Jack Fiddler, l’ultimo cacciatore di Wendigo

(articolo di Gian Mario Mollar, originariamente pubblicato su FarWest)

Il suo nome Ojibwa era Zhauwuno-Geezhigo-Gaubow, «Colui che si staglia contro il cielo del sud», e, nel dialetto Cree, Maisaninnine o Mesnawetheno, «Uomo di stile», ma gli uomini bianchi della Hudson Bay Company lo soprannominarono Jack Fiddler. Nato tra il 1830 e il 1840 nella terra selvaggia e rigogliosa a nord ovest del Lago Ontario, figlio di un rispettato e temuto sciamano, divenne a sua volta capo e sciamano della tribù dei Sucker di Sandy Lake. Ai tempi della sua infanzia, la regione era spoglia di animali e di uomini, in quanto la Hudson Bay Company, dedita al Commercio di pellicce, aveva ormai abbandonato l’avamposto dopo anni di caccia intensiva e indiscriminata che avevano impoverito il territorio. La tribù dei Sucker fu così costretta a spostarsi più a sud, al Big Trout Lake, per commerciare e il giovane Zhauwuno-Geezhigo-Gaubow lavorò per qualche tempo come battelliere, per trasportare le pellicce alla York Factory. 

Robert Fiddler, figlio di Jack.

Il disinteresse per quelle terre fu soltanto temporaneo: verso il 1860, il numero di animali da pelliccia aumentò nuovamente, e con essi ritornò la Company, che riaprì il trading post sull’Island Lake. La tribù dei Sucker, pur avendo rapporti con le tribù vicine dei Pelican e degli Sturgeons, viveva piuttosto isolata rispetto alla civiltà occidentale, ma egli, di tanto in tanto, andava all’avamposto per commerciare pellicce e, nel corso di queste sporadiche visite, probabilmente si guadagnò il soprannome di Fiddler, «violinista». Crescendo, Jack sposò cinque mogli, che gli diedero otto figli e cinque figlie. La poligamia, più che dettata da istinti sfrenati come si credeva all’epoca, era per quelle tribù una necessità, in quanto per i maschi la morte violenta o dovuta a incidenti nella foresta non era un caso infrequente. Come suo padre prima di lui, Jack Fiddler era noto per le sue doti sciamaniche: aveva visioni, curava i malati, sapeva come lanciare maledizioni o proteggere dai malefici, ma, soprattutto, era capace di affrontare il temibile Wendigo.

Il Wendigo

Che cos’è un Wendigo (o Windigo, Weteko, Weetiko, a seconda dei dialetti)? Dopo millenni trascorsi nella foresta, la mitologia algonchina personifica la brutalità della natura in un mostro tremendo, dal corpo scheletrico, con grandi artigli e zanne affilate. Lo scrittore e insegnante Ojibwai Basil Johnston ce ne fornisce una descrizione piuttosto raccapricciante:

« Il Wendigo era magro al punto da essere macilento, la sua pelle secca sembrava tesa sopra le ossa. Con le ossa che sporgevano dalla pelle, il colorito cinereo e i suo occhi profondamente incassati nelle orbite, il Wendigo appariva come un cadavere ossuto appena dissotterrato dalla tomba. Quello che rimaneva delle sue labbra era sbrindellato e sanguinante […] Sporco e con la carne purulenta, il Wendigo emanava uno strano e repellente odore di decadenza e decomposizione, di morte e corruzione. »

In altri racconti, il Wendigo viene descritto come un gigante ricoperto di peli e dotato di una grande forza e, in altri ancora, a queste caratteristiche umanoidi si aggiungono un cranio e delle corna da cervo. In ogni caso, il Wendigo è associato all’inverno, al gelo e alla fame. Ha il cuore di ghiaccio e una fame insaziabile, che non si estingue se non con il consumo di carne umana [cfr. La psicosi nella visione sciamanica degli Algonchini: Il Windigo]. Il Wendigo è un cacciatore eccezionale, che non abbandona le sue prede né durante il giorno, né durante la notte. Si muove velocemente, tanto da consumarsi i piedi per l’attrito con il terreno, che poi cadono e rispuntano spontaneamente.

