Charles Baudelaire: la vita, l’opera, il genio

La biografia di Baudelaire scritta dall’amico Charles Asselineau è un’occasione d’oro per conoscere il Poeta nel suo Sé più intimo, la dedizione alla sua ‘activitas’, l’anelito di sposare la vita al pensiero, nella stupefacente unione di azione e sogno


di Marco Maculotti
recensione del libro di CHARLES ASSELINEAU
“Charles Baudelaire: la vita, l’opera, il genio”,
Bietti, collana “l’Archeometro”, Milano, 2016.


La biografia di Baudelaire scritta dall’amico fraterno Charles Asselineaue recentemente pubblicata in una nuova edizione da Bietti — ci consente di fare la conoscenza non tanto del Baudelaire poeta maledetto o icona di una generazione allo spartiacque fra due epoche, quanto piuttosto del Baudelaire intimo, in tutta la sua toccante e stupefacente umanità. La sua attitudine prorompente e controcorrente, la dedizione negli studi e la devozione nei confronti dell’opera di Théodore de Banville e di Edgar Allan Poe, l’anelito di fare della propria vita un manifesto di intenti.

Nelle pagine finali del testo è racchiuso il de profundis più significativo che Asselineau dedicò all’amico, e che noi riportiamo in questa sede in apertura, poiché migliore presentazione di Baudelaire non vi può essere (p. 101):

« …la sua opera non è tutto quanto ci ha lasciato. Quale esempio fu la vita di questo poeta, che non sacrificò nulla della propria convinzione e andò sempre dritto per la sua strada, senza ripensamenti né obliquità. Sta forse qui il segreto della sua forza. Non appena sentiva che quanto stava facendo non era alla Baudelaire, si fermava: e nessuna considerazione, vantaggio, denaro, favore o pubblicità gli avrebbero fatto fare un passo in più. È rimasto integro e intatto. Mai scrittore è stato più interamente assorbito dalla propria opera, né opera è stata il più esatto riflesso del suo autore. »

L’edizione comprende, oltre al testo di Asselineau pubblicato per la prima volta nel 1868, con relative note, una introduzione di Massimo Carloni e un nutrito appendice contenente aneddoti, il “discorso sulla tomba di Baudelaire” da parte di Asselineau e una serie di missive tra i due — e non solo. Come scrive Carloni nell’introduzione, riferendosi alla biografia edita da Asselineau, «alle vicende bibliografiche il libro alterna un primo studio critico dell’opera che annuncia l’avvento della modernità nella cultura del tempo, delineandone i soggetti, i luoghi, le forme e, per certi versi, il destino, segnato da una visione metafisica che in Baudelaire rimane profondamente antimoderna» (introd., p. 13).

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Charles Asselineau

Charles Asselineau, nato nel 1820 a Parigi, faceva parte, al pari di Baudelaire (nato 1821) e Banville (nato 1823) della «rivoluzione letteraria del 1830 esplosa in Francia… che aveva in Hugo il dio onnipotente e in Gautier il profeta» (introd., p. 7). Se il ritratto umano di Baudelaire è splendidamente tratteggiato da Asselineau nella sua biografia, quello di Asselineau viene ricostruito egregiamente da Carloni nell’introduzione, breve ma puntale, in cui viene definito il tempo e lo spazio in cui il «vortice affascinante e tragico di quella bohème parigina» si abbatté come una tempesta sulla vita e sul destino di alcuni giovani intellettuali francesi.

Carloni recupera le impressioni di Théodore de Banville, secondo cui Asselineau dei poeti fu soprattutto l’amico, nella buona come nella cattiva sorte, il consigliere, l’angelo custode della loro opera, pronto a ospitarli «nella sua unica camera, in mezzo alle sue collezioni rare, come un contadino dell’Attica avrebbe accolto gli Dèi in viaggio nella sua modesta dimora di paglia» (introd., p. 9).

