Indicato dalla critica impegnata quale testimonianza dellβ impegno civile e politico dellβ Autore, il capolavoro di Carlo Levi Γ¨ anche e forse soprattutto un trattato di antropologia culturale in forma di diario che esplora gli aspetti arcaici della cultura ancestrale del Meridione dβItalia: un universo ipogeo e per nulla solare al quale si puΓ² accedere soltanto attraverso quella che Carlo Levi definisce βuna chiave di Magiaβ.
di Paolo Mathlouthi
Leggendo nelle settimane scorse βOmbre giapponesiβ, celebre raccolta di fiabe macabre della tradizione nipponica selezionate e trascritte allβinizio del secolo scorso dal giornalista irlandese Lafcadio Heran che Adelphi ha riproposto qualche tempo fa in una bella edizione a cura di Ottavio Fatica, ho maturato la convinzione (del tutto personale) che i racconti neri nipponici non facciano propriamente paura. Almeno non nel senso che noi occidentali siamo soliti attribuire a questo termine. Germogliati nellβambito di una religiositΓ panica e immanente dove la divinitΓ non sovrasta lβindividuo ma cammina al suo fianco, sono del tutto privi di un elemento essenziale che Γ¨ quello propriamente orrorifico o perturbante che dir si voglia. Condividendo questa mia perplessitΓ con un carissimo amico che ha vissuto a lungo in Giappone dove ha svolto incarichi diplomatici ad altissimo livello e conosce pertanto la cultura del Sol Levante nel profondo, avendone scritto con cognizione di causa in piΓΉ occasioni, sono stato da lui reso edotto di un particolare illuminante a questo riguardo al quale non ho attribuito in prima battuta la necessaria importanza. Il Giappone ha conosciuto il Cristianesimo solo nel XVII secolo, in unβepoca quindi relativamente tarda, e la predicazione del Nazareno ha attecchito solo in maniera superficiale, non intaccando il nucleo essenziale della spiritualitΓ arcaica di derivazione shintoista incentrata sul culto degli Antenati [1].
Non si Γ¨ verificata quindi quella polarizzazione esasperata che alle vertiginose altezze dellβestasi mistica contrappone abissi insondabili sulla quale si fonda in buona sostanza lβimpalcatura del nostro immaginario simbolico legato alla sfera dellβOrrore. Un dualismo manicheo che il Protestantesimo, nelle sue numerose declinazioni, ha nel tempo enfatizzato, il che spiega per quale ragione, nel vasto panorama della letteratura weird, gli scrittori americani ed inglesi abbiano recitato e continuino a recitare la parte del leone, contribuendo in larga misura a condizionare la nostra sensibilitΓ in merito a questo tema anche sul piano estetico e formale. Quando immaginiamo una situazione legata ad atmosfere gotiche ci vengono in mente, per istintiva associazione dβidee, nebbiose brughiere infestate da mastini demoniaci, arcigni contrafforti carpatici ricoperti di abeti e puntellati da castelli in rovina, le caliginose vie della Londra vittoriana o villaggi quaccheri afflitti da innominabili maledizioni sperduti nella selvaggia vastitΓ dellβAmerica puritana.

Eppure, se Γ¨ vero che nel βDoctor Faustusβ di Thomas Mann Lucifero si mostra al protagonista Adrian Leverkhun per ghermirgli lβanima nelle assolate e riarse solitudini della campagna romana nei dintorni di Palestrina, i panorami mediterranei dardeggiati dal sole meridiano e saturi di salsedine possono esse forieri di altrettante angosciose inquietudini poichΓ©, come ha osservato Ernst Junger con la consueta, penetrante preveggenza, in una celebre intervista rilasciata anni addietro ad Heimo Schwilk, lβuomo, avendo perso consapevolezza delle leggi che governano le tenebre, si muove nel mondo come in un βgiardino labirintico di luceβ che puΓ² accecare quanto lβoscuritΓ [2].
Rinfocolato dalla pubblicazione di una nota raccolta di racconti a firma di Gianfranco De Turris, licenziata per Bietti nel 2021, il dibattito intorno al southern gothic di casa nostra si Γ¨ arricchito in itinere di alcuni contributi di valore come ad esempio βLa ianaraβ di Licia Giaquinto che, sempre nella scuderia Adelphi, ci offre, sulla scia di Giambattista Basile, Benedetto Croce e Anna Maria Ortese, una rivisitazione della fiaba nera del noce di Benevento,Β oppure βIn principio era la Bestiaβ di Omar Di Monopoli, edito da Feltrinelli, meritevole di aver riportato alla luce la leggenda del mostro di GΓ©vaudan ambientandola nella Terra dβOtranto (la stessa scelta da Horace Walpole agli albori del genere)Β e inserendola nel meccanismo narrativo della commedia dellβarte [3]. Qualora volessimo rintracciare le fonti primigenie di questo filone letterario, non potremmo non citare quello straordinario florilegio di fantasmagorie gotiche che Γ¨ βNottetempo, casa per casaβ, romanzo polifonico in cui Vincenzo Consolo, seguendo la lezione aurea di Leonardo Sciascia, ci racconta le peripezie del satanista ed occultista Aleister Crowley sullo sfondo di una Sicilia immobile, ipogea e assai poco solare, molto simile a quella evocata da Luigi Natoli ne βI beati Paoliβ.