Ma il Wendigo è più di questo: Algernon Blackwood, in un suo magistrale e agghiacciante racconto gotico, lo descrive come «la personificazione del Richiamo della Foresta, che alcune nature avvertono al punto da venirne distrutte». In quanto tale, si configura come spirito maligno che possiede gli esseri umani, soprattutto quando rimangono soli nel buio degli alberi, nel «desolato splendore di foreste remote e solitarie», privi di cibo e disperati, impotenti di fronte alla violenza di una natura che li soverchia. Il desiderio di carne umana è, in quei casi, la sola alternativa a una morte certa ed è proprio l’atto cannibalico a dare inizio alla metamorfosi in mostro.

Anche all’interno della tribù, tuttavia, gli individui possono venire colpiti dalla psicosi demoniaca. I sintomi sono dapprima striscianti: l’individuo colpito diventa gradualmente incapace di svolgere i propri compiti tribali, si isola, perde appetito e interesse per gli altri, al punto da desiderare di allontanarsi o di venire allontanato o ucciso. Gradualmente, il posseduto sviluppa gli stessi sintomi del manitu, o spirito, che lo possiede, il suo cuore diventa di ghiaccio e i piedi incandescenti, e la fame della carne dei suoi simili diventa incontenibile. Quando la trasformazione avviene, la sua forza e crudeltà saranno tali da mettere in pericolo l’intera tribù.

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Nelle Relations des Jésuites de la Nouvelle-France, redatte dai missionari Gesuiti nella seconda metà del 1600, c’è un paragrafo che descrive molto bene questa psicosi dilagante tra gli Algonchini:

« Questi poveri uomini (stando a quanto ci hanno riferito) sono stati colpiti da una malattia a noi sconosciuta, ma non molto inusuale tra la gente che stavamo cercando. Non sono affetti da lunatismo [termine arcaico per depressione], ipocondria o frenesia; ma hanno piuttosto una combinazione di tutte queste specie di malattie, che colpisce la loro immaginazione e causa in loro una fame più che canina. Ciò li rende così famelici di carne umana da lanciarsi su donne, bambini, e anche sugli uomini, come dei veri lupi mannari, e da divorarli con voracità, senza riuscire a calmare o saziare il loro appetito – sono sempre in cerca di nuove prede, e più mangiano più diventano affamati. Questa malattia aveva attaccato i nostri delegati; e, dal momento che la morte è tra queste genti il solo rimedio per interrompere tali omicidi, essi furono uccisi per arrestare il corso della loro pazzia. »

È interessante notare come il fenomeno non riguardasse solamente tribù prive di contatti con i bianchi, ma anche nativi più integrati con la cultura occidentale. Nell’inverno del 1878, ad esempio, divenne tristemente noto il caso di un trapper di Alberta, di origini Cree, Corridore Veloce, che, rimasto isolato in una baracca, macellò e mangiò la moglie e cinque figli, sebbene le riserve di emergenza fossero raggiungibili piuttosto facilmente. Lo sventurato finì poi per confessare le sue colpe e venne giustiziato a Fort Saskatchewan. Generalmente, gli individui colpiti dal disturbo sono particolarmente avidi, o ingordi: il Wendigo rappresenta anche questa brama incontrollata, e non è un caso che i nativi, nel descrivere l’atteggiamento predatorio degli uomini bianchi nelle loro terre, ricorrano spesso a questa metafora.

A ben vedere, quindi, il Wendigo non è semplicemente un mostro, ma è anche una parola che riassume sia la causa che l’effetto, sia il morbo che la persona da esso affetta. Come interpretare, quindi, questa figura misteriosa? Un criptozoologo potrebbe immaginare un essere tangibile, e dilettarsi nel riscontrare analogie con altri esseri irsuti avvistati nelle foreste americane, come il Big Foot o il Sasquatch, anche se a questi ultimi manca la malvagità e la spietatezza del Wendigo. Allargando il campo, si trovano figure simili in molte culture indoeuropee, come il dio Cernunnus adorato dai druidi celtici [cfr. Cernunno, Odino, Dioniso e altre divinità del ‘Sole invernale’], il Pan degli antichi Greci, il Krampus del Trentino [cfr. Da Pan al Diavolo: la ‘demonizzazione’ e la rimozione degli antichi culti europei]. Tutte queste figure fanno capo all’archetipo dell’homo selvaticus, il selvaggio che abita nei boschi, ma, per quanto non prive di aspetti inquietanti, sono ancora lontane dalla furia cannibale che connota il Wendigo.

