Sacralità, mito e divinità nella civiltà degli antichi Sardi

Terra d’elezione di una élite eroica e guerriera che viveva pervasa dalla dimensione del Sacro, la Sardegna può essere, a ragione, annoverata tra i più importanti centri spirituali dell’antichità: obiettivo di questo studio è ricostruire attraverso le lenti della storia, del mito e della tradizione lo sviluppo dell’ancestrale ethnos sardo e della sua cultura


di Daniele Perra
immagine: pozzo sacro del santuario nuragico di Santa Cristina


Origine e mito

Narra un antico mito indonesiano che «in principio, quando il cielo era vicinissimo alla terra, Dio offrì alla coppia primordiale i suoi doni sospendendoli all’estremità di una corda. Un giorno egli inviò ai due antenati primordiali una pietra, ma quelli, sorpresi e indignati, la rifiutarono. Dopo qualche tempo, Dio fece di nuovo calare la corda; questa volta pendeva da essa una banana, che venne immediatamente accettata. Allora gli antenati udirono la voce del creatore: poiché avete scelto la banana, la vostra vita sarà come la vita di questo frutto. Se aveste scelto la pietra, la vostra vita sarebbe stata come l’esistenza della pietra, immutabile e immortale» [1].

Seppur lontano nella dimensione spaziale, questo antichissimo mito può essere utile per comprendere il valore delle costruzioni megalitiche occidentali. La condizione umana, infatti, vive uno stato di perenne nostalgia di quell’istante in cui l’uomo condivideva il tempo eterno di Dio. Ed il megalitismo è intrinsecamente legato all’idea della sopravvivenza eterna dell’anima dopo la morte terrena. L’uomo spera che il proprio nome sopravviva e venga ricordato attraverso la pietra. La pietra garantisce la perennità dell’anima. E un sostituto di pietra è un corpo costruito per l’eternità attraverso il quale riconoscere la figura dell’avo, dell’eroe e del divino stesso. 

I miracoli di pietra della Sardegna, soprattutto per ciò che concerne la monumentalità funeraria solare, non differiscono nel significato profondo dal resto delle costruzioni megalitiche sviluppatesi sia nell’Europa occidentale che lungo l’arco eracleo del Mar Mediterraneo. Eternare la memoria, e con essa la vita è l’obiettivo anche del megalitismo nuragico. Dei e morti necessitano di una eternità che solo la pietra può conferire.

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Nuraghe Arrubiu.

Il nuraghe (il cui nome deriva dalla parola del dialetto nuorese «nurra», torre cava o mucchio di pietre disposte su filari), opera di una stirpe mediterranea misteriosa, pre-indoeuropea e di origine occidentale, nella sua essenza monumentale megalitica fondata su una scienza architettonica primordiale, ha numerosi nessi iconografici con altri edifici mediterranei e atlantico-europei. Il nuraghe di Peppe Gallu-Uri, ad esempio, è straordinariamente somigliante al talaiot minorchino di Fontedrones de Baix-Mercadal. Tuttavia, la civiltà dei Sardi fu capace di portare con sé degli evidenti elementi di originalità che l’hanno resa unica nel suo genere ed hanno alimentato miti e leggende sulle sue origini.

Lo studioso francese Louis Charles François Petit-Radel (1756-1836), indissolubilmente legato ad una visione romantica dell’archeologia, colpito dall’essenza ciclopica delle mura poligonali nuragiche e dell’Italia centrale, sulla scia di Strabone e Pausania ne attribuì la costruzione al misterioso popolo dei Pelasgi. Col termine Pelasgos gli antichi storici Greci identificavano tutti gli abitanti delle terre intorno all’Egeo in epoca pre-ellenica a cui, tra l’altro, veniva attribuito un ruolo di primo piano nel processo di popolamento dell’Italia meridionale. Questi nell’Iliade appaiono come alleati dei Troiani, mentre Erodoto attribuisce a loro l’origine dei Tyrrenhoi: il nome con il quale i Greci chiamavano gli Etruschi. Fuggiti dall’Asia minore a causa di una carestia, i Lidi provenienti dall’antica città di Sardi, guidati da Tirreno, figlio del re Ati, dal quale presero il nome, si trasferirono in Italia. Di fatto, i lucumoni etruschi erano denominati «Sardi» per questo motivo e, secondo quanto affermato da Tacito, i Lidi, per molti secoli, continuarono a considerarsi fratelli degli Etruschi.

Tuttavia, i Greci, col termine Tirreni (costruttori o abitanti di torri), non facevano riferimento ad un popolo strettamente unitario ma a più popoli sparsi lungo l’arco settentrionale del Mediterraneo [2]. Strabone, ad esempio, definiva gli Iolai (oppure Iliesi o Iliensi – denominazioni che fecero fantasticare non poco gli studiosi su una possibile origine della civiltà sarda da Ilio/Troia), una delle popolazioni nuragiche della Sardegna, come Tirreni alla pari degli Etruschi, e i Sardi stessi come una popolazione dedita alla pirateria. A tal proposito nell’Inno omerico a Dioniso si dice: «E presto, nella solida nave, apparvero veloci, sul cupo mare, pirati Tirreni: li portava la sorte funesta». 

