Percorsi  iniziatici nella gnosi cristiana: il pavimento musivo di Aquileia e la Pistis Sophia

Il Cristianesimo originario, il giudeo-cristianesimo o esseno-cristianesimo, quella dottrina che il Cristo consegnò al suo “fratello pneumatico” Giacomo, insegnamento che René Guénon vedeva impenetrabilmente avvolto nella riservatezza più discreta, fu una gnosi? Si può rispondere affermativamente esaminando le rappresentazioni del grande tappeto musivo ispirate a temi del giudeo cristianesimo presenti nella cattedrale di Aquileia. La loro peculiare iconografia fornisce ben più di un indizio a suffragio di questa tesi.

di Antonio Bonifacio

La sostanziale differenza ‘ermetica’ tra il cristianesimo ed altre tradizioni consiste nel fatto che mentre la liturgia ufficiale e la ritualità sacramentale si sono progressivamente staccate dalle modalità iniziatiche del proto cristianesimo, la comprensione della ritualità occulta è stata sempre riservata realmente a pochi iniziati e sono state trasmesse regolarmente proprio perché occultare nell’immenso patrimonio misterico, visibile a tutti ma comprensibile a pochissimi.

Claudio Lanzi, Ermetismo e mistica, p. 9

Avvertenza 

Nel corso del presente intervento si userà prevalentemente la locuzione giudeo-cristianesimo perché è quella che correntemente negli studi identifica gli “ebrei credenti in Gesù Cristo”. Quest’ultima d’altronde sarebbe la formulazione più corretta per identificare  tale “movimento” dal momento che di cristianesimo si dovrebbe cominciare a parlare solo ben più avanti nella storia. Tuttavia uno studioso del calibro di Simone Claude Minouni ha potuto parlare di “comunità nazoreana cristiana” di Gerusalemme, alludendo evidentemente alla primigenia comunità del Sion che, per questo ricercatore, sarebbe stata fondata dallo stesso Cristo antecedentemente alla sua Passione e Resurrezione. Le cristofanie sarebbero quindi già momenti successivi lo stabilimento di una comunità di adepti già delineata e incardinata e quindi consegnata al fratello di Gesù, ovvero Giacomo, prima della crocifissione che ne doveva perpetuare l’insegnamento e le pratiche dopo la Resurrezione.

Premessa introduttiva 

Il termine gnosi è quello che suscita le più urticanti allergie tra i presunti custodi della tradizione cristica integrale (ovvero la grande Chiesa), nonché dei veri e propri attacchi di panico se si osa associare il termine “gnosi” all’aggettivo “cristiana”. Troppo lungo sarebbe entrare nello spinoso argomento in poche righe, sprecando frettolosamente la possibilità di argomentare sufficientemente a contraris la bontà di questa definizione del primo cristianesimo gerosolimitano. 

La gnosi cristiana è espressione perfettamente ortodossa del cristianesimo pneumatico e, solo per citare un esempio, la sua appropriatezza e la sua superiorità gerarchica sulla fede è riconosciuta proprio da uno dei Padri della chiesa antica e vale a dire San Clemente Alessandrino e, dopo di lui, da Origene, suo discepolo e successore nella cattedra al Didaskaléion, un gigante del pensiero cristiano, che però a seguito dell’assunzione di certe posizioni contrastanti con la dogmatica in via di formazione, ha subito una certa damnatio memoriae che renderebbe non utilizzabili le sue affermazioni sul tema gnosi in ambito ortodosso.

Si sottolinea, solo con un piccolissimo cenno, che secondo taluni la gnosi clementina origeniana non sarebbe comunque l’originale gnosi cristica, quanto piuttosto un suo amputato derivato, come paradossalmente sarebbe stato “imperfettamente” gnostico lo stesso Paolo che si definiva gnosei (2 Cor. XI, 6). Tuttavia non è opportuno inoltrarci ulteriormente in un simile campo minato e quindi torniamo a Clemente,

In una delle sue opere, gli Stromata (VI 7m 61,1), il citato Clemente asserisce che la Gnosi è una forma superiore di conoscenza (conoscenza per identità — conoscente conosciuto e atto del conoscere — e quindi non dianoetica) e così questi la definisce: sapienza, scienza e comprensione di ciò che è stato e di ciò che sarà, SOLIDA E SICURA in quanto RIVELATA E TRASMESSA DAL FIGLIO DI DIO” (che per conseguenza ne rappresenta l’origine prima [ndr], perciò va conquistata con ascetico sforzo per appropriarsi di un abito eterno ed inalterabile di contemplazione (cit. da P Galiano; 2016, pp. 102-103). 

Dichiarazione, questa, lapidaria, e incontrovertibile circa l’origine dell’insegnamento “riservato” in cui l’elemento della grazia sembra ridotto se non assente (“ascetico sforzo”, indirizza sullo sforzo volontaristico) è, del resto, posizione confermata dal card. Jean Danielou che, come ci ricorda Nuccio d’Anna, evidenziò in un suo lavoro la conoscenza diretta e la pedissequa pratica, da parte di Clemente, delle più arcane tradizioni misteriosofiche e delle forme meno note della Gnosi ortodossa, facendo riferimento, come elemento di sfondo, soprattutto a quella fucina di popoli e di idee che è stata Alessandria d’Egitto (che è in qualche modo speculare ad Aquileia di cui si dirà) e ciò con l’ausilio di ampio apparato documentale, un apparato di tale abbondanza che ciò dovrebbe piuttosto imbarazzare i negatori della gnosi cristiana (N. D’Anna: 2022, p. 78). 

Allo stesso modo, facendo un passo in avanti nel tempo, non si può non ricordare accorge che tutta l’undicesima parte della Filocalia è costellata di espressioni che, inequivocabilmente, rimandano alla santità della gnosi. La bella antologia sul tema dal titolo I filosofi greci padri dell’esicasmo, curata da Lanfranco Rossi, un teologo che ha insegnato all’Università lateranense e da cui sarebbe possibile estrarre un cospicuo florilegio di espressioni pro-gnosi di una qualche decina di pagine, è la prova più che evidente che gnosi e cristianesimo sono categorie tutt’altro che antipodali e che la problematica della possibile convivenza della chiesa “pneumatica” con quella “psichica” deriva esclusivamente dalla pretesa della seconda di sostituirsi alla prima. Tutto ciò detto al massimo della sintesi perché non si possono tranciare così nettamente le due legittime “chiese”. Si aggiunge, per mera notizia, che la tesi prospettata da Lanfranco Rossi suggerisce lo sviluppo della Filocalia, di cui l’esicasmo è l’espressione operativa più evidente, come direttamente derivante dal preesistente mondo pagano, secondo una prospettiva di lettura “eckhartiana” della saggezza dei sapienti pagani che giunsero oltre il limite paolino del viaggio celeste al terzo cielo. Semmai si potrebbe distinguere una gnosi cristiana regolare e uno gnosticismo eretico, traendo il concetto dal titolo di un validissimo studioso dell’argomento quale è Paolo Galiano. 

E proprio il viaggio celeste dell’anima disancorata dal legame somatico che formerà l’oggetto di questo intervento, un intervento che necessita però di qualche ulteriore puntello preliminare per essere meglio compreso nei suoi  contenuti.


La chiesa delle Origini  

Il termine giudeo-cristianesimo indica le comunità dei primi cristiani, cioè gli Ebrei (e, nella sola ed unica accezione della Chiesa gerosolimitana, anche i gentili) che costituivano i nuclei originali del gruppo di seguaci del galileo, Yeshua di Nazareth (Gesù di Nazareth). Essi, in quanto giudei così come il loro maestro, rispettavano tutte le prescrizioni della Legge mosaica contenute nella Torah (circoncisione, tabù alimentari, Shabbat, preghiera e festività bibliche ecc.). Dagli altri movimenti giudaici venivano chiamati Notzrim (nazareni), in quanto seguaci di Yeshua il nazareno. Il termine viene utilizzato per indicare anche alcune sette che discendevano più o meno direttamente dalle comunità cristiane primitive: nazareni, ebioniti, elcasaiti e altri gruppi relativi a questi; essi sono citati nei frammenti dei vangeli apocrifi indicati come Vangeli giudeo-cristiani.

