Lovecraft, o l’inconsistenza del reale

Articolo a cura di Sebastiano Fusco.

Originariamente pubblicato su Antarès, H.P. Lovecraft #2 – L’orrore cosmico del Maestro di Providence n. 8/2014, e successivamente sul sito delle ed. Bietti.


L’ultima volta che ho cercato di ottenere in visione una copia del Necronomicon – il libro occulto nel quale è racchiusa la conoscenza atta a spalancare i mondi e far irrompere mostruose creature in una realtà impreparata ad accoglierle – è stato qualche tempo fa, nell’antica biblioteca di una città d’arte italiana, famosa per la sua raccolta d’incunaboli (mi consentirete di restare sul vago, per i motivi che saranno chiari subito). Un “cortese bibliotecario”, come avrebbe detto Lovecraft, dopo qualche esitazione mi disse che, sì, ricordava la presenza del volume negli augusti scaffali di quel tempio del sapere, ma che purtroppo, in epoca indefinita, era andato smarrito, rubato o distrutto. E, a riprova, mi fece vedere i registri della venerabile istituzione nei quali il libro era debitamente segnalato con una scheda bibliografica completa di tutti gli elementi necessari, e con accanto la dicitura «Asportato». Espressi la mia deplorazione per il fatto che un’opera così temibile potesse essere finita in mani imprudenti, e il cortese bibliotecario ne convenne.

Uscendo dallo storico edificio della biblioteca, non ero particolarmente stupito. So bene che il Necronomicon non esiste e non è mai esistito, perché è una pura e semplice invenzione letteraria di Lovecraft. Ma so anche che il sinistro volume ha una spiccata quanto inquietante propensione a non tenere conto della propria inesistenza, manifestandosi indebitamente nel mondo reale nei modi più impensati e con gli effetti più imprevedibili. Risposte simili a quelle che mi aveva dato il cortese bibliotecario mi giungono all’incirca una volta su cinque nell’inchiesta che sto conducendo da anni sulla persistenza di Lovecraft e della sua invenzione più famosa, ovvero il Necronomicon, nella cultura popolare e nelle elaborazioni dei mass media. A parte la convinzione generale e incrollabile dei lettori, secondo cui il libro maledetto esiste, malgrado tutte le smentite, chi volesse verificarne l’esistenza troverebbe in effetti prove a iosa: recensioni pubblicate da noti periodici, citazioni come «opera consultata» in bibliografie di saggi autorevoli, inclusioni in cataloghi di collezioni librarie, testimonianze veridiche di chi stava per acquistarlo ma all’ultimo momento se l’è visto sfuggire di mano, resoconti di misteriose sparizioni connesse a strane disgrazie, offerte di vendita a cifre bislacche in bollettini di librerie antiquarie, menzioni nei listini di prestigiose case d’asta, in lasciti ereditari e così via. Oltre, naturalmente, alle schede di repertorio presenti in un numero crescente di biblioteche di tutto il mondo, nelle quali il libro di Abdul Alhazred figura immancabilmente come «indisponibile alla consultazione», «fuori posto» o «sottratto».

Questo inestricabile intrecciarsi di realtà e fantasia è la caratteristica più vistosa della narrativa di Lovecraft, nella quale la linea di demarcazione tra invenzione fantastica e dati concreti è labile e imprecisa. Le storie dell’autore di Providence si svolgono in un territorio che non appartiene interamente al mondo comune, ma neppure interamente a quello fittizio: sfruttano una “terra di nessuno” che fa da confine tra i due mondi e sulla quale si proiettano ombre spaventose che vengono tanto dall’uno quanto dall’altro.

Tale sovrapposizione è continua, e si manifesta nei modi più impensati, anche ben al di fuori della responsabilità dello stesso Lovecraft. L’«Ulrich’s Periodicals Directory» è il più autorevole repertorio mondiale delle riviste specializzate. Uno strumento di estrema serietà, ad uso di biblioteche e istituzioni didattiche, nel quale vengono descritte tramite schede continuamente aggiornate le riviste specializzate di tutto il globo, divise per nazionalità, soggetto e diffusione. Nelle sue edizioni – dal 1992 fino almeno al ’97 – la sua Users’s Guide, ovvero il manuale con le indicazioni per l’utente, riporta una particolare “scheda tipo” come modello per redigere le informazioni relative a riviste nuove. In tale scheda, il periodico preso ad esempio è il «Journal of Antarctic Archaeology and Protolinguistics», edito dal Dipartimento di Archeologia e Proto-Linguistica della Miskatonic University di Arkham (Massachusetts) e diretto dal professor A. H. Whateley. In Europa la sua diffusione è curata dalle Editions d’Erlette. Chi volesse pubblicarvi inserti pubblicitari dovrebbe prendere contatto col signor Arthur Dunwich all’indirizzo redazionale (7 Old College Walk, Arkham, Mass.).