La ricerca si fa più interessante se identifichiamo il Wendigo con una sorta di possessione, che pervade menti rese sensibili da condizioni esterne, come l’isolamento e la fame, non rare per un popolo di cacciatori-raccoglitori, o da una disposizione interiore. Anche in questo caso, i parallelismi con altre culture sono molti, ma si fanno più stringenti. Basti a pensare ai vampiri, che condividono con il mostro dal cuore di ghiaccio l’inestinguibile sete di sangue umano, o ai licantropi, che ne ricordano la bestialità e l’incontrollabile voracità, con tutta la pletora di esseri folklorici ad essi correlati, come, ad esempio i furenti guerrieri Berserker della mitologia nordica [cfr. Metamorfosi e battaglie rituali nel mito e nel folklore delle popolazioni eurasiatiche]. Un’altra pista interpretativa altrettanto interessante può essere quella psicologica. A ben vedere, infatti, il «cuore di ghiaccio» del Wendigo è una metafora che descrive alla perfezione molti aspetti – escluso il cannibalismo, ovviamente – della depressione: un senso di apatia, di estraniamento dalla vita sociale del gruppo che si esprime nell’incapacità di nutrirsi e di dormire, che colpisce indistintamente gli uomini e le donne.

L’ultimo cacciatore di Wendigo

Ora che l’ombra del Wendigo si è profilata con più chiarezza, torniamo alla storia di Jack Fiddler. Nell’arco della sua vita, lo stregone e capo Sucker uccise ben quattordici wendigo. A quanto si diceva, alcuni venivano mandati contro la sua tribù da sciamani ostili, altri si manifestavano all’interno della tribù, sviluppando all’improvviso un’incurabile e totalizzante desiderio di carne umana. Tra gli Assiniboine, i Cree e gli Ojibwa esiste una danza satirica e apotropaica, eseguendo la quale si esorcizza la paura del contagio e, al contempo, si riafferma la serietà di questa tabù. Tuttavia, quando il contagio si era impossessato di un individuo, era troppo tardi per ricorrere alla danza o ad altre cure: occorreva agire prima che l’individuo si trasformasse completamente nell’essere che lo possedeva, perché a quel punto sarebbe stato molto più difficile contrastarlo.

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In alcuni casi, erano gli stessi malati a chiedere di venire uccisi, in altri erano le loro famiglie a farlo, ma sempre la decisione finale spettava al consiglio degli Elders, gli Anziani, che si consultavano con Jack Fiddler per stabilire il da farsi. Considerata al di fuori del pensiero magico e tribale, quella dell’uccisione del Wendigo appare una pratica eutanasica brutale e spietata. Bisogna considerare, però, che si trattava di un male per cui non esistevano rimedi e che lo sciamano, sopprimendo il malato, non solo mirava a risparmiare ulteriori sofferenze all’individuo, ma agiva nell’interesse del bene pubblico, mirando ad escludere il propagarsi di un contagio all’interno della comunità. Il malato, in genere, veniva strangolato e il suo corpo bruciato per evitare che altri ne rimanessero contagiati. Sconfiggere un Wendigo dopo la trasformazione, invece, implicava rischi ben maggiori: occorreva combatterlo con il fuoco, per cercare di sciogliere il suo cuore di ghiaccio, oppure trafiggere il cuore stesso con una lancia.