Tetragono della familiaritΓ che la cultura del Meridione dβItalia intrattiene con le forze che si muovono oltre la soglia del mondo sensibile resta tuttavia un libro che, nella percezione comune, sembra estraneo alle suggestioni che abbiamo cercato di evocare in questa breve nota, ovvero βCristo si Γ¨ fermato a Eboliβ di Carlo Levi. Redatto a cavallo tra il 1935 e il 1936 durante il confino trascorso ad Aliano, piccolo borgo situato nel cuore della Basilicata ribattezzato Gagliano nelle pagine del diario, questo testo celeberrimo, che nel dopoguerra ha turbato le veglie e i sonni di generazioni di studenti, Γ¨ conosciuto dalla maggior parte dei lettori come la testimonianza dellβimpegno politico e civile profuso dallβAutore contro il Fascismo. Aspetto che, a dire il vero, con buona pace della critica impegnata, si rivela, ad una piΓΉ attenta lettura, abbastanza secondario e affatto manieristico. Il valore piΓΉ autentico di questo scritto, al di lΓ delle contingenze storiche e dellβepisodio biografico che ne hanno propiziato la stesura, risiede semmai nel fatto di rappresentare uno sguardo unico gettato sulla CiviltΓ contadina ormai prossima al tramonto, con i suoi usi atavici, i suoi costumi, le sue liturgie immutabili e le relative ossessioni legate alla sfera dellβimmaterialitΓ sovrasensibile. Nato e cresciuto a Torino, medico di professione, pittore e scrittore per vocazione, Carlo Levi Γ¨ in tutto e per tutto figlio della mentalitΓ urbana, dellβefficientismo razionalista, tecnocratico e verticale che la alimenta spingendo gli uomini che ne sono pervasi ad intervenire con prometeica ostinazione sulla Natura e sulla realtΓ per plasmarle e modificarle secondo le loro esigenze. Alla teocrazia burocratica e militare della ModernitΓ i contadini lucani con i quali lβAutore si trova a dover convivere sono, con sua profonda sorpresa, del tutto estranei. Essi non partecipano alle dinamiche della Storia, semmai le subiscono e sono testimoni, muti e inconsapevoli, di un tempo altro, quello ciclico della semina e del raccolto, delle stagioni e delle fasi lunari, quello del Mito, che si ripete sempre uguale a se stesso e che essi vivono con un senso di fatalistica rassegnazione al Destino, in perfetta simbiosi con lβuniverso animale e vegetale che li circonda e del quale sono parte integrante.

Γ unβumanitΓ tragica, antelucana e omerica quella descritta da Carlo Levi, la stessa che ritroviamo in βFontamaraβ di Ignazio Silone, nei romanzi di Giuseppe Berto e Corrado Alvaro ambientati in Aspromonte o nelle drammatiche cronache delle bardane sarde contro gli occupanti piemontesi immortalate da Salvatore Niffoi e Giuseppe DessΓ¬ nelle loro novelle barbaricine. Scrive Carlo Levi [4]:
Parlavo con i contadini, ne guardavo i visi, e le forme [β¦]: nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, nΓ© dei greci, nΓ© degli etruschi, nΓ© dei normanni, nΓ© degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi piΓΉ remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli.
La religione dello Stato, la pietas di Enea che si manifesta nei sacrifici umani immolati sulla pira di Pallante e, di volta in volta, assume le forme esteriori delle armi splendenti forgiate dagli DΓ¨i, delle insegne araldiche, delle alabarde francesi o delle picche spagnole, delle baionette sabaude o delle mitragliatrici asburgiche, Γ¨ assolutamente incomprensibile ai loro occhi. Ad animarli Γ¨, semmai, un desiderio di voluttuosa immobilitΓ , come avrebbe detto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, un diritto allβoblio al quale essi si aggrappano con disperante tenacia, con irrazionale ostinazione e che esplode in forme di rabbiosa rivolta contro chiunque tenti di ridestarli dal loro sonno plurisecolare per consegnarli controvoglia alla vita brulicante, luminosa e multiforme del mondo moderno.