(da Wikipedia)

Uno dei più perspicui studiosi del cristianesimo delle origini è fuor di dubbio il citato Simone Claude Mimouni che ha dedicato molti anni di ricerca a Giacomo il Giusto, da qui il significativo titolo di uno dei suoi magistrali lavori; Jacques le Juste frere del Jesus de Nazareth. Histoire dela communauté nazoreene/cretienne de Jerusalemme du I° au IV° sec. Il riporto del pedissequo sottotitolo si è palesato particolarmente necessario dal momento che suggerisce la presenza di una speciale comunità cristiana presente a Gerusalemme la cui presenza abbraccia un arco di tempo piuttosto vasto che va dalla morte di Gesù per giungere fino al IV secolo. Ma quale era la posizione di questa comunità nei confronti di quella che poi diventerà la Chiesa di Roma o, altrimenti, Chiesa d’oltremare o grande Chiesa? Mimouni lo suggerisce in questo passaggio che, nella circostanza, si è lievemente parafrasato rispettandone evidentemente il contenuto essenziale che costituisce il vero nocciolo del tema di cui qui si tratta:

Giacomo il Giusto, fratello di Gesù, fu, dopo la morte di quest’ultimo, il CAPO della comunità nazoreana/cristiana di Gerusalemme. Ma le autorità cristiane, quelle che emergono PROCLAMANDO se stesse come la Chiesa, la Grande Chiesa, sembrano aver minimizzato la sua importanza soprattutto a causa dei suoi scontri con Paolo, cercando di sostituirle la figura più SECONDARIA di Pietro – eppure in questi tre casi, sono cristiani di origine giudea, ma che presentano orientamenti ideologici radicalmente diversi.

Simbolo della Chiesa giudeo cristiana

Accantoniamo ora il tema, dopo questa citazione riassuntiva del lavoro di Mimouni, facendone opportunamente tesoro, perché davvero in quattro righe l’autore ha praticamente già “detto tutto”, e facciamo cenno, utilizzando un altro passaggio, alla diaspora dei giudeo-cristiani di Gerusalemme che si allontanarono dalla città santa dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C., secondo linee ben definite di migrazione, accompagnate, nel caso egli Ebioniti che si rifugiarono, almeno secondo alcuni validi studiosi, a Pella, sul Giordano, preceduti da avvertimenti soprannaturali, che determinarono la scelta della loro destinazione. 

Un gruppo di essi, denominati Nazareni, in dissenso con gli Ebioniti, e in possesso di un loro proprio vangelo, giuntoci però estremamente frammentato, si ricongiunse con la famiglia di Gesù, a Nazareth in una sorta di ritorno alle origini. Questi desposynoi (i membri del “clan” di Gesù) da Nazareth erano partiti e lì ritornarono nei luoghi dove si svolse la trentennale vita nascosta di Gesù. È particolarmente interessante osservare come, proprio in questa località, sono state scoperte e infine comprese, nel loro valore cultuale e rituale, delle vestigia architettoniche che sono da supporto a un rito davvero complesso, ovvero il cosiddetto “triplice battesimo”, un rito riservato evidentemente agli adulti che è supportato da una pregressa iniziazione. 

Esso, essenzialmente, si articolava in svariati passaggi rituali secondo un certo ordine di svolgimento (battesimo di Fuoco di Acqua e di Spirito Santo), il che si traduceva in un viaggio cosmico dell’anima del catecumeno, un viaggio, quindi, compiuto per tappe e conducente dal Chenoma al Pleroma (termine “gnostico” indicante la totalità divina, usato però anche da San Paolo nella sua lettera ai Colossesi). Esso non aveva molto a che fare con il rito attuale, superandone in toto per finalità l’aspetto di “remissione dei peccati” e quindi di “battesimo di penitenza” come meglio si dettaglierà in appresso. 

Questo “viaggio “ risulterà un pattern costante in altri iniziazioni giudeo-cristiane ed esso aveva la caratteristica di poter essere iniziaticamente compiuto sia da vivi che da morti, ciò in perfetta equivalenza ai viaggi descritti dai vari “Libri dei Morti Egizi” o, possiamo dire, in similitudine al viaggio trasmutativo dantesco . Questo è quanto scrive il francescano Padre Testa, uno specialista del tema, a proposito del rito giudeo cristiano:

I riti d’iniziazione dei vivi e dei morti avevano lo scopo di facilitare il buon viaggio del mistico o del defunto dalla terra o dalla tomba alla presenza di Dio, attraverso le tre regioni cosmiche: la tomba, l’aria, e i sette cieli che si trovano nel Chenoma e nel Pleroma.

Ora, ci si può domandare: perché Nazareth è cosi importante per questo cristianesimo originario? Lo è solo per un legame affettivo con il Cristo e la sua famiglia che colà visse per altri tre secoli o per ulteriori motivi meno “sentimentali”? Certamente il legame di “sangue” che univa la comunità nazoreana ai nazareni gerosolimitani transfughi a Cristo e, quindi, al fratello di questo, ovvero Giacomo — descritto da un notevole esegeta del tema quale è L.M.A. Viola quale fratello pneumatico del Cristo e primo riconosciuto vescovo di Gerusalemme — erano fondamentali nella scelta della destinazione dopo la diaspora gerosolimitana, vista l’importanza enorme che rivestiva la “comunità”, come organismo compiuto, nel mondo ebraico.

Questo dato, tuttavia, è “superato” da due ulteriori elementi che attengono all’insegnamento che Gesù parrebbe aver riservato a questo gruppo familiare esteso e che a Nazareth (e anche a Betlemme) ha trovato il suo naturale pieno dispiegamento, quasi cartina di tornasole di una possibile iniziazione originaria cristica e poi cristiana di carattere gnostico. Per dare un fondamento solido a questa asserzione si ricorrerà, al solito, a insospettabili fonti documentali. La prima di esse proviene da uno studio proposto dal francescano padre Jean Briand che scrive, nel prezioso volumetto La chiesa primitiva nei ricordi di Nazareth, queste parole:

Tuttavia nel secondo secolo Nazaret cominciò a essere conosciuta dagli ambienti cristiani della Palestina precisamente a causa dei ricordi conservati gelosamente dalla famiglia di Gesù. Sappiamo in effetti da Giuliano l’Africano che «i parenti del Signore» vivevano ancora nel III secolo e conservavano le genealogie della famiglia.

ivi: 1993, p. 18

Successivamente il medesimo autore aggiunge:

I risultati li conosciamo bene: fu la scoperta dei luoghi tradizionali dell’Incarnazione e della Vita Nascosta del Salvatore (si riferisce ai trenta anni della «vita nascosta» del Cristo in cui questi costruisce la sua funzione messianica n.d.r.), costituti da tutto un insieme di grotte, di sili, di cisterne, vasche e pavimenti in mosaico, graffiti, iscrizioni disegni e segni simbolici. Tutto questo ci parla della vita religiosa dei giudeo cristiani e ci offre prove di un valore inestimabile sull’autenticità dei due più grandi santuari di Nazaret.

NDR: i due santuari citati e descritti sono l’attuale Basilica dell’Annunziata o Annunciazione e la Chiesa di San Giuseppe.
Mosaico del Diagramma e della Corona

La contemplazione del mosaico della chiesa nazaretana dell’Annunziata chiamato “mosaico della corona” o “mosaico del diagramma” era parte essenziale del rito battesimale originario ed esso è quindi, per tutta una serie di evidenti motivi, ben più antico di quello della chiesa bizantina successiva, pertinente la primigenia chiesa sinagogale giudeo cristiana.. Anche questo mosaico nelle sue due parti non è coevo. La parte più antica è quella contiene un doppio quadrilatero la cui ornamentazione simboleggia la dimora celeste. Nella parte inferiore della figura geometrica è iscritto un quadrilatero attraversato da diagonali. Probabilmente raffigura il paradiso terrestre con gli alberi della Scienza e della Vita che sono identificabili in due croci e i Cherubini con la spada sfolgorante sono simbolicamente rappresentati da sei segni disposti tutt’intorno come a guardia del luogo paradisiaco resosi pressoché inaccessibile dopo la Caduta. Il paradiso terrestre  quadrangolare fa però da vestibolo al regno di Dio, che è rappresentato dal contiguo mosaico ovvero quello mutilo. Nell’altra rappresentazione musiva è presente una croce circondata da tre cerchi concentrici, verosimilmente espressione pittografica della Trinità, riuniti in corona con al centro la croce cosmica (da Jean Briand, p. 43). È quindi ben netta la distinzione che separa  due tappe dell’itinerario: la prima “contemplazione/meditazione” si riferisce al re-ingresso al difeso Paradiso terrestre, la seconda al regno di Dio vero e proprio.  

Questo è uno degli esempi di ciò di cui parla in Briand nel suo scritto, ovvero la rappresentazione non figurativa ma fortemente simbolica di un apparato segnico comprensibile ai soli catecumeni.  È da notare la presenza anche in questo mosaico dei due alberi del Paradiso raffigurati per il tramite di due crocette. Per i dettagli interpretativi intorno alle figure generate dalle intersecazioni delle linee geometriche, la cui comprensione è assai ardua, si  rimanda direttamente a padre Testa (2004, p. 146) e a P. Galiano (2016, p. 234).  Riportiamo il passaggio conclusivo di Galiano a commento di questa immagine “epoptica”:

Al neofita che compiva il percorso iniziatico per entrare nella gnosi il Cristo si rivelava in tutta la sua potenza quale Stella Polare e Drago Celeste.