Sul fatto che vi fossero delle relazioni etniche abbastanza forti tra Sardi ed Etruschi non vi è alcun dubbio. E non è da escludere nemmeno che popolazioni etrusche siano passate alla loro sede storica direttamente dalla Sardegna. Proprio il carattere piratesco, bellicoso e fiero rende facile l’assimilazione degli antichi popoli nuragici con un altro «Popolo del Mare»: i Sherdana (o Shardana). Fu Giovanni Spanu, padre dell’archeologia sarda, ad evocarli per primo nel XIX secolo sulla base dell’evidente somiglianza tra la loro armatura con le figurine di bronzo proprie dell’arte nuragica.

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Sherdana, rappresentazione egizia.

Gli Sherdana vengono menzionati a più riprese in monumenti e documenti scritti egizi (rilevi dei templi di Abu Simbel-Karnak, Medinet Abu e papiro di Wilbour). Descritti come un popolo coraggioso e particolarmente addestrato nel mestiere delle armi, combattono in diverse battaglie contro l’esercito dei Faraoni ed in particolar modo al fianco degli Hittiti nella battaglia di Kadesh sull’Oronte di Siria nel 1285 a.C.; al fianco dei Libi di Marmajon nella battaglia di Paarishep; ed infine coi Tamhenu e i Maschavasha sconfitti da Ramesses III tra il 1181 ed il 1151 a.C. E fu proprio il loro valore in battaglia a trasformarli nel corpo di guardia del Faraone stesso. Mansione descritta nel papiro di Wilbour e per la quale ricevettero in cambio importanti proprietà terriere.

L’archeologo Giovanni Lilliu, riscontrando l’impossibilità di riconoscere una precisa identità etnica nelle genti che attraverso un “riflusso occidentale” popolarono la Sardegna tra il Neolitico recente e il Calcolitico, ritenne che non vi fossero dati sufficienti per confermare l’ipotesi che i Sardi nuragici potessero essere identificati con un ramo dei popoli del “Grande Verde”. A ciò si aggiunga che circa novecento anni di distanza separano la cultura sarda di Monte Claro, attraverso la quale si sviluppano strutture costruttive proto-nuragiche e nuragiche, dalla data del 1370 corrispondente alla più antica citazione dei Sherdana nelle lettere di Tel el-Amarna. Tuttavia, permane il problema di spiegare il distacco radicale che viene osservato nell’insieme del patrimonio di invenzioni, di attività e di vita materiale che si osserva tra le due epoche storiche sopra citate e dunque tra l’età pre-nuragica e quella nuragica. Così lo stesso Lilliu ammise [3]:

« L’ipotesi che sullo scorcio del II millennio a.C. dimorasse in Sardegna un popolo combattivo, che, con altri popoli della lega mediterranea, muovendo guerra all’Egitto, giunse al delta nilotico o al confine libico-egizio dal mezzo del mare con proprie flottiglie, se non è da accogliersi acriticamente non si può scartare del tutto. I secoli nei quali si svolgono le vicende dei Sherdana e dei confederati che vogliono espandersi per contrastare l’egemonia della potenza faraonica, sono quelli nei quali le comunità nuragiche, guidate dai loro principi, toccano il massimo splendore nell’architettura e sviluppano un consistente e organizzato vivere civile. »

Dunque, anche Giovanni Lilliu, ben poco propenso a formulare ipotesi che non andassero oltre la mera constatazione empirica dei fatti, ammise che ipotizzare l’arrivo in Sardegna di arditi gruppi umani dall’esterno che diedero vita alla cultura nuragica non fosse affatto all’infuori della logica storica. Ed al riguardo fece presente come i movimenti e gli spostamenti di intere schiere di popoli avessero contraddistinto l’Europa e il Mediterraneo durante l’età dei metalli.

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Nuraghe Orolo.

Anche lo studioso australiano Vere Gordon Childe nella sua corposa opera The Bronze Age sostenne l’identificazione tra i popoli nuragici ed i Sherdana [4]:

« Nei santuari nuragici e nei ripostigli troviamo una straordinaria varietà di statuette votive e modelli in bronzo. Figure di guerrieri, crude e barbariche nella loro esecuzione ma piene di vita, sono particolarmente comuni. Il guerriero era armato con un pugnale e con arco e frecce o con una spada, coperto da un elmo con due corna e uno scudo circolare. L’abbigliamento e l’equipaggiamento non lasciano dubbi sulla sostanziale identità tra i fanti Sardi e i corsari e mercenari rappresentati nei monumenti egizi come Sherdana. Allo stesso tempo numerose barchette votive, anch’esse in bronzo, dimostrano l’importanza del mare nella vita della Sardegna. »

Un’identificazione che può essere ulteriormente comprovata dal nesso onomastico Sherdana-Serdaioi (popolo, citato nella tabella di Olimpia del VI secolo a.C., che strinse un patto eterno di alleanza con i sibariti in chiave anti-punica) e dal fatto che il radicale serd persista nella toponomastica dell’isola.