Γ in questa irriducibile alteritΓ rispetto al presente e nella totale assenza della pur minima idea di futuro che vanno ricercate, secondo lo scrittore torinese, la ragioni ultime, le radici piΓΉ profonde del sostegno incondizionato offerto dai contadini meridionali al fenomeno endemico del brigantaggio. Anche in questo caso non si tratta di una scelta consapevole, ponderata: le genti lucane, esattamente come quelle abruzzesi e molisane o salentine, se ignorano senza dubbio alcuno i fondamenti di quella che fino agli Anni Settanta del secolo scorso si era soliti definire coscienza di classe, non sanno in egual misura nulla delle rivendicazioni legittimiste perorate dallβaristocrazia borbonica decaduta in combutta con il Papa. Non hanno, per forza di cose, dimestichezza con il linguaggio astratto delle ideologie proprio della cultura urbana che eternamente li prevarica. Nondimeno i contadini del Sud nutrono nei confronti dei briganti un senso di istintiva solidarietΓ , poichΓ© essi perorano attraverso azioni disperate e violente le ragioni della loro vita e del loro mondo rimasti senza voce di fronte allβimpetuoso incalzare degli eventi: le gesta di Carmine Crocco e di Ninco Nanco, benchΓ© votate alla sconfitta e forse proprio in virtΓΉ di questo, fanno parte in maniera inestricabile del loro orizzonte simbolico, alimentano le fantasie di rivalsa della tragica, sanguinosa epopea che li vede tutti coinvolti. A tale riguardo Carlo Levi precisa che βi briganti misero dei tesori reali dove la fantasia contadina aveva sempre favoleggiato la loro esistenza: cosΓ¬ i briganti divennero tuttβuno con le oscure potenze sotterraneeβ [5].
Prendendo a prestito la celebre espressione di Fosco Maraini, potremmo dire che quello dei pastori lucani Γ¨ un endocosmo, un mondo chiuso, autarchico, sorretto da regole proprie e refrattario a qualsivoglia ingerenza proveniente dallβesterno, nel quale non si puΓ² entrare senza essere in possesso di quella che lβAutore definisce una βchiave di Magiaβ. Ben prima che gli studi di Ernesto De Martino rendessero lβargomento dβattualitΓ , facendone oggetto di ponderate e approfondite indagini sociologiche, lo scrittore torinese ha modo di osservare con i propri occhi che
nel mondo dei contadini non cβΓ¨ posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non cβΓ¨ posto per la religione, appunto perchΓ© tutto partecipa della divinitΓ , perchΓ© tutto Γ¨, realmente e non simbolicamente, divino. Il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto Γ¨ magia naturale. Anche le cerimonie delle chiese diventano dei riti pagani, celebratori dellβindifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri DΓ¨i del villaggio.

CosΓ¬, allβimbrunire, quando le ombre della sera si allungano sui calanchi, le argillose colline che punteggiano il paesaggio lunare di Aliano, i racconti della gente del posto si popolano, a dispetto degli anatemi pronunciati dal parroco, di demoni appostati nelle grotte o agli angoli delle strade per cogliere di sorpresa i contadini di ritorno dai campi e precipitarli nei dirupi, mentre lβaria si riempie degli spudorati motteggi e delle irriverenti gesta dei monachicchi, gli spiriti dei bambini morti senza battesimo che scorrazzano per i casolari rovesciando i bidoni del latte, spaventando gli armenti o mettendo a soqquadro le dispense. Presenze nelle quali gli abitanti di queste lande dolenti credono in maniera indefettibile e anzi hanno cura di ingraziarsene il capriccioso favore con piccoli doni e offerte votive, nella speranza che essi vogliano poi propiziare il bel tempo e il raccolto o sovrintendere con benevolenza ai commerci, alle nuove nascite e agli sposalizi, aiutando infine i defunti a compiere lβestremo passo.
Nella cultura contadina delle terre lucane e del Meridione tutto, infatti, il confine tra il mondo dei vivi e lβAldilΓ Γ¨ estremamente sottile, poroso, quasi impercettibile e la morte una presenza reale, concreta, familiare, enfatizzata oltre misura dalle liturgie della pietΓ barocca. Riprova ne sia che nel corso delle sue oziose peregrinazioni tra le vie del borgo e nei dintorni, Carlo Levi sβimbatte un giorno nel becchino del posto, un vecchio dallβetΓ indefinibile conosciuto in gioventΓΉ anche nei villaggi limitrofi per la sua abilitΓ nellβammansire i lupi attraverso lβipnosi e questi si picca di far sapere allβillustre ospite che il paese βΓ¨ fatto delle ossa dei mortiβ le quali affiorano letteralmente dal terreno e costituiscono un tuttβuno insieme agli animali, alle piante, agli uomini e agli agenti atmosferici. Guardiane indiscusse della linea di demarcazione che separa la realtΓ diurna e raziocinante dalla dimensione ipogea e onirica sono le donne, le quali attraverso il canto che scandisce le ore del lavoro, la danza durante le feste comandate, la preghiera e le lamentazioni che accompagnano i riti funebri sβincaricano di tracciare il cerchio magico allβinterno del quale si consuma la vita della comunitΓ e ne presidiano la soglia. Spesso avvolte in abiti neri, inconsapevoli sacerdotesse di un matriarcato immemoriale, sono figure numinose, temute, strettamente connesse per mezzo della maternitΓ ai misteri della creazione e che intrattengono per antica consuetudine una segreta consanguineitΓ con le potenze infere e celesti che mute sovrastano lβaffannoso brulicare delle esistenze minute e si contendono le vite di tutti [6].