LEGGI ANCHE  H.P. Lovecraft, i "mondi perduti" e la Teosofia

Nella scheda tutto è esatto, fin nei minimi particolari: la classificazione decimale Dewey è precisamente quella attribuibile a una rivista del genere, il formato della versione in microfilm è autentico, i codici internazionali Issn e Coden sono compilati come si dovrebbe. C’è persino il numero di classificazione obbligatorio presso la Biblioteca del Congresso Usa: DZ991. Chi, inesperto di Lovecraft, non si fosse reso conto che il titolo e l’argomento della rivista, l’editore, il direttore e tutti i nomi citati sono puramente fittizi, tratti dalle sue opere, non avrebbe motivo per credere che la rivista non esista, ma sia invece un’invenzione elaborata da chi ha redatto la scheda esemplificativa (pare sia stato il bibliofilo americano Henry Wessells). Una volta ho provato a chiederne copia alla biblioteca universitaria di un prestigioso ateneo italiano, esibendo la scheda dell’«Ulrich». Mi hanno risposto che per il momento la rivista era indisponibile, ma ne avrebbero senz’altro ordinato l’ultimo numero dagli Stati Uniti.

Peraltro, chi volesse frequentare i corsi di Proto-Linguistica Antartica della Miskatonic University non dovrebbe necessariamente trasferirsi ad Arkham: su Internet troverebbe i moduli per l’iscrizione all’autorevole istituto e potrebbe frequentarne gli insegnamenti on line, sostenendo i relativi esami e conseguendo la laurea in una serie di discipline che vanno dall’archeologia dell’Antartide alla letteratura degli pseudo-biblia (con un seminario particolare sul Necronomicon). Nel sito dell’ateneo sono disponibili tutte le indicazioni necessarie allo studente, i particolari del cursus studiorum, le dispense, le esercitazioni e i supporti didattici. C’è persino l’elenco dei laureati cum laude.

Laddove invece si volesse raggiungere di persona il campus universitario miskatonico, sono disponibili dettagliate cartine geografiche del New England in cui tutte le località segnalate da Lovecraft sono inserite con precisione, nel contesto esatto indicato dal nostro autore. C’è anche quel famoso bivio nel Massachusetts centrale, dopo i Dean’s Corners, in cui il viaggiatore distratto, prendendo la direzione sbagliata, finirebbe per trovarsi nella tenebrosa e malfamata cittadina di Dunwich, nido di stregoni circondato da basse colline dall’aspetto sinistro sul cui cucuzzolo si stagliano inquietanti megaliti. Dunwich non esiste, ma le colline sì, insieme ai megaliti, che costituiscono uno degli enigmi irrisolti dell’archeologia proto-americana.

Tutto, in Lovecraft, è così. Non è mai chiaro dove finisca il reale e dove cominci il fantastico: i due territori non sono separati ma sovrapposti, in un cono d’ombra nel quale si mescolano le apparenze di entrambi.

Lovecraft giocava continuamente sulla giustapposizione fra vero e non vero, evocando ed esprimendo l’ambiguità del concepibile grazie a due mezzi straordinari di cui la natura lo aveva dotato: un’esuberante fantasia, nutrita da uno stupefacente mondo onirico, e un’eccezionale capacità di apprendere, mediante la quale riuscì a munirsi, da autodidatta, di un’erudizione praticamente sconfinata.

Aveva un metodo particolare per sistematizzare il proprio sapere: una sterminata corrispondenza (gli sono state attribuite circa centomila missive nell’arco di poco più di vent’anni) nella quale, rispondendo alle domande postegli da conoscenti sparsi in tutti gli Stati Uniti e oltre, redigeva veri e propri trattati su tutte le discipline concepibili. Per comporli, impiegava giorni e giorni, si documentava, vagliava dati e confrontava testi, accrescendo così le proprie conoscenze e fissandole nella sua formidabile memoria tramite la scrittura.

Accanto agli sfoggi di cultura, nelle lettere sono presenti anche le manifestazioni della sua libera fantasia affabulatrice. Lovecraft visse la contraddizione dell’essere un uomo del Novecento, razionalista, materialista, incredulo nei confronti di alcunché di soprannaturale, e al contempo titolare di una fantasia prodigiosa, protagonista di sogni lussureggianti e barocchi, ansioso di aprire lo spirito a qualunque cosa vi sia al di là delle costrizioni imposte dalle leggi dello spazio e del tempo. Risolse questa contraddizione (“dissonanza”, in termini di psicologia junghiana, come fece notare Dirk W. Mosig, il più acuto critico lovecraftiano di sempre) sublimando i propri incubi in arte.

Nell’epistolario di Lovecraft si dispiega un diario minuto e circostanziato, in cui i fatti del vivere comune si mescolano a straordinarie divagazioni oltremondane, cosicché la banalità del quotidiano diviene l’esca che incendia un’incredibile fantasia visionaria.