Appena in precedenza si è evidenziato il passaggio “vita nascosta del Salvatore” perché qui, con ogni verosimiglianza, il religioso allude a episodi extracanonici della vita di Cristo in cui però è da ritenersi che questi impartisse insegnamenti che trovavano articolazione operativa in quel sistema sotterraneo di ambienti, atti all’espletamento di riti iniziatici, come si vedrà appena più in appresso. Questi “insegnamenti” parrebbero praticamente del tutto assenti nel vangeli canonici e, purtuttavia, se ne intuisce in trasparenza la presenza mercé i suggerimenti offerti in qualche enigmatico passaggio come ad esempio la pericope di Nicodemo del Vangelo di Giovanni, dove si parla dei “nati due volte”, o l’episodio della “nudità” del Cristo sul monte Tabor durante la trasfigurazione e altro ancora.

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Per non dare l’impressione di arrampicarci suggestivamente sugli specchi su un così fondamentale argomento, si fornisce una robusta testimonianza sul tema proveniente dallo storico Eusebio di Cesarea (265-340 ca.), autore della Storia ecclesiastica, una delle più autorevoli fonti del cristianesimo antico. È questo autore che ci illumina ampiamente su tale tematica e l’importanza di questo passaggio dell’antico storico è tale che è stata ripreso dal già citato padre Emmanuele Testa, autore di una monografia di dimensioni davvero cospicue dedicata all’argomento e di importanza concorrente al suo “spessore”, che così scrive:

È dunque a questi Nazareni che appartenevano le grotte di Nazareth, di cui parla Eusebio lodando Costantino per aver glorificato con i suoi monumenti — cioè le chiese da lui erette nel IV secolo d. c. — le grotte in cui il «Cristo salvatore di tutti», come attesta la verace storia, fece l’iniziazione dei suoi discepoli ai misteri arcani.

(NDR: Altro che proclamazione sui tetti!)

Laude Cost. IX in Pl 20,137, Vita Const. III 43 in Pl 20 1102

Poi ancora scrive:

Tali riti di iniziazione a altri simili, non solo erano praticati da correnti eterodosse o da fedeli fanatici, ma erano un elemento comune a tutta la corrente giudeo cristiana, accettato anche dal clero ortodosso. Eusebio infatti loda Costantino per aver nei suoi monumenti glorificato le mistiche spelonche venerate da secoli…

Aggiunge ancora padre Testa: “Anche se tale affermazione non abbia tale vantata base storica, pure ci testimonia l’opinione dei fedeli palestinesi al tempo del suo autore...” (E. Testa: 2014, p. 116). Ciò si salda inoltre con quanto il medesimo padre Testa scrive (p. 84): “A Nazareth siamo senz’altro dinanzi a un ciclo d’iniziazione, raffigurato secondo i criteri praticati dagli ebrei cristiani, prima del trionfo dei Bizantini in Palestina”.

Quali ulteriori elementi occorrono per convincere che il Cristo stesso a Nazaret, in luoghi oggi riconoscibili in quanto finalmente archeologicamente decifrati — seppur relativamente da pochi anni, ovvero dalle scoperte di Bellarmino Begatti delle istoriate vasche battesimali — compiva questi riti d’iniziazione che poi furono proseguiti dai suoi successori in linea con l’insegnamento del Rabbi? È una conclusione da far tremare i polsi, eppure emerge con chiarezza adamantina dal combinato disposto delle fonti esegetiche citate che, è il caso di dirlo e di accentuarlo, hanno piena approvazione ecclesiastica.

A questo punto è opportuno introdurre un altro contributo e far perciò intervenire un altro autore, non certo sospettabile d’eresia, qual è Silvano Panunzio, proponendo un suo lungo passaggio, tratto dal suo libro Il Vangelo eterno, centrato sull’insegnamento del Cristo in tema di “peccato”. Panunzio offre un’informazione generale di come dovrebbe essere compreso esattamente il termine “peccato”, cui il battesimo avrebbe rimediato e di conseguenza quale potrebbe essere stato l’insegnamento pneumatico del Cristo in proposito, ricordando qui il passaggio genesiaco in cui il corpo di luce dei nostri due progenitori fu ricoperto di pelli di “animali morti” che velarono lo sguardo già compromesso della disobbedienza primordiale e fecero precipitare la creazione a livello materiale, quasi come conseguenza “quantistica” dell’incontro tra osservatore e osservato (sul tema estesamente si può vedere il nostro scritto: Il terzo occhio, organo dell’Immaginazione creatrice). Leggiamolo: 

Peccata […] è un plurale stranamente adoperato nell’uso liturgico: ma amartia è singolare. Proprio Girolamo può spingerci a tradurre e interpretare in differente modo […]. Il mio Gamaliele (Eugenio Zolli) ricordava che i testi evangelici sono stati pensati e concepiti in ebraico-aramaico, prima di essere dalla medesima penna volti e vergati in greco… In concreto, il passo relativo al Battista potrei tradurlo così: ecco Colui che ci solleva (verbo airo) dall’errore cosmico (Amarthia… significa errore di giudizio e non peccato…. non partecipare alla verità e al bene). Ma esaminiamo lo stesso Latino. Peccato viene da peccus  che significa ‘piede difettoso’ ….però il difetto non consiste nello zoppicare… bensì nello sbagliare strada nella foresta. Ora qual è il vocabolo ebraico che con abuso alla medesima potenza viene tradotto nei linguaggi neolatini con il solo e solito ‘Peccato’ come se non esistessero sinonimi più espressivi e rispondenti, giungendosi a dare un’esistenza all’inesistenza? … Il vocabolo è attà voce maschile indicante i peccatori: attaìm. Ma il verbo attà, che ne sta all’origine, non significa peccare, bensì ‘fallire’, ‘errare’. Eugenio Zolli spiegava: questo vocabolo dà l’idea di una mancanza, di un venir meno. Però non si tratta di un vuoto morale-psicologico, [bensì] molto di più… Il vero senso di attaim, è …mancanti. Qui ci si può ricordare che il Creatore (libro di Giobbe) trova macchie persino nelle Stelle, e cioè negli angeli. È chiaro che questi Spiriti sono macchiati, cioè mancanti, non per un peccato morale-psicologico, ma per deficienza di essere.

Silvano Panunzio: 2007, pp. 52-54

Questa la premessa fondamentale perché da questo inquadramento tematico si può far scaturire, quasi con naturalezza, la successiva considerazione che ci permettiamo di definire “rivoluzionaria” e atta a una comprensione diversa della dottrina cristiana nel suo aspetto più profondo:

Il Signore Gesù Cristo… ci ha liberato dall’ERRORE cosmico (amarthia tu Kosmu), ha sollevato per noi quello che gli indù chiamano ‘velo di Maya’, L’ILLUSIONE CHE CI SEPARA dall’Unità tra di noi, e di noi con il Principio Divino degli esseri. Ecco IL VERO E UNICO ‘PECCATO’, ECCO LA MANCANZA PIU’ AMPIA, PIÙ DIFFUSA, PIÙ PERSISTENTE E PIÙ GRAVE. È la mancanza della Verità…  continuare A ROTOLARSI NELL’IGNORANZA DEI MIRAGGI. Risiede qui il significato profondo del gesto della Veronica CHE ASCIUGA GLI OCCHI INSANGUINATI, OTTENEBRATI DAL PESO TERRESTRE, affinché il velo sia tolto e UNA NUOVA SUPERIORE VISTA SIA MIRACOLOSAMENTE RAGGIUNTA.

Silvano Panunzio: 2007, p. 65

Quanto asserisce Panunzio può essere associato a similari contenuti presenti diffusamente nel testo di Seyyed Hossein Nasr intitolato Conoscenza sacra. Proprio da tale suo lavoro traiamo un altro fondamentale passaggio, non dimenticando di sottolineare che lo scritto di questo autore è stato di testo all’Università cattolica del Sacro Cuore in Indiana:

Anche se la cristallizzazione del Cristianesimo occidentale nelle varie formulazioni dottrinali e teologiche tendeva a porre in risalto la caduta dell’uomo e la sua inclinazione al peccato, e a delineare un tipo di cristologia che metteva a fuoco non il ruolo di Cristo come fonte di conoscenza e di illuminazione, ma come quello di redentore dei peccati dell’uomo, l’importanza della conoscenza come mezzo per raggiungere il sacro non venne del tutto dimenticata.   

S. H. Nasr: 2021, p. 42

A questo punto ben si associano le parole di un altro notevolissimo ricercatore. Il già citato  L.M.A. Viola che, ulteriormente, contribuisce a rafforzare il ruolo di “liberatore” assunto dal Cristo che, insegnandoci a sradicare l’errore cosmico, proprio della creaturalità, e quindi a pervenire alla liberazione/divinizzazione, riassumendo così finalmente la veste di luce, offuscata dall’immersione materica, proprio per il tramite dell’insegnamento iniziatico da Lui impartito. Per questo  la gnosi cristiana può essere confrontata con altre linee tradizionali, dove il percorso di realizzazione è senz’altro diversamente declinato, ma la meta da conseguire — “il non duale” — appare essere identica:

La via puramente gnostica costituita da Pitagora Apollo non differisce essenzialmente dalla via puramente pneumatica istituita da Gesù Cristo né da quella istituita da Budda Sakyamuni, espressioni, in contesti e forme religiose diverse, del medesimo principio dell’Intelletto Eterno di Dio, del Dio considerato nella sua assoluta infinità metafisica, perciò incondizionato e sovrapersonale.

