Edgar Allan Poe e la critica del reale nelle farse umoristiche

L’anniversario della nascita del Maestro del Terrore ci dà modo di analizzare la sua visione beffarda del “reale”, del mondo e del passato in una branca quasi sconosciuta della sua opera


Il 19 gennaio del 1809 nasceva a Boston Edgar Allan Poe. In occasione del 209esimo anniversario della sua nascita, pubblichiamo questo contributo di Andrea Casella incentrato prevalentemente su alcuni suoi racconti meno conosciuti che, a differenza di altri ben più noti e “classici”, si presentano nella veste di “farse umoristiche”. M.M.


Tutti conoscono Edgar Allan Poe, anche chi non ha mai letto nulla di lui, dice J. Cortàzar, ed è vero: Poe è la prima vera icona pop della letteratura mondiale. Del resto, anche chi ha letto la sua opera non è andato oltre le sue poesie e, soprattutto, i suoi claustrofobici racconti dell’orrore. Eppure, accanto a questi scritti ben noti, ve ne sono alcuni, quasi sconosciuti, che si presentano come delle farse umoristiche, sul modello delle sue primissime prove letterarie risalenti ai tempi della scuola e del college. Intendiamo, su tutti, racconti come Il Diavolo sul campanile, Il sistema del dottor Catrame e del Professor Piuma e Mellonta Tauta.

Il primo racconta le comiche vicende svoltesi in un villaggio olandese di fantasia chiamato Vondervotteimittis, che in olandese significherebbe, pressappoco, «Che ora è?», tanto che in epigrafe al racconto, Poe cita quello che secondo lui sarebbe un “antico detto”, e cioè: «Che ore sono?». Tali burlesche situazioni vengono originate dall’arrivo di uno strano personaggio in grado di sconvolgere, con un semplice gesto, tutta la vita perfettamente organizzata degli abitanti del borgo.

Il secondo racconto si svolge invece all’interno di un manicomio nel sud della Francia, in cui si sperimenta, a detta del direttore responsabile, un “metodo dolce” per il trattamento dei pazienti.

Il terzo, invece, è presentato da Poe come la traduzione, eseguita dal suo presunto amico Martin Van Buren Mavis (il cui nome è evidentemente ricalcato su quello del presidente degli Stati Uniti dell’epoca) di un manoscritto rinvenuto dall’autore in un recipiente a galla in mezzo al Mare Tenebrarum (un mare leggendario che Poe spesso cita nei suoi racconti), ed è il resoconto di un viaggio futuristico, ambientato nell’anno 2848 a bordo di un “pallone galleggiante”, l’Allodola.

Come accennato, i tre racconti hanno l’apparenza di racconti comici, e come tali sarebbero certamente da annoverare, da parte della critica letteraria, ma basta fermarsi un attimo a riflettere per rendersi conto della feroce critica che da essi esala; una critica che ha come bersaglio l’assetto stesso del sistema di valori dell’uomo moderno, vivente non in un mondo effettivamente solido e reale, fatto di “cose” tangibili, ma al contrario imprigionato entro un le mura evanescenti, eppure inespugnabili, di convenzioni e convinzioni prive di qualunque riscontro effettivo.

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Illustrazione per “Il Diavolo sul campanile”.

E così, Il Diavolo sul campanile si prende gioco del sistema di coordinate spazio-temporali entro i cui limiti gli uomini organizzano la propria apparenza esistenziale, che va immediatamente in pezzi non appena un grammo del caos (e quindi di ciò che sottende questa apparenza), personificato dall’omiciattolo che compare sul campanile del villaggio mettendo un’ora avanti l’orologio, si introduce in questo sistema chiuso e perfetto.

Il villaggio stesso evoca un’ideale di perfezione: nessuno ne è mai uscito, non ritenendo che potesse esistere qualcos’altro fuori di esso, è composto di sessanta casupole (un rimando al sistema sessagesimale, in uso fin dai Sumeri), di fronte ad ogni casetta c’è un orticello, con sentiero a cerchio, una meridiana ed esattamente ventiquattro cavoli, inoltre, il villaggio sorge in una valle perfettamente circolare, piatta e pavimentata di piastrelle lisce.

La vita di questo villaggio, organizzata nei minimi dettagli sulla fiducia riposta nella “onnipotenza” dell’orologio posto sul campanile del borgo, viene sconvolta dall’arrivo di uno strano nanerottolo sgraziato che, accoppando e ridicolizzando l’orologiaio sempre di guardia sul campanile (una sorta di Demiurgo), si sostituisce a questo spostando di un’ora in avanti la lancetta dell’orologio, un minuto prima dello scoccare di mezzogiorno, di modo che i cittadini non sanno più che ora è, col risultato di un totale “penoso scompiglio”.

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Illustrazione per “Il sistema del Dottor Catrame e del Professor Piuma”.

Il sistema del Dottor Catrame e del Professor Piuma presenta il manicomio francese come un mondo alla rovescia, in cui i pazzi sono in realtà i medici e gli inservienti, e le persone sane sono al contrario i pazzi. Difatti, a causa dell’improvvisa follia del direttore responsabile, Monsieur Maillard, i pazzi sono stati liberati e, indossando abiti civili, hanno preso il posto del personale, relegato nelle stanze di contenimento e coperto di catrame e piume di gallina.