Accettata l’identificazione tra i popoli nuragici ed i Sherdana, o per lo meno con uno di essi [5], resta da stabilire quale possa essere la loro origine vista la “cesura epocale”, sottolineata da Giovanni Lilliu, tra la cultura matriarcale e ipogeica pre-nuragica e la civiltà patriarcale e solare venuta successivamente ad imporsi nell’isola. Qui la storicità in senso stretto (attestazioni scritte dirette o fonti letterarie) entra in gioco in modo solo marginale. La storia, qui, si fonde con la ierostoria ed assume i contorni del mito. Julius Evola in una delle sue opere più celebri, Rivolta contro il mondo moderno, affermò [6]:

« Per quel che riguarda l’emigrazione della razza boreale vanno distinte due grandi correnti, l’una dal nord al sud, l’altra – successiva – da occidente verso oriente. Portando dovunque uno stesso spirito, uno stesso sangue, uno stesso corpo di simboli, segni e voci, gruppi di Iperborei raggiunsero dapprima l’America del Nord e le regioni settentrionali del continente eurasiatico. Una seconda grande migrazione sembra essersi spinta fino all’America Centrale, ma soprattutto che sia calata in una terra oggi scomparsa nella regione atlantica costruendovi un centro ad immagine di quello polare. Si tratterebbe dunque dell’Atlantide del racconto di Platone e Diodoro […] Dalla sede atlantica tali razze si sarebbero irradiate sia in America che in Europa ed Africa […] Antropologicamente sarebbe l’uomo di Cro-Magnon apparso in Europa occidentale verso la fine del periodo glaciale […] Oltre la Spagna, altre ondate raggiungono l’Africa occidentale e percorrono il litorale settentrionale dell’Africa fino all’Egitto o si inoltrano per mare dalle Baleari alla Sardegna fino ai centri preistorici dell’Egeo. »

A ciò Evola aggiunse che la razza direttamente derivata dal ceppo primordiale boreale si divise in due gruppi: uno differenziatosi per “idiovariazione”, cioè per una variazione senza mescolanza, al quale appartenevano le razze di più diretta derivazione artica; ed un secondo differenziatosi per “mistovariazione”, cioè per una mescolanza con le razze del Mezzogiorno. A questo secondo gruppo apparteneva la razza rossa degli ultimi atlantidi che stando al racconto platonico sarebbero decaduti dalla natura divina a causa delle loro ripetute unioni con la razza umana. Una vicenda che ricorda da vicino il racconto biblico dell’incrocio tra i figli di Dio (Ben-Elohim) e le figlie degli uomini che avrebbe dato origine ad una razza di giganti [7].

Questo ceppo etnico, secondo la prospettiva evoliana, sarebbe alla base di molte civiltà fondate lungo la direttrice occidente-oriente (razza rossa dei Creto-egei, gli Eteicreti, i Pelasgi e i Kefti egizi) così come di talune civiltà americane che nei loro miti ricordavano la provenienza dei loro progenitori dalla terra atlantica divina posta sulle grandi acque. La suggestiva ed affascinante descrizione evoliana coincide con quelle che storicamente vengono identificate come le direttrici attraverso le quali la Sardegna venne colonizzata a cavallo tra Neolitico e Calcolitico da quella misteriosa stirpe primordiale dal preciso carattere etnico che approdata sulle spiagge dell’isola vi creò una civiltà secolare anche mescolandosi per ciò che concerne le credenze religiose con la dimensione ctonia della popolazione autoctona.

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Statua raffigurante Aristeo.

Norax, duce degli Iberi e figlio di Ermes e di Eriteide, secondo il racconto di Pausania, giunse in Sardegna dalla penisola iberica dove fondò la città di Nora [8]. Prima di lui Aristeo [9], eroe civilizzatore figlio di Apollo e della ninfa Cirene, secondo quanto riportato da Gaio Giulio Solino nella sua opera Collectanea rerum memorabilium (nota nel Medioevo come Polyhistor), arrivò sull’isola dalla Beozia, forse in compagnia di Dedalo (l’architetto del labirinto in cui Minosse rinchiuse il Minotauro) e qui vi fondò la città di Karalis (l’odierna Cagliari) istruendo gli indigeni all’agricoltura e all’apicoltura. Secondo altre fonti Dedalo, a cui i greci antichi attribuirono la costruzione dei nuraghi (chiamati appunto opere dedalee), approdò sulle coste sarde in compagnia di Iolao, nipote di Eracle, e dei Tespiesi. Secondo Diodoro Siculo, Iolao venne inviato in Sardegna dove fondò ginnasi e tribunali assieme a nove dei figli che Eracle ebbe con le Tespiadi; le cinquanta figlie di Tespio (re di Tespie, città anch’essa della Beozia).

Lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni nella sua fondamentale opera La religione primitiva in Sardegna sostenne che tanto Iolao quanto Aristeo altro non fossero che delle ipostasi mitiche della divinità suprema dei Sardi identificata con Sardos: eroe divino, padre della stirpe ed a sua volta civilizzatore, figlio dell’Eracle africano Makeris, che giunse in Sardegna dalla Libia ed a cui gli stessi Sardi consacrarono a Delfi una statua in bronzo. Un’ipotesi che deriva dalla constatazione che i contatti tra i Greci e l’isola furono sempre abbastanza superficiali. Tuttavia, ciò non impedì a coloro che diedero all’isola il nome di Ichnussa o Sandalion (per la somiglianza della conformazione costiera all’impronta di un sandalo) di attribuirsi la creazione di una civiltà e di monumenti che non potevano spiegarsi in altro modo. Questo sulla base di una sorta di “pregiudizio classico” ante litteram secondo il quale ogni civiltà sarebbe debitrice o sarebbe stata inevitabilmente influenzata da quella greca, micenea o minoica. Mentre, al contrario, Sonchis, il sacerdote di Sais che istruì Solone sui fatti di Atlantide e sulle guerre che questa mossa verso l’Egeo e l’Egitto, ricordò a questo come i Greci non fossero che dei bambini rispetto ad altre civiltà del passato ed agli stessi Egizi. Un pregiudizio di cui sotto certi aspetti è stato vittima lo stesso Giovanni Lilliu che riteneva la civiltà nuragica come un’appendice di quella minoica [10]:

« Il regno di Minosse ha trovato in Sardegna il suo ultimo rifugio e il grido bestiale del Minotauro si perde nei recessi labirintici dei nuraghi. »

Il collegamento tra la Sardegna ed il mito di Atlantide non è dunque casuale. Sherdana, Cretesi, Maltesi e Pelasgi apparterrebbero ad una razza, quella degli Atlantidi-Mediterranei, proveniente in modo più o meno diretto dal centro dell’isola-continente costruito ad imitazione della patria artica polare. Ed a questa razza apparterrebbero anche talune popolazioni del Nord Africa (Tuareg, Berberi, Cabili) presso le quali sono state osservate numerose ed importantissime persistenze di una civiltà antichissima, e che abitano nell’entroterra o lungo quella catena montuosa che il mito identifica con il titano Atlante stesso pietrificato da Perseo dopo che questo gli mostrò la testa di Medusa.

Pausania affermò che i Sardi assomigliavano ai Libi (coloro che vivevano a Ovest dell’Egitto e portavano in testa diademi di piume) sia nell’aspetto fisico quanto nello stile di vita e nell’armatura. Ma un’altra ancor più sorprendente similitudine etnica e culturale è quella tra Sherdana e Guanci: il popolo delle Canarie che portava con sé il ricordo di un cataclisma che distrusse il loro mondo e di cui le piccole isole al largo della costa africana erano gli ultimi lembi di terra emersa rimasti [11].

Al momento, per quanto suggestiva, l’identificazione della Sardegna stessa con Atlantide, sostenuta dallo scrittore Sergio Frau, sembra difficilmente dimostrabile nonostante l’evidenza di uno tsunami che penetrò per oltre 60 km lungo la piana del Campidano trasformando un territorio fertile in luogo paludoso e malarico e ricoprendo importanti centri nuragici di una coltre di fango e limo. L’ipotesi di Frau si fonda sull’idea che l’isola, centro del mondo e luogo sacro che ad occidente del Mediterraneo segna il punto in cui il sole muore, si trovasse all’infuori del mondo allora conosciuto e compreso tra le Colonne d’Ercole (identificate dallo scrittore nel Canale di Sicilia) ed il Caucaso.

Un’ipotesi sostenuta dal fatto che, come riportato nel Timeo di Platone in cui si narra di guerre che gli Atlantidi mossero agli antenati dei Greci ed agli Egizi, gli Sherdana combatterono sia contro i Cretesi che contro gli Egizi. Dopo il cataclisma l’isola si trasformò in una landa desolata: una terra dei morti. Ma rimase l’isola dei padri per i profughi che arrivarono sulle coste dell’Italia centrale dando vita alla civiltà etrusca. Tuttavia, era su quest’isola che essi desideravano ritornare nel momento del trapasso attraverso un tuffo nel mare. Così si spiegherebbero le pitture parietali sulle tombe etrusche che rimandano al mare ed i bronzetti che i defunti stringevano tra le mani.

Per quanto affascinante, l’ipotesi di Frau non sembra tenere in conto il fatto che Platone nel Crizia collochi la vicenda di Atlantide novemila anni prima di Solone, ed il fatto che gli scambi, anche etnici, tra la Sardegna nuragica e l’Etruria fossero ben sviluppati. Cosa ulteriormente dimostrata da recenti scavi che hanno portato alla luce nei dintorni di Tavolara un vero e proprio insediamento etrusco.

Se l’identificazione della Sardegna con Atlantide è piuttosto problematica, niente vieta di considerare che il popolo giunto nell’isola attraverso la migrazione da occidente a oriente vi costituì un nuovo centro ad immagine di quello atlantico che avrebbe così assunto il carattere di terza ipostasi della patria primordiale. Infatti, l’idea dell’isola santuario/osservatorio costruita da una élite guerriera e spirituale allo stesso tempo che soffriva il dolore dell’esilio dal polo in cui l’uomo risiedeva a contatto diretto col divino, non sembra così distante dalla realtà.

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Nuraghe Santa Barbara, Marghine, Nuoro. Stampa antica, 1892.
La dimensione del sacro

Nella sua opera Geografia fisica e umana della Sardegna, il Conte Alberto Ferrero della Marmora constata l’impraticabilità di taluni nuraghi come abitazioni (spazio angusto, scarsa luminosità e scarsa aerazione) e la loro scarsa efficienza dal punto di vista militare (una volta bruciato il villaggio sottostante non sarebbe stato difficile per gli assedianti avere la meglio sui nemici asserragliati all’interno del nuraghe), suppose un loro utilizzo come luoghi di culto o quantomeno una loro stretta affinità con la dimensione del sacro.

Studi più recenti condotti da Carlo Maxia e da Edoardo Proverbio hanno cercato di dimostrare come i nuraghi non fossero solo delle fortificazioni o delle abitazioni aristocratiche (edifici monumentali che indicavano il prestigio di chi risiedeva al loro interno), come sostenuto dall’archeologia classica, ma come queste “torri del cielo” venissero adibite a santuari (fatto provato dal vasto numero di figurine votive ritrovate al loro interno) legati a culti astrali o, addirittura, come veri e propri osservatori astronomici: ovvero come capisaldi della ierocrazia destinati alla misurazione del tempo. La necessità di mettere in relazione il tempo con il moto degli astri è proprio di ogni forma religiosa legata ai ritmi del cosmo. Di fatto, l’orientamento dell’apertura di accesso di molti nuraghi corrisponderebbe agli azimut astronomici calcolati dal sorgere al tramontare degli astri più vividi dell’emisfero a noi visibile [12]. Appare dunque evidente la fedeltà del popolo sardo-nuragico al sole, alla luna e agli astri e l’idea che ogni manifestazione luminosa avesse il valore della ierofania.

L’introspezione psicologica dei fatti antichi potrebbe essere favorita in Sardegna, più che in altri luoghi, dalla memoria e dalla continuità che si ritrova inalterata nella terra e negli uomini dell’isola nonostante la lontananza nel tempo. Il canto alle stelle dei pastori che invocano la prosperità delle greggi altro non è che una reminiscenza di quel legame che univa il popolo nuragico agli astri. Ed è per questo che l’antico termine s’ard altro non significa che «danzatori delle stelle».

Tuttavia, è nell’architettura funeraria che si hanno i maggiori riscontri di questa teoria. Le tombe assumono il ruolo di veri e propri marcatori astronomici segnando la levata ed il tramonto del sole e fungendo da evidenziatori del tempo e delle stagioni. Ad esempio, un gigantesco mausoleo megalitico sorge nei pressi del s’arcu de corru’e boi: un valico tra la Barbagia di Ollolai e l’Ogliastra profilato a corna di bue (simbolo della divinità solare taurina, componente maschile della coppia divina della religione nuragica) dietro la quale sorge il sole. Inoltre l’allineamento dei 18 menhir dell’area funeraria di Pranu Mutteddu segna la direttrice equinoziale est-ovest identificando con precisione le due stazioni nord della luna. 

L’esposizione stessa delle tombe così come dei menhir è sempre orientata verso est: verso il sorgere del sole, a sottolineare ancor di più il carattere solare di una religiosità comunque pervasa di spiritualità e magia. Il ruolo centrale del culto dei morti nella religiosità nuragica si è reso evidente con le monumentali “tombe dei giganti”. E la precise relazioni topografiche attraverso le quali le tombe si trovano rispetto alle torri nuragiche denotano un’intima connessione tra i due monumenti.

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Secondo la tesi di Augusto Mulas, autore di “Isola sacra”, le torri di Torralba replicherebbero la costellazione delle Pleiadi.

Lo schema architettonico di questa costruzione funeraria consiste nella presenza di un’esedra che ripete davanti al corpo costruttivo contenente il corridoio funerario il mezzo giro dell’abside in proporzioni più volte maggiori. La costruzione ricorda così la testa bovina (ancora una volta il Dio-Toro solare) col muso arrotondato costituito dal muro a curva e con le corna disegnate nell’ampia esedra a mezzaluna. Talvolta, la tomba era circondata da gruppi o coppie di betili (dall’ebraico Beith-El – casa di Dio) aniconici, lisci o mammellati, che rappresentavano allo stesso tempo i guardiani del riposo degli avi e la ierogamia della coppia divina Dio Toro-Sole/Dea Madre-Luna alla base della rigenerazione della vita. L’unione tra le divinità tutelari era rivolta dunque alla resurrezione degli avi sepolti in queste arche megalitiche, e le pietre avevano la funzione di restaurare metafisicamente la vita del defunto. I menhir affermavano una precisa visione intellettuale e metafisica organica alla dimensione del sacro che rappresentava la forza inviolabile e paurosa dell’arcano. Attraverso il simbolo ortostatico solare si sprigionava il mana: la forza misteriosa del divino.

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Ciascuna di queste costruzioni veniva eseguita seguendo un preciso archetipo simbolico associabile a quello utilizzato in epoca cristiana per la costruzione delle chiese. L’esedra rappresentava uno spazio simbolico propizio al rito. Le tombe dei giganti altro non sono che le tombe degli avi divinizzati: personaggi giganteschi nel fisico, nello spirito e nelle virtù a cui erano associate qualità eroiche superiori e divine. Iolao e i Tespiesi furono sepolti in Sardegna e presso le loro tombe, secondo quanto riportato da Aristotele nella Fisica (IV, 11-1), si praticavano i riti dell’incubazione [13].

Attraverso l’immersione per cinque giorni in un sonno profondo, espressione di una condizione atemporale che lo storico e filologo ungherese Karoly Kerényi [14] definì come uno dei culmini del pensiero primordiale occidentale [15], i dormienti che dormivano presso gli dei/eroi, i cui corpi secondo il racconto di Simplicio «sono rimasti intatti alla decomposizione come se giacessero addormentati», svincolandosi dal tempo per raggiungere uno stato più elevato dell’esistenza, venivano curati da incubi e ossessioni.

L’incubazione, praticata dal popolo libico dei Nasamoni per fini divinatori, veniva utilizzata anche dai cultori di Asclepio ed assunse un ruolo centrale  nell’ermetismo in cui il sonno era considerato come la condizione essenziale e necessaria per la profezia. Si dorme presso gli avi defunti affinché questi appaiano nel sogno per ricevere da essi consigli. Il sonno indica una condizione in cui l’uomo non si rende conto dello scorrere del tempo e, di fatto, è come se questo non esistesse.

Il complesso funerario di Monti Prama, sede dei giganteschi kolossoi, in qualità di monumento di gloria solare di una élite eroica e spirituale le cui tombe sono rivolte verso est, doveva presentarsi come uno dei luoghi capaci di creare lo spazio metafisico atemporale atto al rito dell’incubazione.   

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Volto del “Pugilatore” di Monte Prama.

Il rito sardo mostra comunque evidenti similitudini con quelli di altri popoli. La terra dei Tuareg è sparsa di monumenti megalitici che gli indigeni affermano essere i sepolcri di un’antica razza di giganti (zabbar) semidivini che abitarono quel territorio in un’epoca lontanissima. Nella prossimità di questi monumenti è presente una sorta di spirito del tumulo (idebui) che nel sonno li aiuta fornendo informazioni sui parenti lontani o semplicemente dando indicazioni sulla carovana perduta. Un mito che, ancora una volta, dimostra la straordinaria concordanza etnografica, culturale e paleo-etnografica tra i popoli nuragici e i popoli ancestrali dell’Africa del Nord.

Ora, Solino riporta che presso la tomba di Iolao fu costruito un tempio perché venisse reso il culto a colui che liberò la Sardegna da molti mali. Tuttavia, Iolao, come sostenuto da Raffaele Pettazzoni, altro non è che una ipostasi mitica ed ellenizzante del Dio supremo sardo demiurgo e taumaturgo conosciuto in epoca romana come Sardus Pater. Il simulacro di questa divinità che i Sardi inviarono a Delfi in dono al santuario più importante dell’antichità, riproduceva l’originale conservato nel Sardos Patoros Ieron citato da Tolomeo nella sua Geografia (III, 3-2). Il tempio era situato alle foci di un fiume sacro identificato con il “rio” di Antas. Ed in questo stesso luogo in cui sorgeva il santuario nuragico, gli invasori Cartaginesi costruirono un tempio, successivamente ristrutturato sotto l’imperatore romano Caracalla, nel quale è ancora visibile l’incisione frontale «Sardus Pater Babbai».

L’idea di pater traduce quella cartaginese e fenicia di Baal (Signore/Dio) e con l’apposizione dei termini babbai o abai (padre/avo) si volle alludere apertamente al padre antenato divino delle popolazioni indigene. Il sepolcro di Iolao è il tempio del Sardus Pater; eroe divino che attraversa la terra di Sardegna beneficiando la sua gente. A lui i guerrieri consacravano le loro spade nell’istante che precedeva la battaglia.

Gli Iolai furono la popolazione della Sardegna che maggiormente soffrì la colonizzazione punica. Tuttavia, gli invasori, sia Punici che Romani, riconobbero il valore di questo popolo ed in segno di rispetto inserirono il Dio supremo indigeno nel loro pantheon. Su una colonna votiva ritrovata nei pressi di Pauli Gerrei e risalente al II secolo a.C., un tale Cleone addetto alle saline, rendeva grazie per la sua guarigione al Sardus Pater associandolo ad Eshmun (versione fenicia di Asclepio).

Raffaele Pettazzoni sostenne che la religione sarda, contraddistinta da una costante tensione verso il cielo e i suoi astri, non fu un vero e proprio politeismo, bensì una sorta di monoteismo imperfetto [16]. Il Sardus Pater non è un primus inter pares. Egli ha una posizione eccelsa e assolutamente unica dalla quale domina tutta la religione del suo popolo. Accanto al sommo Dio esistono una collettività di figure divine a lui inferiori che potrebbero essere comunque identificate come suoi attributi. E solo l’antropomorfismo, abbastanza estraneo all’arte sacra sarda, può trasformare gli attributi divini in altrettante divinità.

Ed allo stesso tempo, il Sardus Pater è un Dio mortale alla pari del Dio cretese pre-ellenico successivamente associato a Zeus. Tuttavia la sua morte è stata una rigenerazione ed una trasfigurazione ad un grado superiore dell’essere: la morte come “ultima chiarificazione” della tradizione ermetica. Egli, abbandonando il vincolo umano, ha raggiunto uno stato divino e da ogni vincolo si è liberato divenendo più forte e nobile dei suoi genitori cosmici, cielo e terra (sole e luna). L’idea divina del Sardus Pater non è dissimile da quella di Tirawa; lo spirito padre dei Pawnee nordamericani. E con loro, i nuragici condividevano la credenza che gli astri del cielo fossero altrettante manifestazioni del divino.

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Raffaele Pettazzoni (a destra).

Dopotutto secondo René Guénon qualsiasi vera tradizione è essenzialmente monoteista in quanto afferma innanzitutto l’unità del principio supremo da cui tutto deriva e dipende. E quello sardo è stato un monoteismo imperfetto forse perché influenzato da forme di demonismo ctonio. Alla cultura ipogeica pre-nuragica si devono infatti l’origine dei miti della janas (fate che nelle loro case di roccia tessono stoffe d’oro con telai d’oro) o di Orgia Rabiosa (una strega impazzita dopo la morte del proprio figlio che ricorda da vicino il mito di Niobe) [17].

Questa idea monoteistica non è in contrasto né con il carattere animistico della religiosità sarda né con l’idea della coppia divina a fondamento della rigenerazione della vita. Quello della coppia divina è un modello religioso che ha riscontro in altre aree del Mediterraneo: dalla civiltà cretese in cui il Toro si rende in grembo a Pasifae (dea erotico-lunare e moglie di Minosse) attraverso la vacca di legno costruita da Dedalo, all’Egitto in cui il dio Horus veniva chiamato anche Kamoutef (Toro), fino al mito di Attis e Cibele.

Nella civiltà sarda, la Dea Madre lunare è una divinità onniveggente (viene chiamata anche «dea degli occhi») e rigeneratrice. Il Dio Toro solare è complementare ad essa e le corna e i dischi sono i suoi simboli di riferimento. Ma la Dea Madre oltre ad essere una divinità della vita è anche una divinità della morte. Il ritorno nel grembo dell’acqua indica il compimento del ciclo della vita e del ritorno alla divinità materna. Questo è il tema della morte come trapasso sull’acqua il cui segno è la spirale [18]. I motivi spiraliformi suggeriscono l’idea escatologica dell’aldilà e indicano la via per la resurrezione ancora una volta attraverso l’acqua: simbolo della vita in quanto suo elemento originario e dell’infinito [19].

Il passaggio sull’acqua come presupposto per la rinascita lo si ritrova ancora una volta nella tradizione ermetica: «Saranno simboli per questa realizzazione – scrive Julius Evola – le figure dei “Salvati dalle acque”, di quelli che “camminano sulle acque”, e altresì il traversare il mare o la corrente (donde anche tutte le varietà del simbolismo della navigazione), e il sospingere a ritroso la corrente. Quest’ultima, secondo il Corpus Hermeticum, è la direzione per raggiungere lo stato di quelli che sono nella gnosi» [20]. Qui avviene la nascita secondo l’essenza di coloro che sono e non più divengono, alla pari del Dio/eroe mitico dei sardi.

La ierogamia della coppia divina si compiva sull’altare dello ziqqurath di Monte d’Accoddi: costruzione megalitica risalente addirittura ad un’età ancora pre-nuragica. Legato all’idea dell’axis mundi e dell’albero della vita, su questo altare il Dio-Toro solare discendeva per unirsi ritualmente con una sacerdotessa immagine terrena della Dea Madre [21]

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Ziqqurath di Monte d’Accoddi.