Affabulazione onirica ed esperienza vissuta pervengono a mescolarsi in un intreccio inestricabile, sino a formare un tessuto simile a certi mandala d’oriente in cui, cercando di seguire con gli occhi le linee tracciate nel disegno, si finisce per smarrire il senso della figura, passando dalla sua immagine reale a un’altra, emersa dall’inconscio e veicolo di emozioni e sensazioni sconosciute. I seguaci delle tecniche di meditazione trascendentale impiegano i mandala per trasferirsi con la propria coscienza in “mondi” diversi, adoperandoli come porte su universi ignoti. Col suo metodo di scrittura, Lovecraft attua esattamente un procedimento del genere. Si comincia in un contesto totalmente realistico, preciso fino allo scrupolo, e gradualmente, seguendo indizi arcani, ci si trova immersi in un territorio caliginoso, nel quale la fantasia onirica integra il reale, assumendone tutte le caratteristiche. Quando ci si rende conto di avere oltrepassato la “soglia” labile e invisibile fra i due mondi, è troppo tardi: l’incubo è già sopra di noi.

LEGGI ANCHE  H.P. Lovecraft, la Nuova Babele e la caccia alle streghe 2.0

Diverse sono, d’altra parte, le spie di questo incubo, nella sua narrativa: sbagliare la strada a un bivio; varcare una porta invece che un’altra; aprire un libro e scoprire che non è quello che dovrebbe essere; cogliere impercettibili mutamenti nel modo di parlare di una persona; accorgersi che il raspare dei ratti nei muri è più intenso del normale; udire l’ululato lontano di un cane che ci segue ovunque. In tal modo, certi tasselli del mosaico del reale progressivamente si sbriciolano, venendo sostituiti da altri tasselli che, nell’insieme, cambiano il senso a tutta la figura.

I libri sono una delle spie più importanti. Accanto a opere note e conosciute ne spuntano altre, le cui pagine aprono vortici di delirio. Lovecraft è abilissimo nel far comparire testi puramente inventati ma che hanno tutta la verisimiglianza del reale, accanto a volumi che appaiono del tutto fantastici, ma che sono veri.

Nella biblioteca dello stregone Curwen, dedito alla ricerca dell’immortalità attraverso complesse operazioni alchemiche, figura ovviamente l’irreale Necronomicon, ma accanto a testi dai titoli improbabili come Turba Philosophorum, Thesaurus Chemicus, Ars Magna et Ultima, che però non soltanto sono tutti autentici ma anche dedicati alla creazione dell’elisir di lunga vita: segno della meticolosità con la quale Lovecraft s’informava e della precisione con cui creava i propri riferimenti, senza lasciare nulla al caso o all’approssimazione. Viceversa, nella biblioteca scoperta dall’infelice Robert Blake all’interno della tetra chiesa in cima a Federal Hill, tutti i testi sono inventati eccetto uno: le Stanze di Dzyan, che si presume essere autentico. Ma lo è soltanto per i seguaci della teosofia, perché in realtà fu anch’esso inventato da Helena Blavatsky, la quale, tuttavia, spergiurava sulla sua effettiva esistenza.

Tutto il lessico lovecraftiano è caratterizzato da analoghe mescolanze di reale e fantastico. Il tenebroso altopiano di Leng, al centro dell’Asia, dimora di mostri, è definito gelido deserto: in cinese, leng significa per l’appunto “gelido”. La morte di Abdul Alhazred, personaggio inventato come il suo Necronomicon, è descritta dallo storico arabo Ibn Khallikan, che al contrario esistette davvero, e scrisse un testo intitolato Morte degli uomini eminenti. Papa Gregorio IX, che fece bruciare l’inesistente Necronomicon perché macchiato di stregoneria, è anche il pontefice che, istituendo il Tribunale dell’Inquisizione, aprì la strada alla caccia alle streghe e al rogo dei libri proibiti insieme con i loro proprietari. Il culmine di tale sovrapposizione si raggiunge con la menzione del Libro di Thoth: un testo magico egizio vero che tutti credono inventato, all’interno del Necronomicon, un testo magico inventato che tutti credono vero.

Pochi autori hanno saputo con altrettanta abilità mescolare sullo stesso piano percezione, rappresentazione e affabulazione. Soltanto Jorge Luis Borges mi sembra vi sia riuscito con pari efficacia. L’effetto globale è quello di un’immanenza dell’assurdo, che mina le radici del reale. Una sensazione simile a quella che Roger Caillois chiama incertitude qui vient des rêves. Accoglierla significa entrare in un labirinto di specchi, in cui taluni rimandano con fedeltà la tua immagine, altri la deformano, la cancellano o la sostituiscono con un’altra – oppure non sono neppure specchi ma porte che si aprono su misteriosi altrove, dove tutto è diverso.