Al suo arrivo ad Aliano, il medico condotto del paese, il Dottor Milillo, emblematico rappresentante di quella mentalitΓ urbana e giacobina che abbiamo visto essere istintivamente ostile ai contadini, mette in guardia il protagonista dal concedere confidenza alle donne del luogo e lo esorta a non accettare mai da loro offerte di cibo, perchΓ© potrebbero aver mescolato allβimpasto il proprio mestruo per irretirlo o gettare su di lui il malocchio. Scettico nei confronti di queste accorate reprimende, Carlo Levi ritiene invece che proprio le donne, per la veritΓ assai ben disposte nei suoi riguardi, possano essere il viatico migliore per comprendere nel profondo lβermetica mentalitΓ di queste genti enigmatiche tra le quali la sorte lo ha condotto e, contro il parere degli scandalizzati maggiorenti, accetta di prendere in casa propria come governante Giulia Venere, una ragazza madre originaria di SantβArcangelo, sospettata dai piΓΉ di essere una strega.
Era una donna alta e formosa. Doveva aver avuto, nella sua gioventΓΉ, una specie di barbara e solenne bellezza. Il viso era ormai rugoso ma [β¦] aveva un fortissimo carattere arcaico [β¦], di unβantichitΓ misteriosa e crudele, [β¦] legata alla zolla e alle eterne divinitΓ animali. Vi si vedevano una fredda sensualitΓ , una oscura ironia, una protervia impenetrabile e una passivitΓ piena di potenza, che si legavano in unβespressione insieme severa, intelligente e malvagia [β¦]. Nella cucina piΓΉ misteriosa dei filtri, Giulia era maestra: le ragazze ricorrevano a lei per consiglio e per preparare i loro intrugli amorosi. Conosceva le erbe e il potere degli oggetti magici. Sapeva curare le malattie con gli incantesimi, e perfino poteva far morire chi volesse, con la sola virtΓΉ di terribili formule. [7]
Giulia Γ¨, in maniera del tutto inconsapevole, una Persefone contadina, una DΓ¨a infernale delle messi, una divinitΓ sotterranea, tenebrosa e terribile come le ombre del grembo materno della terra, in tutto simile alla Madonna Nera di Stigliano che i contadini portano in processione la prima domenica di maggio, la quale esige di essere adorata perchΓ© nutre e protegge, certo, ma puΓ² anche seccare i raccolti e far inaridire i campi. In lei lβAutore coglie con adamantina chiarezza unβinestricabile compresenza di elementi umani e ferini che incute rispetto e induce venerazione, tanto da sceglierla, ammaliato, come soggetto di un suo celebre dipinto.

NOTE
- Mi riferisco a Mario Vattani, mio gradito ospite a Varese nellβormai lontano 2016, che ringrazio e del quale consiglio la lettura del saggio βSvelare il Giapponeβ edito da Giunti.
- Heimo Schwilk, βIl sogno dellβAnarcaβ, Herrenhaus Edizioni, Seregno 1999; pag. 129.
- Gianfranco De Turris, βQualcosa dβaltro. Racconti 1986 -2000β, Bietti, Milano 2021.
- Carlo Levi, βCristo si Γ¨ fermato a Eboliβ, Einaudi, Torino 1990; pag. 123.
- Ivi; pag. 127.
- Sulla centralitΓ della figura femminile nella cultura contadina del Meridione si rimanda al fondamentale studio di Ernesto De Martino, βLa terra del rimorsoβ, Il Saggiatore, Venezia 2015. Per una piΓΉ completa disamina sul tema del sacro nellβopera dello scrittore torinese si rimanda allβottimo saggio di Riccardo Gasperina Geroni, βIl custode della soglia. Il sacro e le forme nellβopera di Carlo Leviβ, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni 2018.
- Carlo Levi, Op. cit., pag. 91 β 93.Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β Β