L.M.A. Viola: 2017, p. 111

Ci arrestiamo qui, anche se molto e molto altro ci sarebbe da dire, sperando d’aver tracciato, in queste poche righe, le linee essenziali del possibile primigenio insegnamento cristico di cui il depositario primo fu il fratello pneumatico del Gesù, Giacomo. D’altronde siccome sì è insistito sul tema dell’insegnamento, richiamiamo, nell’occasione, la lettera evangelica di Giacomo, dove non si parla del sacrificio sulla croce, come unico mezzo per conseguire la salvezza, ma della necessità che “la parola sia innestata” nella mente/corpo/cuore dell’adepto. A ciò, alla potenza della parola, del verbo, si dedicheranno alcune brevi considerazioni che scaturiscono proprio da quello che è considerato il più lungo periodo di insegnamento post-resurrezionale del Cristo (undici anni), ovvero il testo gnostico conosciuto con il titolo Pistis Sophia e alla sua sorprendente “traduzione” in pietra, ovvero il mosaico della Basilica di santa Maria Assunta ad Aquileia.

Il mosaico dell’abside della Chiesa di Santa Pudenziana a Roma è una meravigliosa illustrazione della  Gerusalemme cristiana, dove l’immagine della città eterna e intelligibile si innesta sull’aspetto temporale e spaziale della città, attraverso la simboleggia dai suoi principali santuari. La grande croce d’oro incastonata di pietre preziose, in piedi elevata sulla roccia del Golgota, fa da centro della composizione come vero e proprio “axis mundi” della montagna sacra e vuole richiamare la scoperta della reliquia del Legno della Croce dal 326 al 327, e l’apparizione luminosa del 351. A Santa Pudenziana si assiste quasi a una manipolazione “politica” degli eventi che condussero all’estinzione della chiesa gerosolimitana,  ovvero alla riconciliazione della vecchia chiesa di origine giudaica (con i capelli bianchi), nell’atto di incoronare l’apostolo dei gentili (Paolo), con la giovane chiesa dei gentili (con i capelli neri), nell’atto di incoronare la prima guida della chiesa di Gerusalemme (Pietro). Le due figure femminili con le corone in mano personificano dunque la Ecclesia ex circumcisione e la Ecclesia ex gentibus, secondo il commento di Gerolamo ad Ezechiele, mentre sullo sfondo si vede la città di Gerusalemme con l’Anastasis ed il complesso costantiniano da una parte e dall’altra parte la Santa Sion (la collina sud-occidentale di Gerusalemme) con annesso il portico ottagonale fatto costruire da Cirillo poi purtroppo demolito sebbene la sua struttura fosse indicatrice dell’influenza operativa del viaggio dell’anima (merkavà) della tradizione estatica giudaica.  

Ricordiamo che la Maddalena non solo è figura straordinariamente importante nel testo della Pistis ma, parimenti, la sua presenza è ben rimarcata nei Vangeli canonici dove, in Giovanni, compare come colei che per prima vede e riconosce il Gesù risorto, meritando per questo l’attributo di APOSTOLO DEGLI APOSTOLI, titolo indelebilmente inciso nella cripta della magnifica Basilica di Vezelay a lei dedicata “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata” (papa Francesco). Questo pertanto stabilisce un ordine di primazialità che, quindi, è sancito dagli stessi canonici. In una dimensione più “esoterica” (diciamo così, pur nel sostanziale abuso del termine) la Maddalena rappresentò una delle tre linee di insegnamento pneumatico extragerosolimitano che annovera con lei tra gli iniziatori l’altro Giacomo, ovvero il Maggiore (il fratello di Giovanni) evangelizzatore in Spagna e di cui si ricorda il celebre itinerario “stellare” che conduce a Santiago de Compostela e Giuseppe d’Arimatea che diffuse un ulteriore linea di cristianesimo “esoterico” nelle albioniche terre, un personaggio che concorse a formare l’humus da cui su svilupperà la celeberrima ierostoria del Graal.  


Qualche riflessione comparativa sul mosaico “gnostico” di Aquileia 

La potenza che è scaturita dal Salvatore e che è adesso l’uomo di luce all’interno di noi… Mio Signore! Non soltanto l’uomo di luce in me ha orecchie, ma la mia anima ha inteso e compreso tutte le parole che tu hai pronunciato… L’uomo di Luce in me mi ha guidata; egli si è rallegrato e palpita in me come se desiderasse uscire da me e passare in te.

Pistis Sophia: Nuovo Testamento dell’uomo di luce

Dopo la necessaria introduzione al tema, avendo sempre ben in mente che il giudeo cristianesimo è espressione della Chiesa madre di Gerusalemme e quindi di Giacomo, suo primo riconosciuto vescovo, cui sono seguiti a breve distanza di tempo uno dall’altro, altri quattordici vescovi circoncisi, in questa sezione affrontiamo la disamina una preziosissima testimonianza  archeologica inerente la possibile ortoprassi di questo cristianesimo delle origini, che morì (anzi si occultò) per insabbiamento dottrinale e non certo di morte naturale, stretto, come così è stato, tra le pinze potenti del nascente cristianesimo universalista e l’opposizione ferrea del giudaismo ortodosso. Questo “primo cristianesimo”, come detto, fu istituito prima delle terribili ore che portarono alla Passione e alla morte di Cristo, secondo la dotta opinione di Simone Claude Mimouni, le cui chiare convinzioni sul tema si è già avuto modo di citare nelle prime pagine di questo intervento.

Ci si appoggia ancora una volta a una fonte confessionale per presentare le argomentazioni. Stavolta è padre Bargil Pixner a parlare. Egli è il più convinto sostenitore della tesi  alla che la radice del cristianesimo giacobita sia essena, perché il Cenacolo al Sion, dove il Cristo aveva la sua stanza, era nel quartiere esseno di Gerusalemme, e per questo scrive, congiuntamente a una sua collega, l’archeologa Elizabeth McNamer, queste parole:

Nel passaggio dal IV a V secoli pochi nazorei rimasti sul Monte Sion furono gradualmente integrati nella chiesa imperiale ortodossa. È da rimpiangere che il ramo ebraico del cristianesimo sia scomparso. Schiacciati tra l’incudine del giudaismo rabbinico e il martello della cristianità bizantina, i nazorei non ebbero mai la possibilità di sopravvivere benché, secondo il pellegrino di Piacenza ci fossero giudeo cristiani a Nazareth quando egli la visitò nel 570.

E.McNarner, B. Pixner: 2011, p. 141

Anche Henry Corbin è perfettamente consapevole dello “strangolamento” subito dalla chiesa di Gerusalemme e, per vie proprie, arriva alle medesime conclusioni dei due autori precedentemente citati confermando che per la riuscita dell’operazione vi fu una vera e propria “sostituzione etnica”, conseguente all’innesto di vescovi estranei al milieu giudeo-cristiano alla santa Sion di Gerusalemme e così ne scrive:

Ma intanto un altro cristianesimo comincia a conquistare il mondo, un cristianesimo ben lontano dalla dottrina e dalla gnosi professate dalla prima comunità apostolica di Gerusalemme fondata da coloro che furono i compagni del Cristo; così lontano che questa dottrina fu descritta e considerata dai Padri della Chiesa come una «abominevole eresia».

H. Corbin:1983, p. 230

Ma proprio a proposito di questa “abominevole eresia” e delle sue espressioni simboliche, proprie del linguaggio della sua prassi operativa, che si fonda su cinque pilastri che qui ci si limita ad elencare: nomina sacra, sigilli, lingua mistica, numeri sacri, mysterium absiconditum, che padre Emmanuele Testa scrive queste significative parole: 

La teologia cristiana dal primo al quarto secolo, amò manifestare la propria fede, più che con formule teologiche e metafisiche (come farà invece la greco-latina) con un sistema simbolico di segni, quasi proiezione della fede creduta. Tale sistema suscitò nel cuore dei fedeli una tendenza pronunziata a una gnosi più profonda, a un amore sentito del mistero.

Ora queste peculiarità operative che conducono a una rivelazione ultima che unifica CONOSCENTE, CONOSCIUTO E ATTO DI CONOSCERE, hanno trovato espressione compiuta ad esempio negli impianti battesimali di Nazareth dove opere musive, a carattere fortemente astratto e, ci si permette ragionevolmente di dire, “mandalico”, accompagnavano i catecumeni nel loro percorso di conoscenza fino, “dantescamente”, condurli a INDIARSI in vita. 