Jack Fiddler praticò questo tipo di rito molte volte, e, in alcuni casi, non dovette essere facile per lui: durante una spedizione per commerciare pellicce, dovette uccidere il suo stesso fratello Peter Flett e, nel 1906, quando era ormai anziano, fu la volta di Wahsakapeequay, sua nuora. La giovane donna era in condizioni psicofisiche disperate, e così Jack e suo fratello Joseph, dopo essersi consultati con gli anziani, decisero di ricorrere al rimedio estremo, strangolandola. Nel 1907, la comunità dei Sucker ricevette la visita di due Mounties, le famose «Giacche Rosse» della Mounted Police canadese. Con ogni probabilità, non si trattava di una visita casuale, in quanto il Canada stava cercando nell’estremo Nord delle nuove terre per i coloni. I due Mounties avevano appreso da Norman (Owl) Rae, un parente acquisito dei Fiddler, la notizia dello strangolamento rituale ed erano accorsi per far rispettare la legge. Poco importava che, per molti dei Sucker, loro due fossero i primi uomini bianchi mai incontrati: i due fratelli vennero arrestati e detenuti a Norway House in attesa di giudizio. Non solo, prima di abbandonare il villaggio, i due solerti tutori dell’ordine dichiararono che gli uomini dovevano abbandonare la poligamia, rinunciando alle mogli “in più”. Nel mese di agosto, la notizia cominciò a comparire sui giornali, con titoli sensazionalistici, che parlavano di costumi selvaggi e di adorazione del diavolo: il Toronto Globe, ad esempio, annunciava «Atti oscuri degli indiani Keewatin – Strangolano e bruciano gli amici ammalati».

Le persone più informate dei fatti, tuttavia, fecero delle considerazioni differenti. Edward Sanders, ufficiale della Royal North West Mounted Police, raccomandò di lasciar cadere il caso, perché «appare chiaro che la prova non giustifica l’incriminazione». Altri ancora, come il Sergente David Bennet Smith, posero l’accento sull’età veneranda di Jack Smith, che allora si avvicinava agli ottanta: «Jack Fiddler è molto vecchio… cade e il suo polso e battito cardiaco sono molto deboli in queste occasioni». Anche il missionario metodista Joseph Albert George Lousley notò la compostezza e la dignità dello sciamano: «Non dà il minimo segno di ostilità o di odio verso gli uomini o verso Dio, né di ribellione o incredulità, è un uomo tranquillo e pieno di dignità, che ha vissuto la sua vita con la coscienza a posto».

Malgrado queste voci fuori dal coro, i tempi e i luoghi non erano certo propizi al relativismo culturale e gli atti del processo a Jack Fiddler – che ci sono pervenuti per intero – testimoniano chiaramente questa temperie culturale. La frase che meglio riassume il concetto è quella pronunciata dal magistrato Aylesworth Bowen Perry: «nessuna credenza pagana può giustificare quello che è vietato dalla legge». Il fatto che l’imputato non fosse neanche a conoscenza della legge violata è un dettaglio secondario, da risolvere con «clemenza esecutiva» che non mina l’universalità della legge stessa. L’interrogatorio al testimone dell’accusa, Owl Rae, è particolarmente interessante da questo punto di vista:

DOMANDA: Hai sentito qualcuno opporsi all’uccisione della donna?
RISPOSTA: No.

D: Hai notizia di altri di quella tribù o nelle vicinanze che siano stati messi a morte nella stessa maniera?
R: Ho sentito dire che lo hanno fatto.

D: Sai perché lo fanno?
R: Avevano paura che, essendo ammalati, si trasformassero in cannibali, mangiatori di uomini, e che li distruggessero. Questo è il motivo per cui lo fanno.

D: Che tipo di ammalati vengono messi a morte?
R: Non lo so.

D: Come decidono quando è necessario mettere a morte una persona per una malattia?
R: Non so come viene deciso.

D: Perché non hai detto nulla quando hai visto che la stavano strangolando?
R: Avrei potuto dire qualcosa – non so che cosa dice la legge.

D: Era quindi la legge della banda che stavano applicando?
R: Quella è la legge, da quello che ho sentito.

D: Da chi l’hai sentito?
R: Non so – lo dicono tutti.

D: È un argomento di conversazione comune tra le tribù?
R: Sì.

D: Sai qualcosa delle leggi dell’uomo bianco?
R: No.

D: Ti hanno mai insegnato a distinguere tra cos’è giusto e cos’è sbagliato?
R: No, non mi hanno mai insegnato.

D: Hai mai visto un uomo bianco prima di questa volta, in cui sei venuto a Norway House?
R: Ho visto qualche volta un uomo bianco che veniva a Island Lake.

D: Nessuno di questi uomini bianchi ti ha mai parlato del bene e del male, o te l’ha fatto tradurre?
R: No, non gli ho proprio parlato per niente.

D: Non gli hai mai parlato di nient’altro?
R: No.

D: Hai mai ascoltato un missionario o parlato con uno di loro?
R: Una volta ho visto un missionario a Sandy Lake.

D: L’hai sentito parlare o hai ascoltato quello che diceva?
R: Sì.

D: Stava parlando alla tribù dei Sucker o a quella di Crane?
R: Non me lo ricordo. Ho visto un missionario ma non so a che tribù stesse parlando.

D: Non sai chi c’era là?
R: C’era un sacco di gente là.

D: C’erano anche il prigioniero, oppure il capo della tribù dei Sucker?
R: Non so. Mi ricordo appena. Non so se erano lì oppure no.

D: Hai affermato che il capo [Jack Fiddler] e il prigioniero Joseph erano presenti allo strangolamento. Il prigioniero ha detto qualcosa mentre al Capo oppure alla donna, mentre la stava strangolando?
R: Dopo che hanno strangolato la donna, il prigioniero e il Capo si sono messi a parlare, dicendo che avrebbero fatto quello che era giusto per la donna, e che l’avrebbero sepolta come si deve.

D: Hanno detto qualcos’altro?
R: No.

D: Hanno detto qualcosa prima di strangolarla?
R: Non li ho sentiti dire niente.

D: Hanno detto qualcosa prima di strangolarla?
R: No.

Leggendolo, si rileva non solo una precisa strategia accusatoria, ovvero quella di dimostrare che Jack e Joseph Fiddler erano consapevoli di violare la legge, ma anche una sorta di paternalistico senso di superiorità. I nativi sono considerati incapaci di distinguere tra il bene e il male, a meno che qualche bianco non si prenda la briga di venire a insegnarglielo. Jack Fiddler non arrivò mai ad essere processato. Il 30 settembre, dopo 15 settimane di reclusione, il capotribù riuscì a fuggire e si diede alla macchia. Più tardi, quello stesso giorno, lo ritrovarono impiccato a un albero. Il fratello Joseph Pesequan non ebbe un destino migliore: malgrado le molte attenuanti, venne condannato all’impiccagione. Gli appelli, basati sulla sua “ignoranza” della legge canadese e sul suo rispetto di norme tradizionali, ebbero infine buon esito, ma la notizia della commutazione della pena arrivò nel 1909, con tre giorni di ritardo rispetto alla sua morte.

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Di lì a poco, la tribù dei Sucker venne indotta a firmare trattati e ad assoggettarsi alla legge canadese. Il figlio di Jack, Robert Fiddler, gli successe alla guida della tribù e si insediò con essa a Deer Lake e, in seguito, a Sandy Lake. Il fenomeno Wendigo andò sempre più scemando con il progredire del XX secolo, probabilmente a causa dei contatti sempre più frequenti con le comunità bianche e con la progressiva perdita di identità comunitaria dei nativi.

In conclusione, la vicenda di Jack Fiddler, oltre a contenere interessanti elementi etnografici, è la storia di un confronto (e, purtroppo, di uno scontro e di una sopraffazione) tra culture radicalmente diverse. La cultura “bianca” si sentiva non solo in diritto, ma addirittura in dovere di emendare i comportamenti “selvaggi” dei nativi, come se si trattasse di una missione, il «fardello dell’uomo bianco» di cui parlava Rudyard Kipling. Dietro al confronto filosofico-religioso, tuttavia, si celavano interessi ben più prosaici, quali lo sfruttamento della terra e delle sue risorse. Per quanto oscuro e semi-dimenticato dalle cronache ufficiali, questo episodio ci mette davanti problemi di ben più ampia portata e di scottante attualità.


Saggi


Letteratura

  • Algernon Blackwood, The Wendigo, 1910, in Collected Works, E-artnow, 2015
  • Gianfranco Manfredi – Pasquale Frisenda, Windigo, Magico Vento n. 8, Bonelli Editore, 1998
  • Adam Nevill, The Ritual, Pan Books, 2011

Cinema

  • Antonia Bird, L’insaziabile, 1999
  • Larry Fessenden, Wendigo, 2001
  • Jack Heller, Dark was the night, 2014

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