β€œCristo si Γ¨ fermato a Eboli”: il Southern Gothic di Carlo Levi

Leggendo nelle settimane scorse β€œOmbre giapponesi”, celebre raccolta di fiabe macabre della tradizione nipponica selezionate e trascritte all’inizio del secolo scorso dal giornalista irlandese Lafcadio Heran che Adelphi ha riproposto qualche tempo fa in una bella edizione a cura di Ottavio Fatica, ho maturato la convinzione (del tutto personale) che i racconti neri nipponici non facciano propriamente paura. Almeno non nel senso che noi occidentali siamo soliti attribuire a questo termine. Germogliati nell’ambito di una religiositΓ  panica e immanente dove la divinitΓ  non sovrasta l’individuo ma cammina al suo fianco, sono del tutto privi di un elemento essenziale che Γ¨ quello propriamente orrorifico o perturbante che dir si voglia. Condividendo questa mia perplessitΓ  con un carissimo amico che ha vissuto a lungo in Giappone dove ha svolto incarichi diplomatici ad altissimo livello e conosce pertanto la cultura del Sol Levante nel profondo, avendone scritto con cognizione di causa in piΓΉ occasioni, sono stato da lui reso edotto di un particolare illuminante a questo riguardo al quale non ho attribuito in prima battuta la necessaria importanza. Il Giappone ha conosciuto il Cristianesimo solo nel XVII secolo, in un’epoca quindi relativamente tarda, e la predicazione del Nazareno ha attecchito solo in maniera superficiale, non intaccando il nucleo essenziale della spiritualitΓ  arcaica di derivazione shintoista incentrata sul culto degli Antenati [1].

Non si Γ¨ verificata quindi quella polarizzazione esasperata che alle vertiginose altezze dell’estasi mistica contrappone abissi insondabili sulla quale si fonda in buona sostanza l’impalcatura del nostro immaginario simbolico legato alla sfera dell’Orrore. Un dualismo manicheo che il Protestantesimo, nelle sue numerose declinazioni, ha nel tempo enfatizzato, il che spiega per quale ragione, nel vasto panorama della letteratura weird, gli scrittori americani ed inglesi abbiano recitato e continuino a recitare la parte del leone, contribuendo in larga misura a condizionare la nostra sensibilitΓ  in merito a questo tema anche sul piano estetico e formale. Quando immaginiamo una situazione legata ad atmosfere gotiche ci vengono in mente, per istintiva associazione d’idee, nebbiose brughiere infestate da mastini demoniaci, arcigni contrafforti carpatici ricoperti di abeti e puntellati da castelli in rovina, le caliginose vie della Londra vittoriana o villaggi quaccheri afflitti da innominabili maledizioni sperduti nella selvaggia vastitΓ  dell’America puritana.

Ritratto newyorkese del 1947 di Carlo Levi davanti a un suo quadro β€œcristico”

Eppure, se Γ¨ vero che nel β€œDoctor Faustus” di Thomas Mann Lucifero si mostra al protagonista Adrian Leverkhun per ghermirgli l’anima nelle assolate e riarse solitudini della campagna romana nei dintorni di Palestrina, i panorami mediterranei dardeggiati dal sole meridiano e saturi di salsedine possono esse forieri di altrettante angosciose inquietudini poichΓ©, come ha osservato Ernst Junger con la consueta, penetrante preveggenza, in una celebre intervista rilasciata anni addietro ad Heimo Schwilk, l’uomo, avendo perso consapevolezza delle leggi che governano le tenebre, si muove nel mondo come in un β€œgiardino labirintico di luce” che puΓ² accecare quanto l’oscuritΓ  [2].

Rinfocolato dalla pubblicazione di una nota raccolta di racconti a firma di Gianfranco De Turris, licenziata per Bietti nel 2021, il dibattito intorno al southern gothic di casa nostra si Γ¨ arricchito in itinere di alcuni contributi di valore come ad esempio β€œLa ianara” di Licia Giaquinto che, sempre nella scuderia Adelphi, ci offre, sulla scia di Giambattista Basile, Benedetto Croce e Anna Maria Ortese, una rivisitazione della fiaba nera del noce di Benevento,Β oppure β€œIn principio era la Bestia” di Omar Di Monopoli, edito da Feltrinelli, meritevole di aver riportato alla luce la leggenda del mostro di GΓ©vaudan ambientandola nella Terra d’Otranto (la stessa scelta da Horace Walpole agli albori del genere)Β e inserendola nel meccanismo narrativo della commedia dell’arte [3]. Qualora volessimo rintracciare le fonti primigenie di questo filone letterario, non potremmo non citare quello straordinario florilegio di fantasmagorie gotiche che Γ¨ β€œNottetempo, casa per casa”, romanzo polifonico in cui Vincenzo Consolo, seguendo la lezione aurea di Leonardo Sciascia, ci racconta le peripezie del satanista ed occultista Aleister Crowley sullo sfondo di una Sicilia immobile, ipogea e assai poco solare, molto simile a quella evocata da Luigi Natoli ne β€œI beati Paoli”.