LEGGI ANCHE  “Oltre il Reale”: per una Metafisica del Fantastico

Rendere con la scrittura una sensazione simile è impresa supremamente difficile, e Lovecraft per primo si rendeva conto di come a lui stesso fosse riuscita soltanto un numero limitato di volte. Tuttavia, il fatto che vi si sia cimentato è la testimonianza di uno straordinario coraggio intellettuale, della capacità di mettere in discussione non soltanto tutte le convenzioni della narrativa, ma le stesse fondamenta logiche del pensiero razionale. In questo, fu scrittore di straordinaria modernità, perché l’ambiguità del reale è il labirinto nel quale brancola oggi il pensiero scientifico e filosofico, che la fisica quantistica ha privato delle ultime certezze sopravvissute alla relatività einsteiniana. Con intelletto sbalorditivamente anticipatore, il figlio di Providence si rese conto che la descrizione della realtà, per com’è percepita dai sensi ed evocata dai sentimenti, non esaurisce in alcun modo la rappresentazione di un universo infinitamente più vasto di quanto la nostra mente e il nostro cuore possano concepire. Comprese che la nostra logica è inadeguata a imprigionare in formule esatte taluni fenomeni che ignorano le categorie aristoteliche, non tengono conto delle leggi di causalità e seguono sequenze temporali ben diverse da quelle dell’esperienza comune.

I fisici, con un processo di rielaborazione ancora lento ed esitante, si stanno rendendo conto di come il cosiddetto “modello standard” del reale – che con tanta difficoltà è riuscito solo parzialmente a unificare la dottrina atomica di Bohr con la cosmologia di Einstein – sia soltanto un’approssimazione rozza del vero, valida entro parametri limitati, come l’universo-orologio concepito dal meccanicismo di Cartesio e Newton. Nel mondo reale, al di fuori della scala limitata offerta dai nostri sensi e dai processi razionali e istintivi, non ci sono certezze, ma soltanto probabilità. Il tempo non è lineare, ma si ramifica, torna su se stesso, scorre al contrario. E, soprattutto, la percezione non è un puro atto di registrazione dell’esistente, ma ciò che in effetti determina il piano di realtà sul quale stiamo agendo. I fenomeni si definiscono e completano in quanto li percepiamo, altrimenti rimangono in uno stato d’indeterminazione probabilistica – non-vivi e non-morti, come il gatto di Schroedinger.

Quanto questo rivaluti la coscienza e lo spirito nei confronti del puro materialismo è difficile da esprimere. Gli scienziati di vecchia formazione, concettualmente inadeguati ad affrontare in modo consapevole questo stato di cose, continuano ad elaborare il tutto in formule che si basano sui soliti modelli, tagliandone via le variabili di cui non sanno come tenere conto. I filosofi, digiuni di matematiche e intrisi di ottocentesco razionalismo, percepiscono tuttavia che qualcosa sta cambiando e, incapaci per difetto d’ingegno di afferrare il nuovo, ricorrono ad architetture “deboli” per mascherare un’inettitudine ad affrontare la rivoluzione in atto. I letterati, digiuni di tutto fuorché del proprio ego, non hanno ancora capito nulla di quel che sta succedendo e hanno ridotto la narrativa moderna a pamphlet politico o a catena di montaggio per esercizi d’evasione, quando non a pratica psico-masturbatoria.

Lovecraft invece intuì l’isolamento del pensiero contemporaneo in un mare di enigmi e ne conseguì un lacerante brivido di paura. I suoi incubi sono un riflesso di quest’angoscia, ma hanno aperto una strada sulla quale finora nessuno, nel mondo della cultura, ha avuto il coraggio d’incamminarsi. Per questo non ha avuto eredi: è unico e, temo, resterà tale ancora a lungo.

Consapevolmente o meno, Lovecraft evocò il Necronomicon, il libro maledetto la cui lettura ingenera follia. Un simbolo quanto mai evidente: chi voglia infatti affrontare, con spirito scevro da pregiudizi, le contraddizioni di fronte alle quali ci ha posto la scienza contemporanea deve abbandonare completamente gli schemi di pensiero consueti, lasciarsi alle spalle ogni razionalità, ogni paradigma logico e determinismo. Di fatto deve diventare, agli occhi di chi continua a pensare nel solito modo, come un folle prigioniero delle proprie visioni. Soltanto così potrà aprire le misteriose «duecentotrentuno porte» invocate dai kabbalisti, per affacciarsi su una realtà ulteriore (o un numero infinito di realtà) che non è detto debba per forza piacere. Tuttavia, per fare questo ci vuole un coraggio sovrumano: attributo, ancora una volta, dei folli.

12 commenti su “Lovecraft, o l’inconsistenza del reale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *