“Yoga” di Emmanuel Carrère: medito, dunque sono

Il romanzo di Emmanuel Carrère è un delirante viaggio nel suo abisso interiore che ognuno di noi può riconoscere e compatire. Ma è anche un gioioso vibrante invito ad accettare la vita, a osservarla nella sua interezza, così come si osserva il proprio pensiero mentre si medita. Ogni giorno seduti, immobili, in silenzio. 

di Lorenzo Pennacchi

Mentre sto scrivendo questo articolo mancano pochissime ore all’uscita del nuovo, attesissimo, romanzo di Emmanuel Carrère. Eppure, ho appena finito di leggere il suo penultimo libro e questa volta devo scriverci sopra. Ho resistito per I baffi surreali, ancora più arduamente per quel pazzesco ritratto punk di Limonov, ma non stavolta. Perché scrivere è una necessità interiore, è lo spazio, riprendendo Carrère, in cui si è onesti con sé stessi e Yoga è una meditazione coinvolgente che necessita di essere estesa, praticata, condivisa, criticata. Yoga è letteratura, sublime letteratura, e dunque vita, in tutte le sue sfaccettature. 

Il libro è l’esito di un processo tortuoso. Inizialmente Emmanuel Carrère avrebbe voluto scrivere un agile saggio a sostegno dello yoga e della meditazione, attività che pratica da neofita da più di trent’anni. Sarebbe stata un’apologia scritta da una penna brillante, che ammette fin da subito di non rappresentare nessuna autorità in materia, per dissipare i più comuni pregiudizi attorno a queste pratiche. Di fatto, un modo per presentare questa realtà senza ergersi al grado di santone di turno, svuotando quella vena radical chic e freak che tanto pompa questi ambienti, almeno nell’immaginario comune. La finalità è rafforzata dall’esperienza, intensiva, a un seminario di meditazione Vipassana nel bel mezzo della Francia all’inizio del 2015.

Carrère afferma ripetutamente di esserci andato per scrivere il suo testo, violando in un certo senso le regole del gioco. Un corso del genere, infatti, è proprio l’occasione per isolarsi dal mondo, tirarsi fuori dal marasma del samsara e provare a raggiungere l’unità, il nirvana, seppur momentaneamente. Del resto per l’autore la meditazione, in una delle sue molteplici definizioni, «mira proprio a smetterla di raccontarsi storie» [1]. Figurarsi scriverne. Immergersi in un ciclo continuo di inspirazioni ed espirazioni, silenzi prolungati, posture stoiche, calibrato dalla voce al di là dello spazio e del tempo di S. N. Goenka con l’obiettivo stabilito di farne un libro è del tutto paradossale. Ma è la vita che si nutre di paradossi, non sorprendiamoci. 

Nella sua prima definizione l’autore circoscrive la meditazione a «tutto ciò che accade dentro di noi nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili, in silenzio» [2]. Queste poche parole mirano a sradicare tale pratica da un immaginario esotico o claustrale, a renderla accessibile, ad attualizzarla. Personalmente mi sono bastate per iniziare a meditare ogni sera a gambe incrociate sul parquet, immobile, in silenzio. Dieci onesti minuti quotidiani in cui mi concentro sulla respirazione, sul corpo, sulla postura, lottando contro le vritti, le fluttuazioni mentali che caratterizzano le nostre vite e che ci impediscono, dicono i maestri, di vedere la vita così com’è. Lo yoga consiste proprio nel riuscire ad ammaestrare i pensieri, originariamente a legare a uno stesso giogo due buoi differenti. Dieci minuti che non corrispondono ai consueti dieci minuti di lavoro, di studio o di svago, ma proprio dieci minuti vissuti secondo per secondo in cui l’io combatte contro il proprio ego. Perché in una sintesi di definizioni: 

La meditazione è distaccarsi dalla propria identità. La meditazione è scoprire che siamo altro da ciò che dice in continuazione: Io! Io! Io! La meditazione è scoprire che siamo altro dal nostro ego. La meditazione è una tecnica per intaccare l’ego. 

