Jean Markale: l’Altro Mondo nel Druidismo e nel Cristianesimo Celtico

Disamina dello studioso francese sulle credenze riguardanti l’Aldilà nella tradizione druidica-gaelica e su come, con l’avvento del Cristianesimo, esse sfociarono nella letteratura delle “navigazioni” e nella canonizzazione del Purgatorio.


di Jean Markale
tratto da: Le christianesime celtique et ses survivances populaires
Editions Imago, Paris, 1986
ed. it.: Il cristianesimo celtico e le sue sopravvivenze popolari
Arkeios, Roma, 2014, capitolo 3


La forza del Cristianesimo, e una delle ragioni della sua schiacciante vittoria sulle altre religioni spiritualistiche dell’epoca, fu la promessa di una vita eterna in una nuova incarnazione, la quale avrebbe preservato l’io individuale sublimandolo, come mostrato dall’esempio del Cristo, resuscitato e animante un corpo identico a quello precedente, ma sublimato, glorioso. Si trattava di una differenza fondamentale rispetto alle altre religioni, nelle quali si prometteva sì una vita eterna, ma in condizioni in certo modo oscure. Il Cristianesimo, dottrina della resurrezione, presenta altrettante divergenze con il pitagorismo, la cui teologia è astratta e il dogma completamente intellettuale, quante ve ne sono con la religione greca, nella quale l’aldilà si riassume in un soggiorno ombroso ove vagano delle figure evanescenti.

Il “genio” del Cristianesimo consistette nell’essere concreto, nel dire ai credenti: dopo la fine del mondo tornerete in vita nella stessa forma che avevate, sia che sarete salvati, sia che sarete dannati. Sono lontani dagli ectoplasmi dei Campi Elisi, o le immateriali entità spirituali delle religioni dei misteri, senza parlare dell’infinito stordimento dell’inesistenza in un Nirvana collettivo in cui vive cancellata qualsiasi nozione di ego. I popoli europei tengono al loro ego, e questa non è la minore delle speculazioni che li separano in maniera inconciliabile dai popoli orientali, in particolare buddhisti.

Ora, stando a ciò che si conosce sul tema, in quanto sistema religioso e metafisico (poiché vi sarebbero ulteriori aspetti) anche il druidismo prometteva una vita identica post mortem, in un altro corpo nel quale veniva mantenuto l’ego. Le testimonianze sono formali: «Le anime non periscono, ma dopo la morte passano da un corpo all’altro» (Cesare, De Bello Gallico, VI, 13); «I druidi, e altri come loro, professano che le anime sono imperiture» (Strabone, IV, 4); «Le anime sono immortali e c’è un’altra vita presso i morti» (Pomponio Mela, III, 2); «Le ombre non raggiungono il soggiorno silenzioso dell’Erebo e i pallidi regni di Dis Pater, poiché lo stesso spirito governa un corpo in un altro mondo» (Lucano, Farsaglia, III, 399-400).

Per lungo tempo il testo di Cesare ha dato adito a confusione poiché non veniva letto nel suo contesto: si è infatti creduto — e alcuni lo pensano ancora — che i Celti professassero il dogma della metempsicosi, vale a dire la trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro, analogamente agli Indiani e ai pitagorici (con cui i druidi sono posti sovente in relazione). È una controverità assoluta, e nessun testo, che sia greco, latino, irlandese o gallese, concernente le credenze religiose degli antichi Celti, e nessuna epopea mitologica può confermare un’asserzione del genere. Se nell’epopea celtica vi sono delle reincarnazioni, ciò accade in casi individuali, per segnare simbolicamente la permanenza di un’entità divina: di fatto tutti i casi di reincarnazione osservati nell’epopea mitologica sono altrettante ipostasi di divinità, incarnazioni successive di divinità venute per trasmettere un messaggio agli esseri umani o per aiutarli nella loro ricerca spirituale. Ma non si tratta in alcun modo di un sistema di migrazioni di anime analogo al samsara indo-buddhista.

Del resto il testo di Cesare è particolarmente chiaro: lo spirito assume un altro corpo nell’Altro Mondo, non in questo. Anche Lucano è preciso su questo argomento, e bisogna osservare che la vita post mortem, secondo l’insegnamento druidico, è perfettamente concreta e non ha nulla a che vedere con la concezione greca (l’Erebo) o la concezione romana (il regno di Dite) dalle forme evanescenti. L’Altro Mondo celtico è concreto. È solo altrove. Il Cristianesimo non ha mai detto una cosa diversa. Ed è un punto essenziale su cui le due religioni si trovarono in completa armonia.

Nella loro vita terrena i monaci celtici cercarono di raggiungere quest’Altro Mondo, allo stesso titolo degli eroi pagani di cui i testi mitologici ci raccontano le avventure favolose. Che sia nella solitudine dei monasteri, con la preghiera, la meditazione, le macerazioni e i digiuni, che sia prendendo la strada dei famosi “pellegrinaggi per amore di Dio”, il monaco celtico parte sempre per la Cerca del Graal. Ciò in Irlanda ha dato una letteratura straordinaria in cui si mescolano elementi cristiani e pagani nella più perfetta armonia, ovvero la letteratura degli immrama, vale a dire delle “navigazioni”. Questi racconti di viaggi sul mare non sono sempre opere di fantasia: nel momento della partenza è possibile discernere una certa realtà storica, in cui santi ed eremiti partivano in pellegrinaggio sul mare e talvolta si stabilivano su isole più o meno deserte. Ma dietro i temi cristiani risorge il meraviglioso celtico, offrendo esempi di notevole continuità tra le due tradizioni.

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Verso l’800 le leggende dei pellegrinaggi dei santi al di là del mare erano ben conosciute negli ambienti monastici irlandesi, e la più famosa era quella di san Brendano di Clonfert, partito alla ricerca del Paradiso, e che forse, attraversando l’Atlantico, scoprì l’America. La leggenda di Brendano è all’origine del racconto della Vita Brendani e della Navigatio Brendani, poi tradotta in anglonormanno nel dodicesimo secolo e diffusa in tutta Europa. Il punto di partenza è evidentemente storico, benché si sia in dubbio se si tratti di Brendano abate di Clonfert o di Brendano abate di Birr, e se si svolga nel sesto secolo. La Navigazione narra che Brendano ricevette un giorno la visita del monaco Barinto, appena tornato da un pellegrinaggio presso un certo Mernoc, il quale aveva riunito una bizzarra comunità sull’Isola delle Delizie. Barinto e Mernoc avevano poi vogato insieme verso Ovest fino a raggiungere l’isola chiamata “Paese della Promessa dei santi”, colma di frutta e fiori straordinari, che avevano assaggiato. Ma non avevano avuto il permesso di andare più in là della metà dell’isola. A Brendano non resta che riunire alcuni dei suoi fratelli e partire con loro su un coracle (curragh, imbarcazione irlandese ricoperta di pelli) alla ricerca del “Paese della Promessa dei santi”, cioè del Paradiso.

Ciò dà loro l’occasione di sbarcare su isole più o meno misteriose e di conoscervi avventure sovrannaturali, soprattutto nel “Paradiso degli Uccelli”, e su un’isola che in realtà è una balena. Fanno anche visita a Giuda Iscariota che, seduto su una roccia, approfitta di una breve pausa dai tormenti dell’Inferno. Sfuggono all’eruzione di un vulcano (l’Islanda?), e raggiungono il “Paese della Promessa dei santi”. Non hanno il permesso di addentrarsi in essa, ma, dopo aver ricevuto la benedizione di un angelo che li ha guidati fin là, tornano all’Isola delle Delizie prima di tornare in Irlanda.

Con ogni evidenza la Navigatio Brendani è la cristianizzazione di un racconto pagano di cui si riconosce la trama nell’Immram Curaig Maile Duin (La Navigazione di Maelduin), opera profana, ma scritta in epoca cristiana, e nell’Immram Bran mac Faibal (La Navigazione di Bran, figlio di Febal), racconto molto breve, ma che affonda le radici nel più remoto passato mitologico pagano. In questi due testi il Paradiso è l’Isola delle fate, universo paradisiaco retto da donne, dove tutto l’anno crescono fuori e frutti. È il paese dell’Eterna Giovinezza, l’Insula Pomorum della Vita Merlini, l’isola di Avalon (aval = mela) delle leggende arturiane, quella che gli irlandesi chiamano Emain Ablach: in essa non si conosce sofferenza, né vecchiaia, né morte. Non si può negare che il “Paese della Promessa dei santi” sia l’isola di Avalon. Non si può neanche non tener conto dell’identità delle avventure degli eroi pagani o cristiani sulle isole misteriose incontrate nel corso della loro navigazione.

L’immagine del Paradiso celtico e quella del Paradiso cristiano sono le stesse in Irlanda e in Bretagna, anche nei casi in cui il Paradiso viene situato sotto terra, nell’universo misterioso del sidh, ovvero dei tumuli megalitici. Là si crede che vivano i Tuatha Dé Danaan, i popoli della dea Dana, già signori dell’Irlanda prima dell’arrivo dei Gaeli. Il loro universo, però, non ha nulla di paragonabile alle tetre contrade dell’Erebo: i paesaggi sono bagnati dallo stesso Sole, si respira la stessa aria, si allevano le stesse greggi, si vive la stessa vita di quell’universo sopra la superficie della terra. A dire il vero, l’Altro Mondo dei Celti non è in alto, ma in basso; è altrove, di lato. E spesso è possibile entrarvi, come gli abitanti dell’Altro Mondo possono venire nel mondo umano. La frontiera è talvolta difficile da precisare.

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Duncan, John, 1866-1945; The Riders of the Sidhe
Tuatha Dé Danaan.

Tutto questo dimostra che presso i Celti di epoca druidica la morte non aveva quel carattere spaventoso che le viene attribuito in alcune civiltà e in certe religioni pessimiste. Come dice Lucano, «la morte è il punto medio di una lunga vita» (Farsaglia, I, 457). In quelle condizioni, come spaventarsi, come avere paura di ciò che si trova dall’altra parte? Presso i Celti pagani vi era una grande serenità, e questa serenità è rimasta anche quando essi ricevettero il messaggio cristiano: dopo tutto, morendo e resuscitando Gesù non aveva fatto altro che dimostrare la verità del dogma druidico. Fu probabilmente questa una delle ragioni fondamentali che indussero gli Irlandesi ad accettare con tanta facilità il Cristianesimo, fino a diventarne i più ardenti propagatori.

Tuttavia, nel corso dei secoli la mentalità celtica primitiva, fondata su una sorta di amoralismo tranquillo e su un rifiuto del peccato secondo l’accezione giudeo-mediterranea (ovvero quella di un peccato assoluto), si trovò dinanzi a un grave problema. La dottrina cristiana promette il Paradiso per coloro che lo hanno meritato, ma minaccia l’Inferno a coloro che non hanno saputo scegliere la loro via. Indipendentemente dal fatto che si sia pelagiani o agostiniani, l’Inferno sembra una realtà che rischia di essere terrificante: per un celta essere condannato definitivamente per l’eternità alle sofferenze infernali è qualcosa di intollerabile. Che fare, allora?

Non sappiamo cosa pensassero i primi Celti convertiti, ma si sa che quelli dell’Alto Medioevo trovarono una scappatoia. Non potendo eliminare l’Inferno, che restava il castigo supremo riservato a coloro che avevano deliberatamente e volontariamente scelto la via del Male, immaginarono un luogo intermedio in cui i peccatori per inettitudine o per negligenza avrebbero potuto riscattarsi e quindi meritare l’ammissione al Paradiso. Questo luogo intermedio è il Purgatorio. Attualmente è unanimemente riconosciuto che furono gli Irlandesi a inventare il Purgatorio e a imporlo al mondo cristiano nel suo complesso.

Un testo medievale ci presenta il Purgatorio di san Patrizio: un cavaliere di nome Owen, verosimilmente un bretone, giunge in Irlanda per tentare la prova del Pozzo di san Patrizio. Dopo essersi comunicato e dopo aver pregato, scende nelle profondità ed è testimone di scene infernali. Si tratta con ogni evidenza di una letteratura con finalità di edificazione morale, ma le indicazioni fornite da questo racconto sono preziose per la conoscenza delle credenze irlandesi e celtiche concernenti il Purgatorio. Del resto, il Purgatorio di san Patrizio è chiaramente localizzato nel Donegal: il Lough Derg, infatti, è un lago su cui esistono numerose tradizioni, in una delle quali si parla di un monastero sotterraneo che sorge su un’isola in mezzo al lago, mentre un’altra narra che Patrizio vi avrebbe trovato un pozzo, sarebbe penetrato in esso e avrebbe assistito ai supplizi inflitti alle anime del Purgatorio. Un’altra leggenda afferma che in questo monastero sotterraneo, ricordo evidente del sidh pagano, vive sempre un monaco che tutti i sabati è testimone dell’apparizione della Vergine. A ogni modo, a partire dal dodicesimo secolo l’isola diventa un luogo di pellegrinaggio assai frequentato, e malgrado le numerose interdizioni da parte delle autorità religiose, vi hanno luogo degli eccessi del tutto coerenti con l’antico monachesimo celtico. Un vero pellegrino doveva infatti trascorrere non meno di tre giorni e due notti sulla Station Island, nutrendosi solo di pane nero e bevendo solo tè nero, oppure acqua del lago con aggiunta di pepe.

La letteratura irlandese agiografica è colma di visioni del Purgatorio. Qual è il santo che non ha avuto la sua visione dell’Altro Mondo? È un po’ come il viaggio che quasi tutti gli eroi pagani prima o poi hanno compiuto dall’altra parte delle apparenze, penetrando in una fortezza dell’Altro Mondo. L’anglosassone Beda racconta (III, 19) che il monaco irlandese Fursa, stabilitosi in Gran Bretagna, una notte ebbe un’estasi. La sua anima lasciò il corpo e fu accolta dagli angeli del Paradiso. Al canto del gallo l’anima tornò nel corpo, ma tre giorni dopo essa lo lasciò di nuovo. Quella volta Fursa percepì il mondo sotto di lui come un’oscura valle stretta tra due muraglie di fuoco, cosa che fa tornare alla mente l’episodio dei romanzi arturiani relativo alla Valle senza Ritorno della fata Morgana. Poco mancò che Fursa venisse inghiottito dalle fiamme, e dovette battersi con i demoni. Dovette la salvezza solo all’intervento degli angeli, e la sua anima tornò nel corpo. Lo stesso accade nel racconto irlandese di Fis Adamnan (la Visione di Adaman). Anche questo sant’uomo si sdoppia. La sua anima vede il Paradiso e l’Inferno, ed effettua il viaggio sotto la guida degli angeli.

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Quanto alla Visione di Tondale, racconto irlandese scritto in latino assai noto per tutto il Medioevo, essa rappresenta una sintesi tra la mentalità celtica primitiva e la nuova visione del mondo introdotta dai cistercensi nel dodicesimo secolo. Non si tratta di un monaco o di un santo, ma di un cavaliere, grande peccatore e nemico della Chiesa (altrimenti detto un “eretico”). Un giorno, in uno stato di estasi, la sua anima lascia il corpo e non riesce a tornarvi, e viene anche assalita da un’orda di demoni che la tormentano. Facendo appello a Dio, per la prima volta nella sua vita, Tondale vede venire il suo angelo custode che scaccia i demoni, ma gli impone di subire delle prove nel Purgatorio e anche nell’Inferno, delle cui regioni sulfuree riceve una descrizione dettagliata, con i tormenti inflitti ai peccatori.

Di fatto nella Visione di Tondale non c’è più nulla di tutto ciò che costituiva la serenità dei primi testi celtici cristiani. Il cattolicesimo romano e l’ombra di sant’Agostino pesano su questa visione. Ma il fantastico resta nettamente celtico, e alla fine si ha il perdono poiché Tondale, in un momento cruciale della sua vita, sceglie Dio contro il diavolo. Il libero arbitrio è salvaguardato. Lo scenario e l’ambientazione sono irlandesi, impregnati di colore locale e risalenti sicuramente a tradizioni ben precise. L’escatologia somiglia a quella della letteratura irlandese visionaria dei primi tempi del Cristianesimo. Ma vi si avverte l’influsso di tutti i testi apocrifi che all’epoca stavano dilagando nella Chiesa continentale e che ciascuno aggiustava a modo suo. La dolcezza umana e la spiritualità della letteratura antica della tradizione indigena sono scomparse, a favore del crudo simbolismo degli orrori medievali che si credono propri dell’Inferno e del Purgatorio. Invece di essere un luogo di attesa, il Purgatorio è un vero Inferno: l’unica differenza è che non è eterno. Con la Visione di Tondale si ha un punto di svolta nella vita spirituale dei Celti, che si accingono a diventare pessimisti e “masochisti” al pari dei continentali.

Il medesimo processo si osserva nella Bretagna armoricana nel corso del diciassettesimo secolo. Eliminando la concezione serena e tranquilla dell’Altro Mondo, la mentalità bretone sarà completamente impregnata di satanismo e di terrore. Un’opera come La leggenda della Morte in Bassa Bretagna, di Anatole le Braz, un corpus di credenze popolari armoricane di fine diciassettesimo secolo sulla morte e sull’aldilà, testimonia questo cambiamento in profondità avvenuto nelle menti in seguito a una Controriforma che aveva distrutto la primitiva serenità celtica.

Tuttavia, attraverso i racconti popolari della Bretagna armonicana, si svelano ancora una volta alcuni tratti segnati dalle antiche credenze. Se il Carro dell’Ankou ha assunto un aspetto sinistro, i “votati”, vale a dire coloro che scontano il Purgatorio sulla terra, sono sempre aiutati da un essere umano che ha pietà di loro e ne riduce la pena compiendo un atto di carità. La grande comunicazione tra i vivi e i morti esiste sempre, e in fondo non c’è nulla di definitivo nelle condanne inflitte a un peccatore. L’ottimismo celtico riaffiora costantemente, anche nei racconti più foschi. E la fiducia nell’essere umano è intatta. Più che mai, l’Altro Mondo delle cristianità celtiche è un “altrove” che è situato immediatamente “di lato”.

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