Carlo Levi

Tetragono della familiaritΓ  che la cultura del Meridione d’Italia intrattiene con le forze che si muovono oltre la soglia del mondo sensibile resta tuttavia un libro che, nella percezione comune, sembra estraneo alle suggestioni che abbiamo cercato di evocare in questa breve nota, ovvero β€œCristo si Γ¨ fermato a Eboli” di Carlo Levi. Redatto a cavallo tra il 1935 e il 1936 durante il confino trascorso ad Aliano, piccolo borgo situato nel cuore della Basilicata ribattezzato Gagliano nelle pagine del diario, questo testo celeberrimo, che nel dopoguerra ha turbato le veglie e i sonni di generazioni di studenti, Γ¨ conosciuto dalla maggior parte dei lettori come la testimonianza dell’impegno politico e civile profuso dall’Autore contro il Fascismo. Aspetto che, a dire il vero, con buona pace della critica impegnata, si rivela, ad una piΓΉ attenta lettura, abbastanza secondario e affatto manieristico. Il valore piΓΉ autentico di questo scritto, al di lΓ  delle contingenze storiche e dell’episodio biografico che ne hanno propiziato la stesura, risiede semmai nel fatto di rappresentare uno sguardo unico gettato sulla CiviltΓ  contadina ormai prossima al tramonto, con i suoi usi atavici, i suoi costumi, le sue liturgie immutabili e le relative ossessioni legate alla sfera dell’immaterialitΓ  sovrasensibile. Nato e cresciuto a Torino, medico di professione, pittore e scrittore per vocazione, Carlo Levi Γ¨ in tutto e per tutto figlio della mentalitΓ  urbana, dell’efficientismo razionalista, tecnocratico e verticale che la alimenta spingendo gli uomini che ne sono pervasi ad intervenire con prometeica ostinazione sulla Natura e sulla realtΓ  per plasmarle e modificarle secondo le loro esigenze. Alla teocrazia burocratica e militare della ModernitΓ  i contadini lucani con i quali l’Autore si trova a dover convivere sono, con sua profonda sorpresa, del tutto estranei. Essi non partecipano alle dinamiche della Storia, semmai le subiscono e sono testimoni, muti e inconsapevoli, di un tempo altro, quello ciclico della semina e del raccolto, delle stagioni e delle fasi lunari, quello del Mito, che si ripete sempre uguale a se stesso e che essi vivono con un senso di fatalistica rassegnazione al Destino, in perfetta simbiosi con l’universo animale e vegetale che li circonda e del quale sono parte integrante.

Carlo Levi, Lucania ’61

È un’umanitΓ  tragica, antelucana e omerica quella descritta da Carlo Levi, la stessa che ritroviamo in β€œFontamara” di Ignazio Silone, nei romanzi di Giuseppe Berto e Corrado Alvaro ambientati in Aspromonte o nelle drammatiche cronache delle bardane sarde contro gli occupanti piemontesi immortalate da Salvatore Niffoi e Giuseppe DessΓ¬ nelle loro novelle barbaricine. Scrive Carlo Levi [4]:

La religione dello Stato, la pietas di Enea che si manifesta nei sacrifici umani immolati sulla pira di Pallante e, di volta in volta, assume le forme esteriori delle armi splendenti forgiate dagli DΓ¨i, delle insegne araldiche, delle alabarde francesi o delle picche spagnole, delle baionette sabaude o delle mitragliatrici asburgiche, Γ¨ assolutamente incomprensibile ai loro occhi. Ad animarli Γ¨, semmai, un desiderio di voluttuosa immobilitΓ , come avrebbe detto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, un diritto all’oblio al quale essi si aggrappano con disperante tenacia, con irrazionale ostinazione e che esplode in forme di rabbiosa rivolta contro chiunque tenti di ridestarli dal loro sonno plurisecolare per consegnarli controvoglia alla vita brulicante, luminosa e multiforme del mondo moderno.