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Nei minuti, o nelle ore, in cui si resta seduti, immobili e in silenzio le vritti attaccano costantemente la nostra mente. È naturale che sia così, è parte della vita. La meditazione insegna dunque a resistere, rafforza la pazienza, ci permette di scavare in noi stessi e così facendo ci depotenzia, permettendoci di vedere meglio l’altro da sé una volta riaperti gli occhi. Chiaramente al momento sto decisamente perdendo questa grande guerra spirituale, ma ringrazio Carrère per essere riuscito in poche pagine dove altri svariati tentativi, con tutte le loro pretese di integrità e perfezione, hanno fallito nel corso degli anni. Ho tutta la vita per migliorare e questo mi basta. In un certo senso, meditare è come pregare ma senza quel sostrato di credenze necessario nella comune accezione del termine, come ricorda la cavernosa voce di S. N. Goenka al termine del primo giorno di seminario Vipassana

Non lavorate con idee o credenze, lavorate soltanto con il vostro respiro. Soltanto con la vostra esperienza diretta. L’ultima cosa che vi si chiede è di credere a qualcosa. Non credete a niente: provate. Sperimentate. 

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Sono piuttosto convinto del fatto che se Emmanuel Carrère avesse terminato il suo ritiro di dieci giorni avrebbe realmente scritto quel libro agile e positivo sullo yoga che si era ripromesso di plasmare dalla propria esperienza. Ma le cose sono andate diversamente. Il 7 gennaio 2015, contemporaneamente all’uscita del chiacchieratissimo Sottomissione di Michel Houellebecq, alle undici e venti di mattina la redazione di Charlie Hebdo, in prossimità di place de la Bastille, è stata varcata da due uomini incappucciati armati di kalashnikov. Sono state uccise dodici persone, altre cinque sono rimaste gravemente ferite.

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La Francia ha realizzato di essere in uno psicodramma sociale figlio della sua storia, le persone hanno pianto la tragedia, Carrère è stato strappato (con la sua volontà) da quel seminario che, almeno a parole, è considerato inabbandonabile. Poi ci è tornato e ha affrontato i dieci giorni ma, neanche a dirlo, con una preparazione tale da rendere l’esperienza del tutto prevedibile e per questo molto più depotenziata. A ogni modo non avrebbe potuto fare altrimenti, visto che gli era stato chiesto di parlare al funerale di Bernard Maris del suo amore per la letteratura, in vece proprio di Houellebecq, che si trovava nell’occhio del ciclone in quel momento più che mai. La richiesta arrivava dalla compagna di Bernard, Hélène Fresnel: una coppia splendida, della quale Carrère ricorda l’amore profondo e il bel tempo passato assieme. Una chiamata disperata che interrompe la ricerca dell’unità spirituale e l’immediata stesura dell’apologia dello yoga contro i facili pregiudizi. Irrifiutabile, improrogabile. Del resto: 

Ho l’impressione che tra il sangue e le lacrime sparsi a Parigi in quei giorni, il cervello di Bernard sul linoleum della povera, piccola redazione di «Charlie», la vita distrutta di Hélène F., per militarmi alle persone che conosco, e il nostro conclave di meditanti impegnati a frequentare ognuno le proprie narici e a masticare in silenzio bulgur con gomasio, una delle due esperienze sia, molto più semplicemente, più vera dell’altra. Tutto quello che è reale è vero, per definizione, ma alcune percezioni del reale hanno un grado di vastità maggiore di altre, e non sono le più ottimiste. Penso per esempio che ci sia un grado di verità maggiore in Dostoevskij che nel Dalai Lama. Insomma, con il mio libro arguto e accattivante sullo yoga era un po’ nella merda.

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Oltre al libro, nella merda Emmanuel ci stava per (ri)entrare con tutte le scarpe. Nelle prime pagine di Yoga delinea un’importante differenziazione tra due tipi di sofferenza. La prima, umana, è quella che deriva dai drammi della vita. Charlie Hebdo è pura sofferenza umana. La seconda, nevrotica, deriva invece da sé stessi, dall’insoddisfazione perenne, dalle paranoie, dal benessere. Carrère, una delle penne più fini del nostro tempo, è un nevrotico. Uno di quelli che una persona con i problemi, quelli della vita, prenderebbe a pugni dalla mattina alla sera per essere così egoista. Capite? Un nevrotico radicale, che si scoprirà bipolare, che pratica la meditazione e scrive un libro sullo yoga per defenestrare il proprio ego. Eppure, non basta. Le vritti, «vritti sotto l’effetto della cocaina» [6], hanno la meglio su di lui per un lungo periodo, conducendolo all’internamento in un ospedale psichiatrico, alla somministrazione regolare di ketamina come fosse un cavallo, a un’eutanasia fraintesa, a diversi elettroshock che oggi si chiamano TEC.

