– (proprio come in Latino, dove abbiamo barbula ‘’barbetta’’, ursulus o ursula ‘’orsetto’’ e ‘’orsetta’’, etc.). Per cui, strano a dirsi, vista la nomina che ebbe il personaggio al suo tempo, flagellum dei, il suo soprannome in realtà oggi corrisponde a ‘’paparino’’. Nella penisola anatolica noi riscontriamo (grazie agli excursus evemeristici di Diodoro Siculo) nel mito Atta e Attis, lemma rimasto nel tempo ed acquisito poi dai Turchi ivi giunti nel corso del Medioevo nella forma di ata; così come lo ritroviamo oggi diffuso nell’Europa centrale grazie ai ricordi lasciati dal condottiero unno, come nel nome proprio di persona ungherese Attila (in Ungherese atya significa ‘’padre’’), così come nelle forme Etele, Etelka ed Etel, queste ultime due femminili, tutti di derivazione tedesca, varianti della forma Etzel, ossia la forma onomastica ricorrente nel Nibelungenlied e facente riferimento proprio al condottiero degli Unni. Ma allora il nostro Attila come si chiamava in realtà? Il vero nome sarebbe stato Avithohol, ma avendo preso possesso del territorio ove erano stanziati i Goti fu chiamato da questi ultimi (forse in riferimento alla statura piuttosto piccola rispetto a loro, forse come vezzeggiativo nei confronti del carattere) Attila ‘’Paparino’’. Un paragone si trova facilmente nel nomignolo gotico Ulfila ‘’Lupacchiotto’’.

Anche il termine per designare un re o un condottiero presso le popolazioni altaiche, khān (nel sistema di scrittura mongolo хан), è di origine indoeuropea. Lo si trova anche in altre forme nel continente asiatico e che traslitterato viene reso: qan, qaghanqa’ankagankhaan. Nelle lingue altaiche fa riferimento precisamente a ‘’grande principe’’ e ‘’monarca’’. Una donna appartenente a questo rango era riconosciuta con i lemmi khānum o khānim. La radice semantica è, come già detto, schiettamente indoeuropea, riferibile a quella che ha dato nelle lingue germaniche: king in Inglese moderno (a sua volta dall’Antico Inglese cyning/cyng/cyneg/cynig/cuning/kyning/kuning, dall’Antico Sassone kuning); König in Tedesco moderno ( a sua volta dall’Antico Alto Tedesco kuning/khuninc); konge in Norvegese bokmål (direttamente dal Norreno konungr/kongr); in Islandese konungur/kóngur (sempre dalle forme norrene); in Svedese konung/kung (da konunger/kununger/kunger); tutti dall’originario Kuningaz; così come nel Celtico quel –king– (+ terminazione del participio passivo in t) che si ritrova nei nomi altisonanti come quello di Vercingetorige (Uerkingetorix). In Turco, noi oggi abbiamo kral, di inequivocabile derivazione slava (in Polacco abbiamo infatti król, in Macedone kral, in Serbo kralju, in Croato kralj, in Ceco král, in Russo korol’), ma in Mongolo ancora хaан, traslitterato khaan; ed ancora in Ungherese király (dunque di derivazione slava), in Estone e Finlandese kuningas (direttamente dalla forma originaria germanica); ed infine, sempre in ambito indoeuropeo, in Lituano abbiamo kuningas/kunigas. E non vi sorprendete se in Giappone, in questa meravigliosa nazione, ‘’re’’ si dice kingu, letto da キング. Queste onde d’influenza spirituale, culturale e linguistica sono giunte sino in Giappone, nobile nazione di Imperatori e Samurai, anche se non direttamente. Per questo i vari gruppi altaici, tra cui gli Unni (e sempre questi possono essere ascritti a questa stirpe) usavano modificare i loro crani brachimorfi sin dalla più tenera infanzia, in modo da condizionare la cranio-sinostosi, imitando così i crani dei popoli ‘’Signori’’, quelli dei Kurgan, ovvero i popoli indo-iranici, dai quali hanno imparato tra le moltissime cose anche l’andare a cavallo (Cultura di Srednij Stog, 4500-3500 a.C.). Questa parola, khān ‘’re’’, usata oltre la catena uralica da popolazioni non ariane ha tuttavia un’indubbia origine ariana, e per essere ancora più precisi un’origine germanica: da *kunją ‘’linea patrilineare/clan/famiglia’’(a sua volta dalla radice ancestrale proto-Indoeuropea *gehxnehx– ‘’generare’’, da cui la sequenza gens/γένος/kyn/jana -जन- ‘’stirpe/razza’’ in Latino/Greco antico/Norreno/Sanscrito) + *-ingaz< *-ungō, suffisso gerundivo genitivale per ‘’appartenere’’, dunque ‘’appartenenza al clan/appartenenza alla linea patrilineare’’. Questo per farvi capire una cosa davvero importante dell’analisi linguistica: non si può improvvisare senza seguire alcun metodo che abbia delle basi ‘’matematiche’’, senza le quali, davvero ogni teoria e considerazione sulle origini e filiazioni linguistiche rischiano di diventare ‘’farraginose’’ (sebbene molte lo sono già a priori). Per chi vede nelle iscrizioni dei Göktürk origini dal Pahlavi, si sappia che si sta comunque parlando sempre di una forma di scrittura usata per dialetti medo-persiani, dunque indoeuropei.