Carlo Levi, Lucania ’61

È in questa irriducibile alteritΓ  rispetto al presente e nella totale assenza della pur minima idea di futuro che vanno ricercate, secondo lo scrittore torinese, la ragioni ultime, le radici piΓΉ profonde del sostegno incondizionato offerto dai contadini meridionali al fenomeno endemico del brigantaggio. Anche in questo caso non si tratta di una scelta consapevole, ponderata: le genti lucane, esattamente come quelle abruzzesi e molisane o salentine, se ignorano senza dubbio alcuno i fondamenti di quella che fino agli Anni Settanta del secolo scorso si era soliti definire coscienza di classe, non sanno in egual misura nulla delle rivendicazioni legittimiste perorate dall’aristocrazia borbonica decaduta in combutta con il Papa. Non hanno, per forza di cose, dimestichezza con il linguaggio astratto delle ideologie proprio della cultura urbana che eternamente li prevarica. Nondimeno i contadini del Sud nutrono nei confronti dei briganti un senso di istintiva solidarietΓ , poichΓ© essi perorano attraverso azioni disperate e violente le ragioni della loro vita e del loro mondo rimasti senza voce di fronte all’impetuoso incalzare degli eventi: le gesta di Carmine Crocco e di Ninco Nanco, benchΓ© votate alla sconfitta e forse proprio in virtΓΉ di questo, fanno parte in maniera inestricabile del loro orizzonte simbolico, alimentano le fantasie di rivalsa della tragica, sanguinosa epopea che li vede tutti coinvolti. A tale riguardo Carlo Levi precisa che β€œi briganti misero dei tesori reali dove la fantasia contadina aveva sempre favoleggiato la loro esistenza: cosΓ¬ i briganti divennero tutt’uno con le oscure potenze sotterranee” [5].

Prendendo a prestito la celebre espressione di Fosco Maraini, potremmo dire che quello dei pastori lucani Γ¨ un endocosmo, un mondo chiuso, autarchico, sorretto da regole proprie e refrattario a qualsivoglia ingerenza proveniente dall’esterno, nel quale non si puΓ² entrare senza essere in possesso di quella che l’Autore definisce una β€œchiave di Magia”. Ben prima che gli studi di Ernesto De Martino rendessero l’argomento d’attualitΓ , facendone oggetto di ponderate e approfondite indagini sociologiche, lo scrittore torinese ha modo di osservare con i propri occhi che

Carlo Levi, Contadine rivoluzionarie

CosΓ¬, all’imbrunire, quando le ombre della sera si allungano sui calanchi, le argillose colline che punteggiano il paesaggio lunare di Aliano, i racconti della gente del posto si popolano, a dispetto degli anatemi pronunciati dal parroco, di demoni appostati nelle grotte o agli angoli delle strade per cogliere di sorpresa i contadini di ritorno dai campi e precipitarli nei dirupi, mentre l’aria si riempie degli spudorati motteggi e delle irriverenti gesta dei monachicchi, gli spiriti dei bambini morti senza battesimo che scorrazzano per i casolari rovesciando i bidoni del latte, spaventando gli armenti o mettendo a soqquadro le dispense. Presenze nelle quali gli abitanti di queste lande dolenti credono in maniera indefettibile e anzi hanno cura di ingraziarsene il capriccioso favore con piccoli doni e offerte votive, nella speranza che essi vogliano poi propiziare il bel tempo e il raccolto o sovrintendere con benevolenza ai commerci, alle nuove nascite e agli sposalizi, aiutando infine i defunti a compiere l’estremo passo.