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È il baratro, il punto più basso di quella meditazione costante che è la vita, segnata dalla dialettica degli opposti, come ricordano non soltanto le filosofie orientali, ma anche i sapienti greci e numerose fila di altri filosofi occidentali, culminando nella liberatoria opera di Friedrich W. Nietzsche, un profondo dir di sì! a chi siamo e a ciò che ci circonda. L’equilibrio tra le forze complementari, tra lo yin e lo yang, è uno degli obiettivi dello yoga, che insegna a padroneggiare i percorsi da un polo all’altro e viceversa. Un obiettivo del tutto fuori portata per il pazzo, incapace di ordinare i pensieri e inerme verso lo tsunami delle vritti che si staglia su di lui. Ora, Emmanuel è un amante della meditazione nelle sue svariate forme, ma anche clinicamente pazzo. Sarò cinico, e forse sgradevole, ma credo che, in quanto scrittore, non avrebbe potuto desiderare di meglio

Ricordo con estrema precisione quella sera di settembre del 2016 in cui, seduto come quasi tutte le sere, da solo, al Café Le Rallye, all’angolo tra rue de Paradis e rue du Faubourg-Poissonnière dove mi ero appena trasferito, sono stato accecato, come Paolo sulla via di Damasco, dall’evidenza che la mia autobiografia psichiatrica e il mio saggio sullo yoga erano lo stesso libro. […] E sono sicuro che questo possa essere un buon libro, un libro necessario, in cui i due poli riusciranno a convivere: l’incessante aspirazione all’unità, alla luce, all’empatia e l’opposto, potente richiamo della divisione, della chiusura in sé, della disperazione. Questo tira e molla è più o meno la storia di tutti gli uomini, solo che in me è portato all’eccesso, è patologico, ma siccome sono uno scrittore posso farne qualcosa. Devo farne qualcosa. La mia triste storia personale può diventare universale.  

[7]

Dal malessere nevrotico Emmanuel Carrère ci esce veramente solo quando, una volta stabilizzato clinicamente, si rapporta nuovamente al male umano. Durante la cosiddetta crisi dei rifugiati, infatti, si reca a Leros. Qui collabora in un centro profughi, tasta i drammi di giovani ragazzi costretti dal grande gioco cosmico a lasciare tutto e tutti riponendo le speranze in una società (avanzata) sempre più instabile e disgregata. Qui conosce la responsabile Frederica Mojave, da cui si stabilisce e con cui non va mai a letto ma con la quale sperimenta una serata di pura estasi ascoltando e ballando a ripetizione la polacca n. 6, detta Eroica, di Frédéric Chopin.

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Per capire l’importanza simbolica di quest’evento, aprite il video soprastante e soffermatevi al minuto 5:30 e per qualche secondo successivo. In quel mutamento, in quel sorriso della splendida giovanissima Martha Argerich, c’è l’orizzonte di senso, la speranza, il dire di sì! che permette alle persone come Emmanuel e a tutti noi di andare avanti, nonostante l’Ombra che vorrebbe avvolgerci. Quella semplicità che ci dovrebbe far apprezzare la vita, la nostra vita e fare il possibile affinché sia migliore per tutti. È la semplicità della meditazione che consiste nello stare seduti, immobili, in silenzio, o da un’altra, ultima, prospettiva «di pisciare quando si piscia e cacare quando si caca» [8]. Fare le cose nel momento in cui si devono fare con la gratitudine per la possibilità di poterle fare. Scrivere un articolo usando la prima persona, insegnare ai propri studenti a esplorare la conoscenza e a rispettare il prossimo, esultare per una vittoria, continuare a cantare dopo una sconfitta, amare. È nell’amore che l’io può essere realmente ridimensionato e solo un io umile è in grado respirare veramente: 

Io non ci arriverò mai, ma credo che si possa praticare lo yoga, in ogni sua posizione, a livello cellulare e molecolare. Sono sicuro che a furia di portare l’attenzione sulla pelle e su quello che c’è sotto la pelle, sull’inspirazione e sull’espirazione, sull’attività di pompaggio del cuore, sulla circolazione del sangue, sul fluire dei pensieri, a furia di sprofondare nell’infinitamente tenue delle sensazioni e della consapevolezza si arrivi un giorno dall’altra parte, nell’infinitamente grande, nell’infinitamente aperto, nel cielo che l’uomo è nato per contemplare: è questo, lo yoga

[9]

NOTE:

[1] Emmanuel Carrère, Yoga, Adelphi, Milano 2021, p. 145.

[2] Ivi, p. 32. 

[3] Ivi, p. 280. 

[4] Ivi, p. 97.

[5] Ivi, p. 146.

[6] Ivi, p. 157.

[7] Ivi, pp. 162-163.

[8] Ivi, p. 280.

[9] Ivi, p. 234.

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