Allo stesso modo, per fare un accostamento significativo, il prodigioso mosaico palestinese del piccolo misconosciuto romitorio di Beth ha Shitta, risulta essere un compendio angelologico di eccezionale importanza che riassume, in un unico manufatto e quindi in un unico itinerario, tutte le stazioni del viaggio cosmico che compie l’estatico nelle regioni ultraterrene che sono descritti nei testi in circolazione all’epoca (Ascensione di Isaia, ad esempio). Principalmente tale mosaico, distinto in settanta caselle di cui quarantanove relative ai cieli planetari e 21 all’ogdoade, costituisce la traduzione musiva della straordinaria esplorazione celeste descritta nel libro di Enoc, il patriarca mai morto e trasfigurato presente nel canone della chiesa Etiope e menzionato nella lettera di Giuda, come fonte autorevole. È solo un breve cenno, consentito dalla circostanza, perché del mosaico palestinese si avrà occasione di parlare altrove.

Pianta della Basilica di Santa Maria Assunta a Aquileia 

Avendo alle spalle questi consolidati contributi operativi (Le grotte di Nazaret e l’allena accennato mosaico di Bet ha-Shitta) costituiti da itinerari che “mostrano” ai soli adepti, provvisti delle chiavi ermeneutiche necessarie alla comprensione, il tracciato dell’anima a Dio, compiuto attraverso un percorso “gnostico”, si rivolge ora l’attenzione a un’opera di assoluta singolarità che si evidenzia nel fatto che essa è ubicata all’interno di una Basilica ed è lì, perché lì è nata ed è in funzione di questo edificio che il maestoso lavoro è stato accuratamente “progettato”. Si tratta della Basilica di Santa Maria Assunta ad Aquileia di cui il mosaico pavimentale presente è, ad essa, praticamente coevo. 

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In considerazione della sua estensione, una superficie di ben 760 m², e della sua vetustà, il manufatto  consegue un doppio primato. Esso è infatti il più antico mosaico occidentale cristiano e, soprattutto, è, dimensionalmente, il più grande, da qui la sua notevolissima importanza. Un’opera di tale imponenza — e conseguente costo — non è certo immaginabile che sia stata progettata per una località defilata e secondaria e, infatti, Aquileia, all’epoca  era al suo massimo splendore, essendo un porto tra i più importanti nell’intero Mediterraneo, una sorta di Alessandria adriatica, città con cui vanta numerose similitudini è centro di massima importanza culturale, ovvero religiosa. 

Le raffigurazioni principali del pavimento sono ripartite in quattro campate, partendo dall’entrata; qui non ci addentreremo certamente nel loro esame complessivo rimandando, ovviamente, alle varie fonti che ne danno una descrizione completa. Per quanto riguarda questa speciale sezione “gnostica”, invece fa da guida uno dei testi sul tema proposto dal ricercatore Renato Iacumin, studioso purtroppo prematuramente scomparso, dal titolo Le porte della salvezza. Gnosticismo alessandrino e grande Chiesa nei mosaici delle prime comunità cristiane. Si tratta di un’opera densissima, ben illustrata, che raccoglie il frutto di tanti anni di studio appassionato del competente autore. 

Egli, osservando prolungatamente quest’opera per decenni fin quasi ad imbibirsene, giunse a una scoperta davvero notevole, una scoperta premiata dall’apprezzamento di Luigi Morandi, noto specialista di gnosi e gnosticismo, di cui tra poco si andrà a parlare. Un merito particolarmente notevole non solo in sé, ma anche perché il manufatto, pur conservandosi complessivamente in buono stato, ha sopportato alcuni pesanti interventi alteranti praticati nel corso dei secoli di cui si andrà adesso a fare un cenno, come si dice “a volo d’uccello” che ne hanno compromesso fortemente la leggibilità (e difatti nessuno prima dello Iacumin sembra che sia stato in grado di leggerlo).  

La “censura” ha “giustamente” colpito una delle immagini più esplicite del percorso gnostico descritto ad Aquileia trasformando il drago celeste in un insignificante capretto. Il drago nella circostanza fungerebbe da guardiano della soglia precludendo ai non qualificati l’ingresso al Pleroma. Si ricorda che, secondo una certa linea interpretativa il limite del cristianesimo devozionale è costituito dall’Ogdoade, posta oltre il Settenario, mentre lo gnostico ascende oltre essa fino al Pleroma:

Gli Ilici, troppo soggetti alle passioni, non avrebbero possibilità di salvarsi, perché legati e sottomessi alla sfera sublunare degli elementi, Gli psichici avrebbero accesso a una «gnosi inferiore», e realizzerebbero il compimento del loro stato attraverso la fede e le opere ma non possono andare oltre la scala dei cieli, l’ogdoade, la quale costituisce la soglia del Pleroma divino… Ai pneumatici, invece, il possesso della gnosi ontologica offre la facoltà di reintegrarsi già in questa vita con il Pleroma divino.

cfr. ampiamente sul tema L.M.A. Viola: 2018, p. 162 e ancora Renato Iacumin: p. 210

Le modificazioni subite sono dovute a molteplici fattori. Ristrutturazioni secolari della Basilica determinate da mutate esigenze ecclesiastiche nonché mutamenti liturgici, in conseguenza dei quali si operarono improvvidi stravolgimenti architettonici compromettendo la sistemazione pavimentale (come è avvenuto per i labirinti di alcune cattedrali francesi) hanno congiuntamente concorso a modificare il preesistente. Tuttavia le più gravi menomazioni al coerente tessuto narrativo pavimentale sono conseguenza delle volontarie deformazioni di alcune rappresentazioni, modificazioni volte allo scopo di occultarne la simbologia divenuta evidentemente imbarazzante, almeno da una certa epoca in poi ossia una volta ostilmente mutato il vento della teologia. Si è trattato di un processo di annichilimento del ruolo simbolico delle immagini operato attraverso una vera e propria falsificazione, compiuta per mezzo di una parziale “riscrittura” degli stessi mosaici. Ciò è stato eseguito sostituendo parzialmente le tessere musive e ciò accadde nel momento in cui le immagini furono giudicate oramai troppo compromettenti per non ricorrere a un loro indispensabile e parodistico “aggiustamento”.

Era difatti necessario rettificarle l’impianto per uniformarlo al credo post niceano della Chiesa che, difatti, solo per fare un esempio “familiare”, visto che se ne è parlato in precedenza, ha dottrinalmente e quindi liturgicamente cancellato, quel triplice battesimo nazaretano, di cui prima si è accennato, che costituiva un articolato rito d’iniziazione, sostituendolo con un rito di ben diverso spessore, come ben mostra l’impiego della formula conciliare: professo un solo battesimo per la remissione dei peccati

Si è già visto in precedenza come, secondo l’interpretazione panunziana, vada possibilmente collocato il concetto di “peccato” secondo l’ottica gesuana che questo autore crede sia corretto indicare come originaria. Il peccato, ribadiamo, è prioritariamente un difetto di “percezione” (ricordiamo la maya estremo-orientale e il mito platonico della caverna come esempi accostabili a quanto si va esponendo), difetto o errore da cui tutto discende a cascata (una posizione quasi giansenista e, comunque, “enochiana”), in sintesi il peccato è un effetto conseguente all’ignoranza (metafisica) rimuovendo questa il peccato, quale epifenomeno dell’errata percezione della realtà, svanisce. 

Questa “restrizione” rituale richiama, oltre le parole di H. Corbin precedentemente menzionate, anche la decisa presa di posizione di Rudolph Steiner di fronte alle dogmatizzazioni dottrinali che sono scaturite dal predetto Concilio, nonché da quello successivo di Costantinopoli. Per Steiner tali determinazioni sposarono una linea dottrinale a carattere fortemente catabasico e questo ricercatore, che aveva fatto della disciplina spirituale pressoché una scienza esatta, attribuì a quei turbinosi eventi di allora la non lieve responsabilità della decadenza spirituale dell’Occidente. 

Attraverso le determinazioni allora assunte sulla metempsicosi (reincarnazione, secondo Steiner?), che, comunque, era ed è presente nella dottrina ebraica e, soprattutto, in conseguenza dell’annullamento della tripartizione soma-psiche-nous, o altrimenti, corpo anima e animo, è stata cassata, nella sua precisa autonomia, la distinzione spirito e anima che si sono quasi fuse in un’unica entità, in cui il terzo elemento dell’antica triade è solo un aspetto della seconda. Da ciò evidentemente discende che, dopo questa ablazione, si sarebbe reso impraticabile ogni possibile percorso gnostico che fonda, necessariamente, la propria operatività su tale tripartizione antropica, e sulla conseguente prigionia dell’elemento pneumatico che tende alla liberazione e aspira “nostalgicamente” a ritornare al Pleroma da cui sente di provenire, come magnificamente è espresso nel celebre e bellissimo testo gnostico conosciuto con il titolo Canto della perla.

Come si accennava già in precedenza nel corso di un convegno, tenutosi a Aquileia in anni relativamente recenti, il citato Luigi Moraldi, traduttore della Pistis Sophia, ebbe modo di incontrare il predetto Renato Iacumin che da parecchi anni, fin da bambino praticamente — dal momento che accompagnava il genitore che faceva da guida all’interno dell’edificio ecclesiale — conduceva ricerche sulla Basilica e, nello specifico, sul suo immenso tappeto musivo, cercando le chiavi esegetiche per interpretare correttamente il senso dell’iconografia presente al suolo, avendo sentore che le riproduzione musive potessero concordare con un qualche itinerario riscontrabile nei testi. 