Nella cultura contadina delle terre lucane e del Meridione tutto, infatti, il confine tra il mondo dei vivi e l’AldilΓ  Γ¨ estremamente sottile, poroso, quasi impercettibile e la morte una presenza reale, concreta, familiare, enfatizzata oltre misura dalle liturgie della pietΓ  barocca. Riprova ne sia che nel corso delle sue oziose peregrinazioni tra le vie del borgo e nei dintorni, Carlo Levi s’imbatte un giorno nel becchino del posto, un vecchio dall’etΓ  indefinibile conosciuto in gioventΓΉ anche nei villaggi limitrofi per la sua abilitΓ  nell’ammansire i lupi attraverso l’ipnosi e questi si picca di far sapere all’illustre ospite che il paese β€œΓ¨ fatto delle ossa dei morti” le quali affiorano letteralmente dal terreno e costituiscono un tutt’uno insieme agli animali, alle piante, agli uomini e agli agenti atmosferici. Guardiane indiscusse della linea di demarcazione che separa la realtΓ  diurna e raziocinante dalla dimensione ipogea e onirica sono le donne, le quali attraverso il canto che scandisce le ore del lavoro, la danza durante le feste comandate, la preghiera e le lamentazioni che accompagnano i riti funebri s’incaricano di tracciare il cerchio magico all’interno del quale si consuma la vita della comunitΓ  e ne presidiano la soglia. Spesso avvolte in abiti neri, inconsapevoli sacerdotesse di un matriarcato immemoriale, sono figure numinose, temute, strettamente connesse per mezzo della maternitΓ  ai misteri della creazione e che intrattengono per antica consuetudine una segreta consanguineitΓ  con le potenze infere e celesti che mute sovrastano l’affannoso brulicare delle esistenze minute e si contendono le vite di tutti [6].

Carlo Levi, Lucania ’61

Al suo arrivo ad Aliano, il medico condotto del paese, il Dottor Milillo, emblematico rappresentante di quella mentalitΓ  urbana e giacobina che abbiamo visto essere istintivamente ostile ai contadini, mette in guardia il protagonista dal concedere confidenza alle donne del luogo e lo esorta a non accettare mai da loro offerte di cibo, perchΓ© potrebbero aver mescolato all’impasto il proprio mestruo per irretirlo o gettare su di lui il malocchio. Scettico nei confronti di queste accorate reprimende, Carlo Levi ritiene invece che proprio le donne, per la veritΓ  assai ben disposte nei suoi riguardi, possano essere il viatico migliore per comprendere nel profondo l’ermetica mentalitΓ  di queste genti enigmatiche tra le quali la sorte lo ha condotto e, contro il parere degli scandalizzati maggiorenti, accetta di prendere in casa propria come governante Giulia Venere, una ragazza madre originaria di Sant’Arcangelo, sospettata dai piΓΉ di essere una strega.

Giulia Γ¨, in maniera del tutto inconsapevole, una Persefone contadina, una DΓ¨a infernale delle messi, una divinitΓ  sotterranea, tenebrosa e terribile come le ombre del grembo materno della terra, in tutto simile alla Madonna Nera di Stigliano che i contadini portano in processione la prima domenica di maggio, la quale esige di essere adorata perchΓ© nutre e protegge, certo, ma puΓ² anche seccare i raccolti e far inaridire i campi. In lei l’Autore coglie con adamantina chiarezza un’inestricabile compresenza di elementi umani e ferini che incute rispetto e induce venerazione, tanto da sceglierla, ammaliato, come soggetto di un suo celebre dipinto.

Foto segnaletica di Carlo Levi, 1923

  1. Mi riferisco a Mario Vattani, mio gradito ospite a Varese nell’ormai lontano 2016, che ringrazio e del quale consiglio la lettura del saggio β€œSvelare il Giappone” edito da Giunti.
  2. Heimo Schwilk, β€œIl sogno dell’Anarcaβ€œ, Herrenhaus Edizioni, Seregno 1999; pag. 129.
  3. Gianfranco De Turris, β€œQualcosa d’altro. Racconti 1986 -2000β€œ, Bietti, Milano 2021.
  4. Carlo Levi, β€œCristo si Γ¨ fermato a Eboliβ€œ, Einaudi, Torino 1990; pag. 123.
  5. Ivi; pag. 127.
  6. Sulla centralitΓ  della figura femminile nella cultura contadina del Meridione si rimanda al fondamentale studio di Ernesto De Martino, β€œLa terra del rimorsoβ€œ, Il Saggiatore, Venezia 2015. Per una piΓΉ completa disamina sul tema del sacro nell’opera dello scrittore torinese si rimanda all’ottimo saggio di Riccardo Gasperina Geroni, β€œIl custode della soglia. Il sacro e le forme nell’opera di Carlo Leviβ€œ, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni 2018.
  7. Carlo Levi, Op. cit., pag. 91 – 93.Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β  Β 

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