Il “Fuoco celeste”: Kronos, Fetonte, Prometeo

di Andrea Casella
copertina: Jean Delville, Prometheus, 1907)

[Segue da Il significato astronomico dell’Età dell’Oro: Astrea e la “caduta” di Fetonte]

In una preghiera nuziale mongola si afferma che: “Nacque il Fuoco, quando Cielo e Terra si separarono”: dunque, prima che l’equatore celeste (padre Cielo) e l’eclittica (madre Terra) si allontanassero (ossia fosse registrato l’angolo di inclinazione di 23° circa dell’eclittica rispetto all’equatore), il “Fuoco” non esisteva. All’inizio, la Via Lattea univa cielo, terra e mondo dei morti: la parte meridionale della Galassia, in corrispondenza di Scorpione e Sagittario, è, per numerose tradizioni, il luogo deputato alla raccolta delle anime in attesa di reincarnarsi.

Così Platone in Repubblica:

“Tutti i gruppi di anime, dopo aver trascorso sette giorni nel prato, all’ottavo dovevano alzarsi e partire da lì, per giungere dopo quattro giorni in un luogo da dove scorgevano, distesa dall’alto lungo tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno, ma più splendente e più pura. Dopo un giorno di cammino arrivavano lì e vedevano al centro della luce le estremità delle catene che pendevano dal cielo; questa luce infatti teneva unito il cielo e ne abbracciava l’intera orbita come i canapi che fasciano la chiglia di una trireme.

Quest’ultima potrebbe essere una velata allusione, nel solito linguaggio immaginifico e reticente di Platone, al fatto che la Galassia meridionale passi attraverso le costellazioni della Carena, della Poppa e della Vela, che insieme formano la nave di Argo, il cui timone è Canopo [1].

Segnaliamo invece che Santillana e Dechend riconnettono l’immagine all’etere che, secondo il pitagorico Filolao, il quale lo chiama “il Tutto”, è la “nave da carico della sfera”: la Via Lattea allora fascerebbe questa “nave da carico”, avvolgendo il firmamento tutto all’intorno]. Quando, però, il coluro equinoziale si spostò da essa, ecco che il “Fuoco” arse la terra separandola dal cielo e dalla terra dei morti.  Allora furono fondati il Cielo e la Terra: il Tempo iniziava a scorrere. Solo Kronos aveva potuto regnare contemporaneamente sui tre mondi [cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”].

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Una mappa del firmamento: la “nave da carico della sfera”, secondo Filolao, fasciata dalla Via Lattea.

È il caso di rimarcare che il Kronos a cui si è accennato non è solo un’icona ancestrale o poco più che un riferimento simbolico: egli è a tutti gli effetti Kronos-Saturno, potenza astrale e anima del settimo pianeta. Un collegamento tra l’Età dell’Oro e il pianeta Saturno si rinviene nella scansione settuplice della storia mitica dei Persiani. Nel Bahman-yast  (I, 3) è descritto un albero cosmico a sette bracci (d’oro, d’argento, di bronzo, di rame, di stagno, d’acciaio e di un “miscuglio di ferro”), simboleggiante la successione delle età mitiche sotto l’egida dei sette pianeti, chiaro risultato dell’influsso dell’astrologia babilonese [cfr. Tempo ciclico e tempo lineare: Kronos/Shiva, il «Tempo che tutto divora»].

La tradizione dice che Zeus, dopo aver fulminato Fetonte lo catasterizzò (cioè lo trasformò in una costellazione, come spesso, peraltro, gli capitava di fare) e con lui anche Eridano. Il primo, nel cielo boreale, divenne la costellazione dell’Auriga, l’altro, nel cielo australe, divenne Eridano (che “sgorga” dal piede di Orione, ossia Rigel [in arabo, appunto, “piede”]). Tutte queste stelle si trovano sullo stessa mediana che contiene anche il Toro, nuovo punto equinoziale dopo la fine dell’Età dei Gemelli. Come già accennato, quando la precessione modifica lo skhamba-sfera-armillare-cosmico, tutti punti di riferimento devono spostarsi [cfr. Simbolismo stellare e simbolismo solare].