La vastissima rappresentazione oggetto delle sue attenzioni suggeriva senz’altro la possibilità che l’aula nord della Basilica, descrivesse verosimilmente una psicanodia gnostica (viaggio dell’anima) ma di essa non si riusciva a individuare una fonte testuale d’appoggio che rendesse possibile tale confronto. Nel suo sforzo di comprensione il ricercatore si era provato ad accostare queste rappresentazioni con le descrizioni presenti in disparate fonti letterarie (per esempio i cieli dei misteri di Mitra) ma ognuna di queste fonti colloca diversamente la gerarchia dei mondi planetari, per conseguenza nell’articolato catalogo che Iacumin aveva a disposizione, nessuna delle uranografie consultate sembrava calzare, senza forzature, alla circostanza e questo non permetteva di riconnettere ad alcunché di noto l’ordine astronomico descritto nella rappresentazione a terra.

Iacumin, alla fine ebbe una felice intuizione, accompagnandola da indispensabili accurate verifiche e gli sembrò che l’unico itinerario compatibile fosse quello descritto nella Pistis Sophia. Per questo ne approfondì la conoscenza confrontando i suoi passaggi con le immagini del mosaico e con l’ordine nel quale i quadri musivi erano stati apposti al suolo, che si supponeva che l’adepto dovesse percorrere, non solo mentalmente, ma fisicamente, ribadiamo: qui si è di fronte a una ortoprassi misterica e non a vane “decorazioni”. Questo itinerario pavimentale, attraversando diversi ambienti, trovava riverbero e corrispondenza nella precisa mappa interiore attuando operativamente e compiutamente la relazione microcosmo-macrocosmo. Questo procedere iniziatico può somigliare a quello proprio dei grandi pellegrinaggi universali in cui, mischiati alla onesta devozione dei partecipanti, dei contemplativi di grado elevato ripercorrevano le tracce d’una dimensione spirituale dimenticata ma non perduta. Scrive in questo passaggio Nuccio d’Anna, proprio in riferimento all’ambiente spirituale del pellegrinaggio medioevale:

Questi enigmatici peregrini seguivano un percorso geografico ben preciso che aveva il corrispettivo in alcune adattazioni liturgiche dei simboli aritmosofici, nella posizione degli astri e persino nei movimenti ciclici di alcuni corpi celesti.

Nuccio d’Anna: 2022, p. 23

Uno dei tanti indizi del carattere celeste del percorso è dato da questa immagine, relativa al tema delle porte celesti. La porta solstiziale del Cancro è raffigurata dall’astice. La torpedine il cui veleno è paralizzante sottolinea ulteriormente il carattere solstiziale della rappresentazione.  Il solstizio è il momento in cui la porta del cielo è aperta, l’attimo atemporale “cairologico” in cui  cielo e terra comunicano come “in illo tempore”. Come ben si vede, e come meglio si vedrà appresso con maggior dettaglio, ci si muove secondo coordinate interpretative ubiquitarie in tema di porte celesti facenti riferimento allo pattern.

Il grande percorso iniziatico alchemico-astrosophico (secondo il neologismo impiegato  da Willi Sucher) che relazione microcosmo e macrocosmo così com’è descritto nelle celebri tavole dell’opera Theosophia Practica di J. George Gicthel,  in cui si mostra il passaggio dall’uomo “tenebroso” all’uomo “luminoso” ovvero dal Chenoma al Pleroma come processo che avviene all’interno di se stessi utilizzando le proprie “miniere interiori”. Comunque, al di là di questa digressione, al termine del suo studio per Iacumin giunse il desiderato risultato e, con esso, la sorpresa, sorpresa  che il ricercatore nel suo libro espone con queste parole:

La sequenza dei cinque piani sovrapposti è, infatti, la sequenza dei cinque cieli planetari nell’ordine esatto con cui ci vengono presentati in un antico codice gnostico intitolato Pistis Sophia. Questa perfetta corrispondenza è un elemento fondamentale per la «lettura» dei mosaici. Il fatto che la sequenza dei cieli planetari presente sul mosaico di quest’aula sia proprio quella del testo citato ci consente di entrare in un universo sconosciuto.

R. Iacumin: 2006, p. 33

Tale scoperta assume un doppio significato in quanto è estremamente rilevante che un itinerario celeste, gnosticamente caratterizzato, che presupponeva la disincarnazione dell’anima in vita, fosse solidalmente incardinato all’interno di una Basilica cattolica e, in secondo luogo, che proprio in questo luogo ci si ispirasse a un testo, praticamente un unicum, in cui si descrive come l’insegnamento riservato, cui il predetto itinerario musivo era conseguenza, fosse stato consegnato, in maniera inaudita, dal Cristo a una “donna” che è stata direttamente e preferenzialmente accompagnata dal Cristo alla comprensione della nascita interiore dell’Uomo di luce, e che, come detto in precedenza, “mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”. 

Tra l’altro annotiamo — a mo’ d’inciso, magari un inciso di spessore meramente suggestivo ma certamente efficace a stabilire una possibile catena di trasmissione “nascosta” — il seguente interessante collegamento. Era convinzione della corrente gnostica dei Naasseni il fatto che Giacomo avesse istruito alla Gnosi la stessa Maria di Magdala; il fratello di Gesù assume il ruolo di “figura interposta”, essendo egli il consegnatario diretto della gnosi cristica integrale. Ciò quindi non diminuisce affatto il significato dell’apostolato primaziale della Maddalena, così come prospettato dalla Pistis. Per conseguenza questa relazione stabilisce un filo di possibile continuità (vero o immaginario che sia) tra gli insegnamenti di Giacomo e il mosaico di Aquileia per la mediazione di Maria di Magdala.

Le immagini, quindi, traducevano pressoché calligraficamente i contenuti del testo e mostravano, congiuntamente, l“imbarazzante” presenza di una cultualità, affine al giudeo-cristianesimo, perché in questa categoria è rubricato oggettivamente il mosaico, la cui impostazione è però, verosimilmente “eretica”, in quanto accentuatamente gnostica. Una forma di gnosi che, si potrebbe definire teorico-pratica, una ortoprassi appunto mantenutasi, apertis verbis, per lungo tempo in questa città dell’alto Adriatico, che costituiva, per la diversità dei saperi in essa ospitati, una sorta di corrispettivo speculare della cosmopolita Alessandria nel Mediterraneo.

Guglielmo Cocco, uno specialista del tema, nel suo articolo Eco giudaiche e giudeo cristiane nella teologia liturgia e architettura della Chiesa di AQUILEIA, evidenzia parimenti come questo edificio religioso costituisca davvero un unicum nella storia della Chiesa in Occidente, in quanto, se le chiese orientali, in particolare quelle asiane e siriache, conservavano tracce di un influsso giudeo-cristiano e in Occidente la stessa Chiesa di Roma dei primi secoli può rientrare in questo alveo, solo ad Aquileia l’influsso giudeocristiano, secondo gli ultimi studi multidisciplinari richiamati dal Cocco, ha potuto incidere così intensamente nella religiosità della regione. La profondità di questa penetrazione si dispiega parimenti nel tempo e nello spazio, essa quindi sui rivela  sia nella visione teologica, che si ricava dalle opere dei Padri (Rufino, Cromazio, ma anche Vittorino di Petovio ed Erma), sia nella peculiare liturgia descritta dagli stessi, e, infine, come risultato, nell’iconografia dei mosaici delle aule paleocristiane e nella loro architettura, che, con tale teologia e prassi liturgica, si sposano in modo completo e sofisticato. 

Non per nulla, come anticipato, la “grande Chiesa” intervenne solo successivamente sull’opera, con una manipolazione tanto pesante quanto maldestra mutando quelle composizioni che, da un certo momento in poi, risultarono sgradite, sostituendo goffamente con altre tessere quelle precedenti, al fine di nascondere questo recentissimo “passato” divenuto progressivamente “eretico”. Come si diceva la sofferta conclusione dello Iacumin è stata pienamente avallata dal traduttore della Pistis, Luigi Moraldi, che addirittura adottò nella copertina della suo testo dedicato a questo scritto gnostico, un’immagine del mosaico aquileiense sancendo così  appieno la validità dell’interpretazione dello studioso locale. 

Copertina del libro di Luigi Moraldi dedicato allo studio della Pistis Sophia con la riproduzione di un’immagine del mosaico di Aquileia. Nello specifico è il tema dei due uccelli sull’albero che viene qui riprodotto. Come si nota uno di essi compie l’azione e mangia mentre l’altro, guarda. Si tratta di un tema questo piuttosto trasversale ben presente  nelle Upanishad e non per nulla i due uccelli rappresentati sono autoctoni di altri lidi, come la colomba trenonina, altrove raffigurata, che sembra un rapace e che è un altro elemento di questo bizzarro bestiario gnostico.  Per inciso l’albero suggerisce una doppia valenza: per chi gusta i frutti dell’azione che da esso pendono è “albero della morte”, mentre per chi osserva e contempla senza partecipare, ovvero l’altro uccello, ovvero il Sè, esso è “albero della vita”. 

Per conseguenza è fuor di dubbio che questo documento aquileiense sia della massima importanza sotto diversi profili e, per quanto riguarda questo scritto, lo è dal momento che   mostra l’elevata diffusione del giudeo-cristianesimo nell’Impero e, per conseguenza,  l’impiego che si faceva di “riti paralleli” all’interno della Basilica dove, per noi eteroclitamente, venivano letti testi di varia estrazione. Su ciò insiste ripetutamente lo Iacumin, come a dire che se non ci si impadronisce del milieu d’allora tutto resterà oscuro e congetturale. Queste le sue parole: Resta il fatto che per poter «leggere» questo mosaico occorre conoscere i testi che i cristiani di allora leggevano in queste aule”.  Tra di essi ricordiamo il provato impiego liturgico di almeno due opere non canoniche comunque definite ecclesiastiche, ossia il Vangelo di Pietro e il Pastore di Erma.

Proprio del Pastore di Erma Iacumin evidenzia specificatamente il carattere angelofanico con cui è presentata la figura del Salvatore, ribadendo, quindi, una ben possibile connessione originaria con il giudeo cristianesimo ebionita, anch’esso comunque di derivazione fortemente giacobita, che leggeva, in questa modalità, la figura cristica e alla luce di questa lettura interpretava e viveva la sua conseguente soteriologia. Parimenti significativa, risulta la compresenza nello stesso contesto liturgico del predetto Pastore, testo comunque “ortodosso” ed “ecclesiastico”, associato alla Pistis Sophia (testo indubitabilmente gnostico). Una compresenza “senza conflitto d’interessi”, com’era del resto all’origine quando Ebioniti e Nazareni si “tolleravano” reciprocamente, come ben mostra questo brano:

Gli Ebioniti e i Nazorei dissentivano circa l’idea della natura del Cristo, ma vivevano fianco a fianco. C’era spazio per la flessibilità delle opinioni nella chiesa primitiva e questa situazione fu definita per la prima volta.

Elisabeth Mc Narmer e Bargil Pixner, Gesù e il cristianesimo, p. 10

Sembra di poter affermare che, fino a un certo punto, questa reciproca “tolleranza” vigesse parimenti in questa località dell’alto Adriatico. Il predetto mosaico sembra quindi poter validamente suggerire l’esistenza di un ulteriore importante indizio in relazione alla possibilità dell’esistenza di un ipotetico ponte tra l’essenismo e la forma di gnosi descritta nella Pistis Sophia. Che l’essenismo possa essere considerata una forma gnosi lo hanno sostenuto e lo sostengono vivacemente molti ricercatori di ambito ortodosso, vedendo in esso addirittura un’eresia giudaica tout court. Aquileia, di par suo, ci rivela la consistenza di indizi d’ordine archeologico che sommariamente mostrano la presenza di una certa intimità d’ordine operativo tra due sistemi, apparentemente non contigui, ricordando però che il Pastore di Erma è stato accreditato come possibile prodotto d’un esseno convertitosi al cristianesimo della Chiesa Madre. 

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Non vorremmo infittire questa relazione di troppi spunti, che corrono il rischio di rimanere soffocati nella brevità d’una esposizione evidentemente preliminare e, quindi, giocoforza sommaria, intorno a temi di colossale importanza meritevoli di ben altra estensione espositiva, tuttavia non ci sottraiamo a questa tentazione, rischiando magari di tediare chi legge, ricordando che il filone gesuano-esseno si è rinvigorito recentemente di nuovi interessantissimi contributi. Padre Mario Canciani ha condensando i risultati delle sue ricerche in un suo scritto, specificamente dedicato al tema del pasto eucaristico al Cenacolo del Sion, che reca il significativo titolo L’ultima cena degli Esseni. Questi scrive:

In seguito a ciò, si ebbe sul Sion, l’elezione del primo vescovo cristiano di origine non ebrea (la sostituzione “etnica” di cui si è parlato in precedenza ndr). Cominciò allora a sbilanciarsi l’equilibrio tra la Chiesa dei Giudeo Cristiani circoncisi e i Cristiani di origine greca, che si accentuerà poi con la venuta dei Bizantini. È più facile allora pensare come sia finita, come un ramo secco, la Chiesa Giudeo Cristiana che rappresentò sino al quarto secolo una spina nel fianco della Chiesa che aveva invece progetti universalistici.

M. Canciani: 1995, p. 47

Questa spina doveva essere ben fastidiosa se un terziario domenicano come Paolo Virio, noto esponente di quel filone che si può etichettare come “esoterismo cristiano” e che, tra l’altro, è stato indefesso sostenitore dell’essenicità del Cristo, ha potuto scrivere:

È noto che questi occulti iniziati cristiani furono costretti per secoli e secoli a dissimulare le loro conoscenze esoteriche ed a negare l’appartenenza iniziatica, se interrogati in proposito, non solo per non turbare le masse ignoranti e fanatiche dei popoli occidentali, ma anche e soprattutto per sfuggire alle repressioni ecclesiastico-secolari del papato, divenuto, fin dalla decadenza di Roma, del tutto esteriorizzato e implacabile nell’escludere e combattere dottrine della religione cristiana diverse dalla propria, geloso della sua organizzazione centralizzata e DISPOTICA.

Paolo M. Virio: 2018, p. 138

La tesi di Padre Canciani, che sostanzialmente riprende quella pregressa di Padre Pixner con cui questo autore è stato in sodale amicizia e che è stato pressoché lo scopritore del quartiere esseno a Gerusalemme, di cui la Santa Sion è parte, è che l’ultima Cena Pasquale del Cristo sia stata una cena essena (quindi vegetariana). Questo fa sì che un’altra impeccabile studiosa del tema, ovvero Vittoria Laura Guidetti, abbia inclinato a definire questo primigenio giudeo cristianesimo con un nuova indicazione, ossia esseno-cristianesimo, sulla scorta dei suoi studi ultradecennali su Giacomo (il fratello di Gesù), l’uomo che, verosimilmente, è stato ritratto nel Vangeli come il “portatore di brocca” (un segno evidente di “essenicità”) che, interrogato dal Cristo gli indicava la stanza assegnatagli al Cenacolo per i riti di Pasqua come sua stanza. 

In conseguenza di ciò possiamo comprendere perché il mosaico riveli una così  sorprendente e cospicua presenza di documentazione di espressioni giudeo-cristiane (o esseno cristiana) documentate dalla presenza di elementi tipici della sinagoga, quali la cospicua insistenza  della rappresentazione del nodo di Salomone, unito ad altri suggerimenti architettonici di simile derivazione, che sembrano pienamente validare tale supposizione.

In realtà il nodo di Salomone, come il cosiddetto “fiore della vita”, è un simbolo da considerarsi universale e affatto precipuo dell’ebraismo in quanto esso è diffusamente presente anche in altri contesti. In ogni caso in questo luogo e, precisamente nelle aule teodoriane della Basilica di Aquileia, la sua presenza è ben massiccia e, di certo, non “esteticamente” casuale in quanto ci si trova in presenza della bellezza di oltre 260 nodi istoriati, alcuni di grandi dimensione, spesso posti in corrispondenza delle figure di maggior rilievo. Il nodo di Salomone è solitamente formato da anelli – schiacciati, ogivali o d’altra forma – incatenati fra loro, in maniera simmetrica, così da richiamare sia la croce che il cerchio. Il segno allude quindi all’intreccio come legame, ma, congiuntamente, anche all’infinito. È noto, anzi, per meglio dire, proverbiale, che Salomone, figlio di Davide, sia considerato il più saggio dei re di Israele, colui che aveva ricevuto da Dio la capacità di distinguere il bene dal male, ma egli è, sopratutto e ante omnia, considerato l’edificatore del Tempio, dell’unico Tempio, che permetterebbe l’unione tra il divino e l’umano sulla terra.

Questi simboli “palestinesi” si sono vivificati qui in Aquileia in quanto sono stati inseriti, non certo decorativamente, all’interno di un percorso iniziatico indiscutibilmente trasmutativo, che procede per tappe in progressione (di ottava in ottava, direbbe Corbin) ed è quindi legittimo immaginare che, quanto meno, in questo ambito cosmopolita sia avvenuta la sincrasia di diversi orientamenti speculativi e pratici. 

Ora, indicate le possibili ascendenze “filosofiche” dell’opera, sarà il caso di esaminare, certo solo sinteticamente, il carattere itinerante decritto dalla struttura mostrando solo qualche passaggio essenziale del lungo iter animico che non è assolutamente possibile descrittivamente comprimere oltre il consentibile.