Inutile dire che, all’ignaro visitatore del manicomio, protagonista del racconto, tutto sembra in perfetta regola, in quanto Monsieur Maillard parla e agisce in modo assolutamente ragionevole, e così anche i pazzi, tranne che per alcuni momentanei inspiegabili tic. Anche in questo racconto assistiamo alla distruzione dell’ordine costituito in favore di un sistema alternativo: in questo mondo parallelo quelli che comandano sono i pazzi, notoriamente ignari dei principi logici di non-contraddizione e quindi indifferenti alle convenzioni imposte dalla vita civile.

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Il fatto è che i pazzi, comportandosi in maniera abbastanza ragionevole, mettono su un mondo che è come la copia di quello che hanno sostituito, solo “più allegro”, tanto che l’ignaro visitatore viene coinvolto in un sontuoso banchetto dove il vino scorre a fiumi. Purtroppo, gli inservienti (che il visitatore, ovviamente, scambia per i pazzi liberatisi dalle segrete) intervengono e riprendono il sopravvento sui pazzi, ponendo fine a quel mondo capovolto. Ma la domanda permane, assillante: chi erano i veri pazzi? L’ammonizione di Monsieur Maillard, a metà del racconto, è indicativa:

« Non credete a nulla di quanto sentito dire e non credete che alla metà di ciò che vedete. »

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Illustrazione per “Mellonta Tauta”.

Il terzo racconto, Mellonta Tauta, locuzione greca per “Cose del futuro”, è fondamentalmente una spietata presa per i fondelli dello storicismo, ossia della pretesa di ricostruzione certa del passato a partire da pochi frammenti archeologici/letterari residui. Il resoconto della viaggiatrice del futuro a bordo del pallone è una panoramica comicamente distorta del mondo del passato, che poi corrisponde al “nostro” mondo, dove risultano nomi di luoghi, cose e persone buffamente alterati e malcompresi, come i continenti “scomparsi” di Iuropa e Aiesa, o i tiranni antichi Zerone e Hellofagabalus, o ancora il presunto filosofo indù Ariete Stotele.

La seta, che si usava “cinquecento o mille anni fa” viene detta “un tessuto lavorato dalle viscere di certi vermi della terra. Li nutrivano di more di gelso, frutto che assomiglia al melone d’acqua, e quando erano grassi a dovere, li tritavano con una macina. Di quella poltiglia si faceva un impasto detto papiro, così come si presentava all’inizio, e che poi passava per una serie di manipolazioni finché ti diventava ‘seta’”. Inutile dire che tale ricostruzione del procedimento di produzione della seta è del tutto sbagliata e confusa, oltre che ridicola, per noi che ben sappiamo come essa si ricavi.

Dulcis in fundo, e qui la critica particolare alla storiografia americana è evidente, si espongono i costumi di quelli che la viaggiatrice definisce «la tribù dei veteroyorkesi», ossia gli abitanti odierni di “New” York. Viene descritto il ritrovamento di una lapide, la cui iscrizione dice che essa fu posta il 19 ottobre 1847 per un monumento alla memoria di George Washington nell’anniversario della resa di Lord Cornwallis a Yorktown nel 1781. Ovviamente, la viaggiatrice fraintende completamente il senso dell’iscrizione, scambiando Yorktown, che è una località che si trova in Virginia, per la città di New York, e il generale Cornwallis per un mercante di granaglie (si desumerebbe dal nome “corn”). Inoltre, la resa in battaglia del generale inglese, viene intesa come la sua “consegna” agli indigeni per qualche oscuro motivo («Il solo problema è perché i selvaggi volevano prenderselo»; probabilmente, pensa: «Allo scopo di farne salsicce»).

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Emerge, nel comico fraintendimento generale, il pregiudizio dell’atteggiamento progressista, per cui il passato è immancabilmente il regno dell’assenza di ragione e dell’arretratezza. Ma questo è solo un pregiudizio ex post, padre di una ricostruzione, per noi “presenti”, che sappiamo come sono andate le cose, del tutto non veritiera e assurda. La realtà del passato è “altra” rispetto a quanto noi stessi immaginiamo in base a mere ricostruzioni successive, supportate da pochi dati tangibili ed inquinate irrimediabilmente da opinioni infondate.

Il mondo che viene fuori da questi racconti “comici” di Poe si presenta quindi come una veste sgargiante nella sua insostanzialità, calata sul vero essere delle cose come un velo di Maya. Questa realtà è reale solo relativamente a noi, poiché così si è convenuto di trattarla, ma la verità è ben “altra”, sol che si “aguzzi gli occhi più attentamente” (altro topos ossessivo dei racconti di Poe). Lo gnosticismo di Poe fa a pezzi gli ideali della modernità, con tutta la loro pletora di corollari inconcludenti; mette alla berlina le idee di libertà, di Repubblica, di religione, di uguaglianza universale, artifici intellettuali e libreschi che non hanno alcun riscontro nella natura delle cose. In quegli stessi anni, dall’altra parte dell’Atlantico, un certo Giacomo Leopardi era impegnato in una solitaria battaglia, prodigiosamente simile, combattuta talora con toni aspri e patetici, come nello Zibaldone e nei Canti, talaltra, alla maniera di Poe, attraverso la parodia, come nei Paralipomeni alla batracomiomachia. E allo stesso modo del suo contemporaneo americano era vox clamantis in deserto.


Bibliografia:

  • Edgar Allan Poe, I racconti (1831 – 1849). Einaudi, Torino, 2009.

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