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Jacopo Tintoretto, “La caduta di Fetonte”.

A Eridano è associata la stella Canopo (α Carinae), poiché essa si trova ad essere il remo-timone di Argo, la nave (fatta col legno della quercia di Dodona [ancora alberi e acque, verrebbe da dire], sacra a Zeus) che, secondo Apollonio Rodio, solcò le acque dell’Eridano. Qui gli Argonauti poterono ancora avvertire la puzza di bruciato del corpo di Fetonte combusto dal fulmine. Non bastasse, Canopo è anche il contrappunto celeste di Eridu, ossia la sede del dio sumero-babilonese, Enki-Ea [cfr. Divinità del Mondo Infero, dell’Aldilà e dei Misteri]. Ed è particolarmente interessante che Enki-Ea sia definito “Signore dell’Abisso” o, più precisamente, (Ananda K. Coomaraswamy, Khwāja Khadir e la fonte della vita, nella tradizione dell’arte persiana e moghul) “Signore della Profondità Acquea”.

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Canopo è la stella più brillante dell’emisfero australe, ossia dell’emisfero delle acque. In questa sede si trovano tanto gli inferi quanto i (diciamo così) Campi Elisi, e non possiamo non notare che Zeus trasformò le sorelle di Fetonte, abbandonatesi ad un pianto funebre inconsolabile, in pioppi, ponendoli lungo il fiume Eridano, la cui omonima costellazione, effettivamente, assomiglia a un lungo fiume. In svariati frammenti orfici si fa riferimento a due pioppi, uno di colore bianco, uno di colore nero, all’ingresso dell’Ade, e a due fonti, a una delle quale non ci si deve assolutamente dissetare. Graves (I miti greci, cap. 31) riporta che l’ingresso del Tartaro si trova in un bosco di bianchi pioppi presso il fiume Oceano.

Ora, come già accennato, “Oceano” (di cui lo Stige non sarebbe che un ramo, “la decima parte”, secondo Esiodo), secondo i Catasterismi di Eratostene, è anche un altro nome di Eridano. In questa regione sarebbero stati precipitati da Zeus i Titani insieme a Kronos, il mitico sovrano decaduto dell’Età dell’Oro. Secondo la versione di Plutarco (De facie in orbe lunae), Kronos sarebbe caduto in un sonno invincibile “in una caverna profonda dentro una roccia color dell’oro” posta su un’isola chiamata Ogigia [cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”]. Ωγύγιος, “ogigio”, è un epiteto classico del fiume Stige (cfr. l’espressione esiodea Στυγός ύδωρ ωγύγιον, resa come “l’acqua primordiale dello Stige”in Vocabolario Greco – Italiano, Loescher 2003, p. 2282). Pierre Grimal (cfr. Enciclopedia dei miti, Garzanti, 1990 p. 579), basandosi sulla versione esiodea, alla voce  “Stige”, riporta:

“Allorché un dio voleva legarsi con un giuramento, Zeus invitava Iride ad attingere una brocca d’acqua dello Stige e la riportava sull’Olimpo, affinché fosse ‘testimone’ del giuramento. Se il dio in seguito non manteneva il giuramento, lo attendeva un castigo terribile. Restava privo di respiro [κώμα] per un anno intero e non avvicinava alle labbra né ambrosia né nettare. In capo a quell’anno, gli era imposta un’altra prova. Per nove anni, era tenuto segregato dagli dei sempre viventi e non partecipava né ai loro consigli né ai loro festini. Rientrava in possesso delle proprie prerogative soltanto il decimo anno. Questa descrizione degli effetti dello spergiuro […] offre inoltre particolari sulla natura di quest’acqua fatale. Consiste, ci dicono, in un braccio dell’Oceano, esattamente la decima parte del fiume iniziale, e forma con gli altri nove le nove spire con cui il fiume circonda il disco della terra. Questa cifra di nove spire si ritrova nella descrizione virgiliana dello Stige infernale, il quale circonda con i suoi meandri il regno degli Inferi”.