Sistema grafemico Rovásírás tuttora in uso nella terra dei Siculi della Transilvania.

E per concludere in bellezza, se prendiamo in esame, ad esempio, il grafema del sistema dei Göktürk indicante le vocali anteriori, il suono aperto a e quello semichiuso e, ci accorgiamo subito che esso presenta una certa similitudine, dunque una probabile derivazione, con il glifo runico gotico Wear/Aihs [‘’Sacrificio’’ e ‘’Pezzo di legno simbolico staccato da un ramo di tasso rappresentante la biunivocità tra vita e morte’’; ricordo che nel presente testo i nomi dei glifi runici sono in Gotico, ossia Antico Germanico orientale], che suona come e chiusa e lunga (derivata dal dittongo primitivo ei, e che rivolto a sinistra diventa ‘’Accensione’’, nel Fuþorc friso-anglo-sassone Cweorð), a sua volta corrispondente al grafema siculo-magiaro indicante l’occlusiva velare sorda k); così se prendo il grafema del sistema dei Göktürk indicante l’occlusiva dentale sonora d, ci accorgiamo che esso presenta una certa derivazione dal glifo runico gotico Gewa/Giba [‘’Dono’’ e ‘’Legame tra le due parti che scambiano’’], e che a sua volta corrisponde al grafema siculo-magiaro indicante l’occlusiva bilabiale sonora b; ed infine che il grafema del sistema asiatico indicante la vocale anteriore chiusa i (a sua volta laringalizzazione/vocalizzazione di jod) e la occlusiva bilabiale sorda p (se rivolto verso sinistra), ci accorgiamo ulteriormente che esso presenta una certa derivazione dal glifo gotico Laas/Lagus [‘’Fluidità dell’acqua’’, ‘’Ciò che stimola la crescita’’, anche ‘’Avere controllo sugli elementi che ci circondano’’], e che ancora una volta corrisponde al grafema siculo-magiaro indicante l’approssimante palatale sonora j (rivolto a sinistra).


Note:

[1]  György Kara, Aramaic Scripts for Altaic Languages, 1996; Orkun Hüseyin Namık, Eski Türk Yazıtları (trad. ‘’Antiche iscrizioni turche’’), Ankara 1994; M. Ergin, Orhun Abideleri (trad. I monumenti dell’Orkhon), İstanbul 1992; Tekin Talât, Orhon Yazıtları (trad. Le Epigrafi dell’Orkhon), Ankara 1988; AA. VV., Imperi delle steppe. Da Attila a Ungern Khan (con prefazione di F. Cardini), Centro Studi Vox Populi, Pergine 2008. 

[2] R. Grousset, The Empire of the Steppes: A History of Central Asia, ed. Rutgers University Press, New Jersey, U.S.A. 1991, pag. 148 (libro di ben 718 pagine); ed. I con il titolo L’Empire des steppes, Attila, Gengis-Khan, Tamerlan, Parigi 1939.

[3] Silvia Blason Scarel, Attila e gli Unni, ed. L’Erma di Bretschneider, Roma 1995, pagg. 16-17.

[4] Ammiano Marcellino, Res gestae, libro XXX, 2, 1-11: (1) Hunorum gens monumentis veteribus leviter nota ultra paludes Maeoticas glacialem oceanum accolens, omnem modum feritatis excedit. (2) ubi quoniam ab ipsis nascendi primitiis infantum ferro sulcantur altius genae, ut pilorum vigor tempestivus emergens conrugatis cicatricibus hebetetur, senescunt imberbes absque ulla venustate, spadonibus similes, conpactis omnes firmisque membris et opimis cervicibus, prodigiosae formae et pavendi, ut bipedes existimes bestias vel quales in conmarginandis pontibus effigiati stipites dolantur incompte. (3) in hominum autem figura licet insuavi ita visi sunt asperi, ut neque igni neque saporatis indigeant cibis sed radicibus herbarum agrestium et semicruda cuiusvis pecoris carne vescantur, quam inter femora sua equorumque terga subsertam fotu calefaciunt brevi. (4) aedificiis nullis umquam tecti sed haec velut ab usu communi discreta sepulcra declinant. nec enim apud eos vel arundine fastigatum reperiri tugurium potest. sed vagi montes peragrantes et silvas, pruinas famem sitimque perferre ab incunabulis adsuescunt. peregre tecta nisi adigente maxima necessitate non subeunt: nec enim apud eos securos existimant esse sub tectis… (5) indumentis operiuntur linteis vel ex pellibus silvestrium murum consarcinatis, nec alia illis domestica vestis est, alia forensis. sed semel obsoleti coloris tunica collo inserta non ante deponitur aut mutatur quam diuturna carie in pannulos defluxerit defrustata. (6) galeris incurvis capita tegunt, hirsuta crura coriis muniendis haedinis, eorumque calcei formulis nullis aptati vetant incedere gressibus liberis. qua causa ad pedestres parum adcommodati sunt pugnas, verum equis prope adfixi, duris quidem sed deformibus, et muliebriter isdem non numquam insidentes funguntur muneribus consuetis. ex ipsis quivis in hac natione pernox et perdius emit et vendit, cibumque sumit et potum, et inclinatus cervici angustae iumenti in altum soporem ad usque varietatem effunditur somniorum. (7) et deliberatione super rebus proposita seriis, hoc habitu omnes in commune consultant. aguntur autem nulla severitate regali sed tumultuario primatum ductu contenti perrumpunt quicquid inciderit. (8) et pugnant non numquam lacessiti sed ineuntes proelia cuneatim variis vocibus sonantibus torvum. utque ad pernicitatem sunt leves et repentini, ita subito de industria dispersi vigescunt, et inconposita acie cum caede vasta discurrunt, nec invadentes vallum nec castra inimica pilantes prae nimia rapiditate cernuntur. (9) eoque omnium acerrimos facile dixeris bellatores, quod procul missilibus telis, acutis ossibus pro spiculorum acumine arte mira coagmentatis, et distantia percursa comminus ferro sine sui respectu confligunt, hostisque, dum mucronum noxias observant, contortis laciniis inligant, ut laqueatis resistentium membris equitandi vel gradiendi adimant facultatem. (10) nemo apud eos arat nec stivam aliquando contingit. omnes enim sine sedibus fixis, absque lare vel lege aut victu stabili dispalantur, semper fugientium similes, cum carpentis, in quibus habitant: ubi coniuges taetra illis vestimenta contexunt et coeunt cum maritis et pariunt et ad usque pubertatem nutriunt pueros. nullusque apud eos interrogatus respondere, unde oritur, potest, alibi conceptus, natusque procul, et longius educatus. (11) per indutias infidi inconstantes ad omnem auram incidentis spei novae perquam mobiles, totum furori incitatissimo tribuentes. inconsultorum animalium ritu, quid honestum inhonestumve sit penitus ignorantes, flexiloqui et obscuri, nullius religionis vel superstitionis reverentia aliquando districti, auri cupidine inmensa flagrantes, adeo permutabiles et irasci faciles ut eodem aliquotiens die a sociis nullo inritante saepe desciscant, itidemque propitientur nemine leniente.

[5] Prisco partecipò ad una missione diplomatica presso il re degli Unni, Attila, al seguito dell’ufficiale Massimino, suo amico, tra il 448 ed il 449. Quanto ha scritto (in lingua greca) ci è stato tramandato con il titolo di Storia, ed allo stato attuale trattasi solo di frammenti. L’Imperatore Costantino VII Porfirogenito, regnante nel X sec., fece compilare sotto la sua supervisione le testimonianze delle ambasciate inviate dagli Imperatori alle gentes, suddividendo esse in due parti: Excerpta de legationibus Romanorum ad gentes, ossia ‘’Estratti delle ambasciate dei Romani presso i popoli’’, e Excerpta de legationibus gentium ad Romanos, ossia ‘’Estratti delle ambasciate dei popoli presso i Romani’’. Lo stesso Costantino VII diede come titolo Storia o Storia gotica (almeno così egli cita nei suoi scritti); ma nella Suida vi è la citazione Storia bizantina e Eventi del tempo di Attila, e così anche la sua stesura in otto libri. I frammenti da consultare sono dal n. 3 al n.19. 