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Dalla lettura della biografia di Baudelaire, emerge come ad Asselineau non prema divagare sui numerosissimi aneddoti — molti dei quali inventati di sana pianta dalle malelingue sue contemporanee — o sulle dicerie che circolavano sul conto di Baudelaire: non in questo senso egli si prefigge di divulgare la vita privata del poeta. Al contrario, per ‘vita privata’ non vengono intesi i pettegolezzi o i segreti intimi, quanto piuttosto l’attitudine più profonda del genio francese, che solo nella ‘vita privata’, quando egli era in compagnia dei suoi più intimi sodali, zampillava come fresca acqua di fonte. La ‘vita privata’, dunque, come microcosmo esistenziale, in cui l’opera poetica e l’azione pura del poeta si intersecano in maniera palpabile, ancora di più forse che nei suoi più ispirati componimenti. Così Asselineau (pp. 23-24):

« In questa biografia di uno Spirito, non mi lascerò trascinare nelle sabbie mobili dell’aneddoto e del pettegolezzo. Tuttavia, devo confessarlo, certe stravaganze d’abito, di mobilio, di condotta, certe bizzarrie di linguaggio e d’opinione che scandalizzavano l’ipocrita vanità degli sciocchi, sempre offesi dai colpi inferti alla banalità, non indicavano forse il partito preso dalla rivolta e dall’ostilità contro le convenzioni volgari che prorompe nei “Fiori del Male”, un bisogno di cimentarsi nella lotta, provocando quotidianamente e continuamente stupore e irritazione nelle maggioranze? Era la vita sposata al pensiero, quell’unione di azione e sogno invocata in uno dei suoi più audaci poemi… Aggiungiamo come tali stravaganze, in grado d’irritare solo gli sciocchi, non avessero mai pesato sugli amici… Per lui rappresentavano anche una pietra di paragone nei confronti degli sconosciuti. Una domanda bizzarra o un’affermazione paradossale gli servivano per giudicare la persona con cui aveva a che fare; e, se dal tono della risposta e dal contegno riconosceva un suo pari, un iniziato, ridiventava subito quello che era naturalmente, il migliore e più franco dei compagni. »

Asselineau ricorda a più riprese «l’amore per il combattimento, quel disprezzo per le maggioranze che lo portava a godere delle ingiurie dei miopi e degli abitudinari». Attitudini che si palesano fin dai primissimi lavori del giovane Baudelaire, Il Salon del 1845 e Il Salon del 1846, opuscoli in cui emerge tutto «l’orrore per i compromessi e i riguardi, il tono autoritario e dogmatico»; «nessun ricorso al sentimento, all’ausilio di frasi poetiche, all’eloquio conciliante: una dimostrazione rigorosa, uno stile netto e fermo, una logica che andava dritta al suo scopo, senza curarsi di obiezioni o temperamenti» (p. 31). Soprattutto nel secondo opuscolo è netta la sua avversione contro i «medio-borghesi» e i «falsi artisti», da lui definiti «accaparratori» e «farisei» (p. 33).

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Charles Baudelaire

L’autore definisce gli uomini come Baudelaire bohème, «epiteto il cui significato è difficile da spiegare se non lo si comprende a partire dall’isolamento creato forzatamente attorno a coloro che si preoccupano solo di ciò che gli altri disdegnano». Questi individui straordinari sono «coloro che si entusiasmano solo per il bello, la cui unica ambizione è far bene, e che per tale motivo vengono considerati scettici dai politici e dai moralisti». In questo senso, bohème è un sinonimo di dandy per come lo intendeva Baudelaire, vale a dire «l’uomo perfetto, sovranamente indipendente, subalterno solo a se stesso, che regna sul mondo, disdegnandolo. Lo scrittore-dandy disprezza l’opinione comune e si affeziona solo al bello, sempre secondo la sua particolare concezione» (p. 36).

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Da questa prospettiva, il mondo in cui il dandy trascorre la sua esistenza appare come un microcosmo a parte, egualmente distaccato tanto dalla ‘morale’ e dai dogmi valoriali della classe dominante e dell’intellighenzia progressista quanto dai ‘rigurgiti di pancia’ del ‘popolino’: «Il dandy — scrisse lo stesso Baudelaire — non fa nulla: disprezza ogni funzione. Come immaginare un dandy che parla al popolo se non per sbeffeggiarlo?» (p. 60, nota 13). Non che Baudelaire detestasse l’attività intellettuale, intendiamoci. «Nessuno era meno sgobbone di lui». Ma «se da un lato amava il lavoro, inteso come arte, dall’altro aveva in orrore il lavoro-funzione» perché era «troppo rispettoso di se stesso per poter diventare un money-making author» (p. 54).

«In tutto, in religione come in politica, Baudelaire era sovranamente autonomo, poiché dipendeva unicamente dai suoi nervi… Ciò che lo rendeva tale era quel che lui chiamava “la potenza dell’idea fissa”. Nulla meglio di un pensiero costante e uno scopo unico preserva la vita dagli impegni nei partiti. Per Baudelaire, lo scopo era il Bello; la sua unica ambizione era la gloria letteraria». E, a seguire, una citazione di Baudelaire stesso, che recita (p. 46): «Il poeta non appartiene a nessun partito; altrimenti sarebbe un uomo come gli altri».

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Gustave Courbet, ritratto di Charles Baudelaire, 1847.

Tra i poeti, viene ricordata la sincera ammirazione che Baudelaire provava per un suo ‘pari’, Théodore de Banville, che Asselineau vede come ‘complementare’ di Baudelaire al punto da riconoscere nel rapporto tra i due una splendida coniuctio oppositorum: «non si è mai riscontrata un’opposizione di genio e natura così netta come quella tra questi due poeti, di pari talento, al punto da poter affermare che ciascuno si completò con l’altro, e che tra loro l’ammirazione, come pure l’amicizia, visse di contrasti». E a seguire, Asselineau riporta a conferma della sua constatazione l’omaggio che Baudelaire dedicò a Banville, introdotto da un mirabile excursus sul ‘demoniaco’ nell’arte moderna, di cui con tutta probabilità Baudelaire si considerava uno dei più significativi esponenti (pp. 37-38):

« Beethoven ha cominciato a scuotere i mondi di melanconia e incurabile disperazione, ammassati come nuvole nel cielo interiore dell’uomo. Maturin nel romanzo, Byron nella poesia e Poe nel romanzo analitico hanno mirabilmente espresso la parte blasfema della passione: hanno proiettato raggi splendidi, scintillanti, sul Lucifero latente, installato in ogni cuore umano. Intendo dire che l’arte moderna ha una tendenza essenzialmente demoniaca. E sembra che questa parte infernale dell’uomo, che l’uomo gode nell’infliggere a se stesso, aumenti giorno dopo giorno, come se il diavolo si divertisse ad accrescerla artificialmente, come gli allevatori, ingrassando pazientemente il genere umano nei suoi cortili, per prepararsi un pasto più succulento. — Ma Théodore de Banville rifiuta di volgersi verso queste paludi di sangue, in questi abissi di fango. Come l’arte antica, egli esprime solo ciò che è bello, gioioso, nobile, grande, ritmico. Inoltre, non avvertirete mai nelle sue opere le dissonanze, le discordanze musicali del sabba, né i mugolii dell’ironia, questa vendetta del vinto. Nei suoi versi, tutto ha un sapore di festa ed innocenza, persino di voluttà. La sua poesia non è solo un rimpianto, una nostalgia; è anche un ritorno volontario allo stato paradisiaco. Da questo punto di vista, possiamo considerarlo come un’originale della specie più coraggiosa. In piena atmosfera satanica, o romantica, in mezzo a un concerto d’imprecazioni, ha l’audacia di cantare la bontà degli dèi e di essere un perfetto classico. Vorrei che tale parola venisse intesa nel senso più nobile, nel senso veramente storico. »

Se Théodore de Banville appariva ad Asselineau — e a Baudelaire stesso — come un suo ‘complementare’, ci fu un altro grande autore che godeva della massima stima del poeta e che, al contrario di Banville, presentava un’attitudine spiccatamente simile a quella di Baudelaire: e questo autore fu il bostoniano Edgar Allan Poe. Scrive Asselineau (p. 51): «Sin dalla prima lettura s’infiammò d’ammirazione per quel genio sconosciuto, sotto molti aspetti affine al suo. Raramente ho visto possessioni così complete, fulminee, assolute».

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Da quel momento, ovunque andasse, in chiunque si imbattesse, Baudelaire non parlava che di Poe e disegnava in modo esecrabile chiunque non conoscesse l’autore o le sue opere. «Come si poteva vivere senza sapere nei minimi dettagli chi fosse Poe, la sua vita e le sue opere?». La sua ossessione per Poe giunse al punto che «non permetteva che nessuno dei suoi amici ignorasse la benché minima circostanza biografica del suo eroe e si arrabbiava se non coglieva al volo un’intenzione comica, un’allusione o una finezza» (p. 52).

Da questa folgorazione nasce il prometeico progetto di Baudelaire di traduzione delle opere di Poe in francese. Il lavoro fu impeccabile e maniacale: per comprendere al meglio il lessico nautico “da osterie” delle Avventure di Gordon Pym, Baudelaire trascorse innumerevoli ore nelle taverne dei porti, in cerca di marinai inglesi che, tra una pinta e l’altra, potessero essergli d’aiuto. Théodore de Banville riferì inoltre che, mentre traduceva Poe, Baudelaire si serviva di «atlanti, carte e strumenti matematici ripuliti con cura… verificava i calcoli nautici di Gordon Pym e voleva assicurarsi personalmente della loro esattezza» (p. 60, nota 10). Era la «potenza dell’idea fissa» in azione, la maniacale ricerca della Perfezione — vista come un Ideale — che sempre contraddistinse l’activitas di Baudelaire.

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Prima edizione de “Les Fleurs du Mal”, Parigi, 1857.

Un capitolo a parte non poteva non essere dedicato all’opera maxima del poeta, Les Fleurs du Mal, e soprattutto al processo ai danni dell’autore che seguì alla pubblicazione avvenuta a Parigi nel 1857. Quel procedimento legale «suscitò in Baudelaire uno stupore ingenuo. Non poteva capire… come un’opera di così elevata spiritualità potesse essere oggetto di un’azione giudiziaria. Si sentì ferito nella sua dignità di poeta, di scrittore rispettoso della sua arte e di se stesso…» (p. 67). Asselineau, da collega e amico fraterno, si lancia in questo capitolo in una vera e propria arringa difensiva dell’opera di Baudelaire: un’apologia che oggi può apparire pleonastica eppure al tempo in cui fu elaborata era lungi dall’essere considerata scontata.

E, d’altra parte, anche nei tempi in cui ci troviamo a scrivere, a 150 anni dalla morte di Charles Baudelaire, inizia a serpeggiare ancora una volta, sull’ondata dell’isteria neo-puritana a stelle e strisce, il fantasma del moralismo più vacuo e ipocrita, destinato ad infettare l’Arte — con la maiuscola — facendo leva sul servilismo di coloro che vivono troppo adagiati nel fango per potersi elevare alle vette della Poesia. Un’amara lezione che Baudelaire imparò a duro prezzo, e che decretò la sua damnatio memoriae. E in ultima analisi non poteva essere altrimenti, dal momento che

Il Poeta assomiglia al principe dei nembi
Che abita la tempesta e ride dell’arciere;
Ma esule sulla terra, al centro degli scherni,
Per le ali di gigante non riesce a camminare.

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Copertina dell’edizione Bietti, 2016.

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