L’autore non intuisce la portata di queste notizie, ma noi possiamo tentare una conclusione. Cos’è dunque Oceano e cos’è Stige? Di sicuro sono degli asterismi del cielo meridionale, e non dei fiumi ordinari. Come abbiamo accennato nella terza parte, l’acqua dello Stige, che induce negli dei un deliquio simile alla morte (κώμα), rivela insospettabili collegamenti con l’Haoma avestico. Da notare che gli antichi Cinesi e gli Aztechi credevano pure ad un inferno attraversato da nove corsi d’acqua.

In Ogigia, Kronos riposerebbe fino ad una sua prossima venuta, ma, nonostante sia addormentato, continua a distribuire le “misure” al figlio Zeus, un altro che, secondo Eschilo (Prometeo incatenato), presto o tardi dovrà essere sbalzato via dal trono celeste [2]. Secondo una tradizione, definita “oscura” da Pierre Grimal (cfr. Enciclopedia dei miti cit. p. 455), Ogigo (Ώγυγος) era anche il nome attribuito al “re dei Titani”, il quale fu vinto da Zeus contemporaneamente ai suoi sudditi.

Tutti questi catasterismi hanno un significato, poiché da un certo punto in avanti la Galassia non poté più fungere da “via aperta” che collegava la terra al cielo e agli inferi: a causa della precessione degli equinozi, il coluro equinoziale si era spostato tanto da essere ormai scollegato da quell’antico asse visibile [cfr. Il tempo ciclico e il suo significato mitologico: la precessione degli equinozi e il tetramorfo]. Le porte si erano chiuse, così come riecheggia il frammento norreno riferito all’ira di Fenrir, che abbiamo citato: anche lì gli gnomi non trovano più le porte per le loro dimore sotterranee. Fu allora compito dell’Auriga, a nord, e di Eridano, a sud, ereditare l’antica funzione connettiva della Via Lattea. Tale funzione, tuttavia, poté essere svolta solo a “intermittenza”, poiché da quel tempo in poi l’entrata ai cieli se ne stava come sospesa per aria, mentre l’entrata per il regno dei morti si era spostata “sotto il mare”.

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Santillana e Dechend (Il mulino di Amleto, pp. 304 – 305) individuano il motivo mitologico dello spostamento del coluro equinoziale sull’asse Auriga-Eridano in due frammenti orfici, tramandati da Proclo. Il primo dice che Demetra separò il cibo degli dei, dividendolo in una parte solida e una liquida, il nettare e l’ambrosia. Il secondo dichiara che, dopo aver dato alla luce Zeus, Rea divenne Demetra. Ora, la stella principale della costellazione dell’Auriga è Capella (α Aurigae), la Capretta. Essa raffigura Amaltea, la capra che fu nutrice di Zeus, nascosto da Rea nella grotta del monte Ida, lontano dallo sguardo di Kronos. Il corno di Capella/Amaltea, che Zeus infante le spezzò giocando, era per gli immortali la Cornucopia, la fonte del nettare e dell’ambrosia. Sembra abbastanza possibile, perciò, ipotizzare che l’avvento di Demetra (ex Rea), con la sua separazione del cibo divino, si riferisca al decisivo spostamento del coluro equinoziale sull’asse celeste di Capella.

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Prometeo tormentato dall’aquila, detta da Eschilo “cane di Zeus”.

Per stabilire questo nuovo skhamba era necessario procurarsi le “misure”, o il “fuoco”. Quando il coluro “visibile” si spostò dalla Via Lattea, alla fine dell’Età dell’Oro, bisognò andare in cerca degli strumenti per individuarne la nuova posizione. Secondo la tradizione sumerica fu Gilgamesh a trarre i me (le misure) da Eridu/Canopo, mentre il mito greco assegna il compito di rubare il fuoco a Prometeo (il Pramantha indù). Ora, secondo la tradizione, questo Titano passa per essere anche l’inventore dei numeri. Ma se la nozione del numero discende dal cielo, come abbiamo illustrato all’inizio, è ben facile intuire dove tutto questo conduca.

Prometeo si recò nella “sede del Ṛta”, Eridu/Canopo, e ne trasse il “fuoco”, le coordinate di longitudine del nuovo skhamba, facendone dono agli uomini. In un inno orfico Prometeo è chiamato, espressamente, Kronos. E ciò è comprensibile, se la sede del Ṛta è il polo meridionale dell’eclittica, “sede d’immortalità” [cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”] sottraentesi al moto precessionale e che dunque può essere presa come sicuro punto di riferimento per lo stabilimento delle mutate coordinate celesti dello skhamba-sfera-armillare-cosmico. Il mito dice che Prometeo nascose il fuoco dentro una canna. Analogamente, si dice che Tezcatlipoca trivellò il fuoco nel cielo nell’anno “2acatl”, cioè “2canne”. Rimarchevole, poi, che la parola sumerica per “canna” sia gi, “bruciare” e Gibil (che “crebbe nel puro apsu”, ossia nell’abisso) sia il dio del Fuoco.

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La frullatura (o zangolatura) dell’Oceano di Latte, operata dai Deva e dagli Asura tramite il serpente Vasuki intorno al monte Meru.

L’inclinazione dell’eclittica rispetto all’equatore celeste è invece riecheggiata in India dall’episodio della “Zangolatura dell’Oceano di Latte”, effettuata per ottenere l’amrita (l’ambrosia indù). Le due forze contrarie che permettono di girare la zangola (l’equatore celeste e l’eclittica) sono rappresentate, rispettivamente, dai Deva (i celesti) e dagli Asura (esseri un tempo buoni, poi diventati demoni). In diversi fregi egizi si possono osservare scene assai simili, dove Horus e Set (il dio celeste e il demone dalla testa asinina, come gli Asura) sono intenti a “trapanare” un arnese agricolo o a girare una zangola.

Tifone/Set, la cui anima era detta “Orsa” dagli Egizi, rappresenta un aspetto dell’estrema mobilità dell’eclittica e si ricollega alla denominazione che i Pitagorici davano alle due Orse, e cioè “Mani di Rea”, le due vere e proprie maniglie che fanno girare la sfera del firmamento. Rispetto a Osiride (o la sua ipostasi, Horus), Set rappresenta l’azione della forza contraria dell’eclittica necessaria per far girare la ruota. Da questo momento in poi non ci sarà più unione del cielo e della terra, ma ognuno proseguirà di moto proprio (per la verità l’equatore è fisso, mentre l’eclittica è mobile), e la reciproca inclinazione sarà causa dello scaturire del fiume del tempo. L’Età dell’Oro finisce in questo momento. 

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Horus e Set “trapanano” con l’ausilio di uno strumento simile a una zangola. Gesto analogo alla “frullatura dell’Oceano di Latte”.

Note:

  1. Scrive Plutarco (Iside e Osiride par. 22): “Inoltre [gli egizi] chiamano Osiride capo di eserciti, e timoniere Canopo, che si trasformò, dicono, nella stella che porta il suo nome. La nave che i Greci chiamano Argo viene considerata come immagine della nave di Osiride, e posta fra le costellazioni in suo onore. Il suo percorso è poco distante da quello di Orione e da quello del Cane, che gli Egiziani ritengono rispettivamente sacri a Horus e a Iside”. Non bisognerebbe dare eccessivo peso al fatto che qui Orione sia identificato con Horus, anziché con Osiride. Horus non è che un’ipostasi di Osiride.
  2. A nulla valgono le torture inflitte a Prometeo (il Titano dietro la cui maschera tragica si cela lo stesso Kronos) per indurlo a confessare la profezia che si ritiene dentro sulla futura fine del regno di Zeus. Sprezzante, Prometeo dichiara di essere disposto a morire, piuttosto che rivelarla a colui che gli ha riservato un sì atroce destino sulla vetta del Caucaso (e per cosa? Per aver rubato, guarda caso, il “fuoco”). In epilogo, Prometeo finisce sepolto sotto il crollo della montagna provocato da Zeus. Ma cos’è, poi, questo Caucaso? La montagna che gli rovina addosso appare un’altra versione  dell’operazione di “esiodintartaramento” di Kronos. Alcuni versi prima, Ermes, inviato celeste, avvisa Prometeo che la sua ostinazione gli costerà cara. Gli predice che verrà sepolto sotto la montagna e che le sue membra giaceranno così per un numero indeterminato di ere, fino a quando Zeus non lo avrà resuscitato e gli avrà posto al fianco un’aquila (definita “cane di Zeus”) che gli divorerà il fegato: e questo “inferno” non avrà mai fine “se alcun dei Numi non si mostri e assuma / le pene tue, che al cieco Ade, e del Tartaro / nei tenebrosi abissi elegga scendere”. Sconcertante e vertiginoso cambio di set, a dir poco. D’altro canto, alla fine, la profezia “muore” con Prometeo, che finisce effettivamente investito dalla frana, con un’immagine tagliente e senza appello che rievoca l’“in fin che il mar fu sovra noi richiuso” dell’ultimo verso del canto dantesco dedicato al “prometeico” Ulisse. Ad ogni modo, che anche Zeus fosse sottoposto a uno scadenzario ci giunge indirettamente da Pitagora (cfr. Porfirio, Vita di Pitagora par. 17): “Messo piede a Creta, frequentò gli iniziati di Morgo, uno dei Dattili del monte Ida, dai quali fu anche purificato con la pietra del fulmine [?], all’aurora steso bocconi presso il mare, di notte incoronato presso un fiume con i velli di un montone nero. Disceso nella grotta detta Idea con lana nera, rimase lì tre volte i nove giorni prescritti e sacrificò a Zeus e vide il trono cosparso ogni anno di foglie in suo onore ed incise sulla tomba un epigramma intitolandolo ‘Pitagora a Zeus’, il cui inizio dice: ‘Qui giace morto Zas, che di solito chiamano Zeus’”. Dunque anche Zeus (lo Zas di Ferecide) era già trapassato, ai tempi di Pitagora? La profezia di Prometeo aveva un senso cosmologico? Olimpiodoro (Commento al Fedone, 61 c) ci ha lasciato una notizia orfica secondo cui i tempi presenti sarebbero posti sotto l’impero di Dioniso. Dioniso sarebbe infatti il reggitore dell’ultima era, dopo Urano, Kronos (Olimpiodoro scrive proprio Chronos) e Zeus. È forte il sospetto che Urano, Kronos, Zeus e Dioniso non siano altri che il cielo, o ciascuno un aspetto del cielo in funzione del volgere delle ere astrologiche, a partire dall’Età dell’Oro.

Bibliografia:

  • Ananda K. Coomaraswamy: Khwāja Khadir e la fonte della vita, nella tradizione dell’arte persiana e moghul, in What is Civilization and other essays, Golgonooza Press 1989
  • Eschilo: Prometeo incatenato, BUR 2004
  • Robert Graves: I miti greci, Longanesi 1963
  • Pierre Grimal: Enciclopedia dei miti, Garzanti 1990
  • Alessandro Lami (a cura di): I Presocratici, BUR 2016
  • Platone: Timeo, BUR 2014
  • Plutarco: Iside e Osiride, Adelphi 1985
  • Porfirio: Vita di Pitagora, Rusconi 1998
  • Giorgio de Santillana: Fato antico e fato moderno, Adelphi 1985
  • Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend: Il mulino di Amleto, Adelphi 2003