[6] Questo è il titolo che diede allo scritto Theodor Mommsen. Riporto qui il testo (libro XXIV, 24, 1-10): (1) Post autem non longi temporis intervallo, ut refert Orosius, Hunnorum gens omni ferocitate atrocior exarsit in Gothos. Nam hos, ut refert antiquitas, ita extitisse conperimus. Filimer rex Gothorum et Gadarici magni filius qui post egressu Scandzae insulae iam quinto loco tenens principatum Getarum, qui et terras Scythicas cum sua gente introisse superius a nobis dictum est, repperit in populo suo quasdam magas mulieres, quas patrio sermone Haliurunnas is ipse cognominat, easque habens suspectas de medio sui proturbat longeque ab exercitu suo fugatas in solitudinem coegit errare. (2) Quas spiritus inmundi per herimum vagantes dum vidissent et eorum conplexibus in coitu miscuissent, genus hoc ferocissimum ediderunt, quae fuit primum inter paludes, minutum tetrum atque exile quasi hominum genus nec alia voce notum nisi quod humani sermonis imaginem adsignabat. Tali igitur Hunni stirpe creati Gothorum finibus advenerunt. (3) Quorum natio saeva, ut Priscus istoricus refert, Meotida palude ulteriore ripa insidens, venationi tantum nec alio labore experta, nisi quod, postquam crevisset in populis, fraudibus et rapinis vicinarum gentium quiete conturbans. Huius ergo gentis, ut adsolet, venatores, dum in interioris Meotidae ripam venationes inquirent, animadvertunt, quomodo ex inproviso cerva se illis optulit ingressaque paludem nunc progrediens nunc subsistens index viae se tribuit. (4) Quam secuti venatores paludem Meotidam, quem inpervium ut pelagus aestimant, pedibus transierunt. Mox quoque Scythica terra ignotis apparuit, cerva disparuit. Quod, credo, spiritus illi, unde progeniem trahunt, ad Scytharum invidia id egerunt. (5) Illi vero, qui praeter Meotidam alium mundum esse paenitus ignorabant, admiratione ducti terrae Scythicae et, ut sunt sollertes, iter illud nullae ante aetati notissimum divinitus sibi ostensum rati, ad suos redeunt, rei gestum edocent, Scythiam laudant persuasaque gente sua via, qua cerva indice dedicerant, ad Scythiam properant, et quantoscumque prius in ingressu Scytharum habuerunt, litavere victoriae, reliquos perdomitos subegerunt. (6) Nam mox ingentem illam paludem transierunt, ilico Alpidzuros, Alcildzuros, Itimaros, Tuncarsos et Boiscos, qui ripae istius Scythiae insedebant, quasi quaedam turbo gentium rapuerunt. Halanos quoque pugna sibi pares, sed humanitate, victu formaque dissimiles, frequenti certamine fatigantes, subiugaverunt. (7) Nam et quos bello forsitan minime superabant, vultus sui terrore nimium pavorem ingerentes, terribilitate fugabant, eo quod erat eis species pavenda nigridinis et velud quaedam, si dici fas est, informis offa, non facies, habensque magis puncta quam lumina. Quorum animi fiducia turvus prodet aspectus, qui etiam in pignora sua primo die nata desaeviunt. Nam maribus ferro genas secant, ut ante quam lactis nutrimenta percipiant, vulneris cogantur subire tolerantiam. (8) Hinc inberbes senescunt et sine venustate efoebi sunt, quia facies ferro sulcata tempestivam pilorum gratiam cicatricis absumit. Exigui quidem forma, sed argutis motibus expediti et ad equitandum promptissimi, scapulis latis, et ad arcos sagittasque parati firmis cervicibus et superbia semper erecti. Hi vero sub hominum figura vivunt beluina saevitia. (9) Quod genus expeditissimum multarumque nationum grassatorem Getae ut viderunt, paviscunt, suoque cum rege deliberant, qualiter tali se hoste subducant. Nam Hermanaricus, rex Gothorum, licet, ut superius retulimus, multarum gentium extiterat triumphator, de Hunnorum tamen adventu dum cogitat, Rosomonorum gens infida, quae tunc inter alias illi famulatum exhibebat, tali eum nanciscitur occasione decipere. Dum enim quandam mulierem Sunilda nomine ex gente memorata pro mariti fraudulento discessu rex furore commotus equis ferocibus inligatam incitatisque cursibus per diversa divelli praecipisset, fratres eius Sarus et Ammius, germanae obitum vindicantes, Hermanarici latus ferro petierunt; quo vulnere saucius egram vitam corporis inbecillitate contraxit. (10) Quam adversam eius valitudinem captans Balamber rex Hunnorum in Ostrogotharum parte movit procinctum, a quorum societate iam Vesegothae quadam inter se intentione seiuncti habebantur. Inter haec Hermanaricus tam vulneris dolore quam etiam Hunnorum incursionibus non ferens grandevus et plenus dierum centesimo decimo anno vitae suae defunctus est. Cuius mortis occasio dedit Hunnis praevalere in Gothis illis, quos dixeramus orientali plaga sedere et Ostrogothas nuncupari.

[7] C. Kelly, Attila e la caduta di Roma, Milano 2009; P. Heather, La caduta dell’Impero romano: una nuova storia, Milano 2006.

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