Il complesso itinerario è necessariamente scandito in diverse sezioni che si distinguono nettamente tra loro, l’ultima, quella che segue l’Ogdoade, è denominata, appunto, Pleroma e, del suo carattere di dimora ultraterrena elettivamente riservata agli pneumatici, si è già detto in precedenza. A proposito di ciò non ci esimiamo dal notare che l’identificazione dell’Ogdoade, con la Kyriaké, rimanda al segno presente nell’Ariete zodiacale rappresentato ad Aquileia, così come è descritto dallo Iacumin, in un’annotazione della massima importanza: “Sopra la figura dell’Ariete probabilmente c’era l’iscrizione CYRIACOL oppure CYRIACòN […]. Stava a indicare il punto in cui gli gnostici sarebbero stati glorificati, unici loro rispetto alla restante umanità ilica o psichica” (R. Iacumin: 2006, p. 87). La cosa evidentemente è propria della gnosi ma suscita meraviglia in queste circostanze dal momento che troviamo questa pressoché esplicita dichiarazione all’interno di una Basilica cattolica. 

L’aula, nella sua parte più antica (III° e IV° campata), aveva per pavimento la descrizione delle tre parti del cosmo gnostico: il Kerasmos (i cieli planetari), lo Stereoma, le costellazioni, il Pleroma (la pienezza di Dio). Questo dispiegamento descrittivo stabiliva un percorso attraverso le diverse “zone” sapientemente interrotte tra loro da “veli”. Essi segnano dei veri e propri punti critici, ovvero “trappole arcontiche” nelle quali l’anima poteva essere catturata, come nelle “dogane” descritte nella Teolonia della Chiesa Ortodossa e che identicamente riguardano al percorso iniziatico e/o postmortale dell’anima, solo che, diversamente dalla Teolonia, come del resto nel viaggio descritto nel libro di Enoc, parrebbe che nella circostanza non sia previsto l’intervento di angeli soccorrevoli che si possano battere con e per il viator e, quindi, per la salvezza della sua anima.

L’anima, nella circostanza, doveva provvedere da sola alla sua incolumità, magari perché si era già provvista alla partenza di un congruo apparato di “strumenti” idoneo a farle superare i perigli dell’incerto percorso. Qui, come nell’ascesa ai palazzi celesti descritti nella letteratura hekhalothica della mistica ebraica, l’aspetto volontaristico assumeva una decisiva pregnanza e il superamento della varie stazioni determinava il successo dell’impresa e quindi l’incontro del solo con il Solo. Diversamente, nel giudeo cristianesimo “ortodosso”, l’anima era accompagnata da Michele – waw, oppure, in Occidente, da Pietro clavigero fino alla soglia del “Mistero”. 

La riuscita del drammatico passaggio, che comportava un vero e proprio “rovesciamento percettivo”, in quanto, in modalità entasica secondo il neologismo eliadiano, il “contenente” diventava il “contenuto”, era, conseguentemente, determinata dalla sola “conoscenza” che il praticante aveva ottenuto per mezzo degli insegnamenti operativi ricevuti, congiuntamente ad altri ausili “magici” in suo possesso, ritenuti indispensabili per compiere vittoriosamente il suo “viaggio”, una caratteristica questa più volte rimarcata in relazione al giudeo-cristianesimo d’impronta essena, come, infatti, esseno, ormai quasi senza alcun dubbio, sembra essere stato Giacomo, secondo gli studi già citati di Bargil Pixner e Vittoria Luisa Guidetti  e di molti altri.

Per la specificità rivestita vorremmo solo sottolineare che tra questi ausili magici, che naturalmente avrebbero bisogno di una esplicazione di ben più vasta portata, c’era ordinariamente la necessità di tatuare il corpo con varie incisioni, ovvero lettere ebraiche, sigilli, croci e quant’altro. Queste operazioni possono accostarsi a ciò che Silvano Panunzio descrive, ricollegandosi probabilmente a Marco lo Gnostico o al Profeta dell’Islam, con la locuzione “incarnazione grammatica”. Queste “segnature” infatti non rappresentano atti di stoicismo o di ascesi fine a se stessa, piuttosto esse sono destinate a produrre efficaci effetti trasmutativi sull’anima in virtù, lo si ripete ancora, della efficacia operativa prodotta sull’anima stessa e, come detto, tali accorgimenti (diffusissimi nel cristianesimo celtico) appaiono come armi essenziali per sostenere i combattimenti sul piano sottile della manifestazione.  

Iacumin individua il deposito di queste istruzioni (ad esempio quelle che servivano a utilizzare il favore dell’opposizione planetaria tra Giove e Venere, uno dei punti cruciali del percorso), atte a scampare alle ghigliottine planetarie, mettendo in pratica le formule e i rituali meticolosamente riportati in due altri testi gnostici, ossia Jeu 1 e in Jeu 2 (Gnosi del dio invisibile),facenti parte del codice Bruce (Codex Brucianus) ed i testi sono simili a quelli contenuti nel Codex Askevianus (quello della Pistis Sophia), il che induce ormai a concludere, senza alcun ulteriore tentennamento, che ad Aquileia fosse in uso un vero e proprio canone gnostico finalizzato anch’esso inequivocabilmente al viaggio mistico (o cosmico che dir si voglia). 

La lotta fra i due principi 

Due figure emblematiche del mosaico di Aquileia. L’ariete rappresenta il Prepadre (es. gnosi valentiniana), l’origine di tutto. La sua connotazione zodiacale, principiando lo zodiaco con l’armento, è sottolineata dalla apposizione sul muso dell’animale del segno dell’Ariete zodiacale, il segno dell’inizio. Nell’altra figura si rappresenta la lotta tra l’elemento luminoso, il gallo, con l’opposto principio tenebroso (la tartaruga = il tartaro). La contesa si svolge sotto il dominio del Pleroma rappresentato da una boccetta di balsamo profumato. Non è superfluo rimarcare che l’emanazione profumata è una caratteristica del Cristo risorto in similitudine a ciò che accade agli uomini santi il cui piacevole olezzo penetra anche lo spessore della tomba. Contrariamente a questo mondo dall’afrore puteolente, il Pleroma è quindi olezzante di inebriante profumo. In riferimento a questa importantissima immagine si aggiunge una puntuale considerazione dello Iacumin relativa all’arcaicità della tartaruga come simbolo del Tartaro:

Ricordiamo anche che nel Vangelo la alektorofonìa, o canto del gallo (gallicinium) è riferito al primo albore del mattino (e quindi allude al risveglio iniziatico n.d.r.). Ancor più antichi sono Esiodo e Omero, i quali nella Teogonia e nell’Iliade ci dicono dell’abisso delle «tenebre» e del «regno dei morti». Nella Apocalisse di Pietro l’angelo custode dei morti è chiamato «Tatirìkos». Nell’Apocalisse di Paolo si chiama «Tartaroùkos» l’angelo che presiede ai tormenti negli inferi. Nei Libri Sibillini si dice che «nelle tenebre della notte stanno le tremende fiere del Tartaro» e «gli spiriti sotterranei degli angeli abitatori del Tartaro»; nel Trattato dei due spiriti il demonio è detto «il nero» e si oppone all’angelo della luce.

Le forme  geometriche che inquadrano e ripartiscono le figure tra loro (cerchi, quadrati, ottagoni) non sono rappresentazioni casuali o meramente decorative ma corrispondono a precisi significati. Il mosaico, d’altronde, esprime parimenti il carattere escatologico-millenaristico dei suoi utilizzatori anch’esso di diretta derivazione giudeo cristiana. Infatti nella IV campata dell’aula nord si ha la raffigurazione di cinque alberi che rappresentano i cinquemila anni già trascorsi e che preparano all’attesa della fine del tempo, che si avvertiva all’epoca come relativamente imminente. 

I cristiano-gnostici vivevano nella consapevolezza di vivere nel sesto millennio ovvero l’ultimo secondo la loro Rivelazione. Dopo di esso, nel settimo, Gesù Cristo avrebbe regnato con i suoi santi fino all’avvento del Padre e quindi si sarebbe assistito al ripristino di tutto il creato originario (ottavo millennio). Questa circolarità era vissuta come un grande ritorno di tutto al momento stesso in cui era venuto in essere e quindi a una realtà pienamente rinnovellata, in similitudine a Gesù che era risorto all’ottavo giorno (dopo il sabato ebraico, settimo giorno), adottando perciò una prospettiva millenarista che è caratteristica del giudeo cristianesimo palestinese, ma anche del giudaismo stesso, e che sembra pienamente coincidere con la condannata Apokatastasis origeniana.

Giunti questo punto non riteniamo di doverci spingere in ulteriori argomentazioni su questo tema, dato il carattere descrittivo dell’intervento, ma sicuramente il testo dello Iacumin, sinotticamente accostato a quello del Morandi dedicato alla Pistis Sophia, può essere considerato fonte pressoché inesauribile di suggerimenti interpretativi, grazie alla esuberante messe di comparazioni che si può ricavare confrontando gli scritti dei due ricercatori. Un ulteriore e assai proficuo accostamento andrebbe operato con lo sterminato materiale che padre Emanuele Testa ha messo a disposizione sull’iniziazione nel giudeo cristianesimo palestinese e al tema, in esso, pressoché ubiquitario, del viaggio cosmico topico della sua iniziazione. 


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