La struttura del monumento, alto 10 metri e costruito su due terrazze, richiama, seppur in versione ridotta, quella dell’Etenemaki di Babilonia, alto più di 90 metri suddivisi in cinque terrazze sormontate in cima dall’altare col letto d’oro sul quale il dio Marduk giaceva con una sacerdotessa a seguito della sua notturna discesa dal cielo. Tuttavia, oltre alle tecniche di costruzione, questo luogo di contemplazione celeste mostra delle sostanziali differenze rispetto al modello accadico-sumerico: la presenza di due menhir (uno in calcare bianco ed uno in arenaria rossa) e di una grossa pietra sferica ricoperta di microcoppelle che si presume descrivano le costellazioni. I due menhir indicano rispettivamente i due astri celesti (la luna e il sole), mentre la pietra sferica è un omphalos: un simbolo del centro del mondo. Come ricorda Guénon [22]:

« Il simbolo dell’omphalos poteva essere posto in un luogo che fosse semplicemente il centro di una determinata regione, centro spirituale, del resto, più che geografico, benché i due possano coincidere; ma, in tal caso, quel punto era veramente per il popolo che abitava la regione considerata, l’immagine visibile del centro del mondo. »

L’omphalos materialmente rappresentato come una pietra sacra è al contempo casa di Dio e porta del cielo. A ciò si aggiunga che secondo lo studioso Eugenio Muroni la simmetria dell’altare riprodurrebbe le stelle della Croce del Sud, oggi non più visibile nella regione a causa della processione degli equinozi [23].

Diversi altri luoghi hanno segnato la geografia sacra della Sardegna nuragica. Si tratta in particolar modo delle città santuario costruite nei dintorni dei pozzi sacri, sedi del culto delle acque. In Sardegna sia le acque di fonte (come dimostrato dal fatto che ogni villaggio venisse costruito nei pressi di una sorgente) sia le acque piovane, in virtù delle loro comune origine divina, erano considerate al pari sacre. Esistevano vere e proprie operazioni volte a propiziare i temporali. Una di queste era il rito (attuato ancora oggi dai pastori di Abini Teti) di percuotere le rocce con dei bastoni per svegliare gli spiriti ed indurli a scatenare la tempesta. Una “evocazione” che mostra notevoli similitudini con quella dei cosiddetti «facitori di pioggia» (rainmakers) nordamericani.

Esisteva altresì una sorta di battesimo nuragico come rito purificatore dei neonati che, attraverso il lavaggio nell’acqua sacra, rimuoveva dal fanciullo ogni forma di impurità fisica e psichica. Ed esistevano anche riti ordalici (la prova dell’acqua) che presentano notevoli similitudini con le Urtheil dei popoli germanici. L’acqua era una sorta di dispensatrice della giustizia divina e perdere il lume degli occhi a seguito di tale prova, costituita essenzialmente dal bagnarli nell’acqua sacra,  portava in sé la dimostrazione o sanzione di colpevolezza. Mentre un esito nullo, oltre a dimostrare l’innocenza, avrebbe accresciuto la caratura morale e spirituale di colui che ne veniva sottoposto.

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Tracce della religiosità dell’acqua si ritrovano sia in Nord Africa così come tra gli arabi, sia in epoca pre-islamica che nell’età successiva alla Rivelazione. Lo stesso termine Sharia indica la via verso una fonte d’acqua nel deserto e dunque verso la salvezza. Ed è credenza diffusa che l’acqua possa scacciare gli spiriti malefici (jinn).

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Pozzo sacro nel complesso del santuario nuragico di Santa Vittoria.

I santuari di Santa Vittoria di Serri ed il pozzo di Santa Cristina di Paulilatino sono i monumenti più evocativi ed affascinanti della civiltà nuragica legati al culto delle acque. Incastonato in una solitudine maestosa ed incantata tra monti, fonti d’acqua e foreste, il santuario di Santa Vittoria si presenta come un sito ideale nel quale celebrare la presenza del divino tra gli uomini. Il paesaggio geografico stesso, un altopiano interamente consacrato, fungeva da altare attraverso il quale rapportarsi col sentimento del sacro [24]. Il tempio a pozzo era l’edificio principale della città santuario e nei suoi pressi annualmente si svolgevano celebrazioni, riti e sacrifici. Le stesse danze assumevano un valore spirituale di esaltazione religiosa [25]:

« Ai servizi del culto ed alle manifestazioni religiose della festa, dentro o fuori dai templi, o nel più vasto respiro dei santuari si legavano ritualmente musica, danza e canti […] Il ballo tondo, varietà della danza sacra corale mediterranea, perdura tutt’ora in Sardegna articolandosi in ritmi e movenze variati, ora lente, ora acrobatiche, ora in cadenza religiosa, ora in frenesia magico-estatica. »

In questi santuari i pellegrini portavano i loro ex-voto (i bronzetti) che venivano depositati negli atri dei templi ed ai quali aggiungevano offerte liquide e solide (miele, pane, olio e formaggi). Il santuario di Santa Cristina [26] mostra invece delle interessanti connotazioni archeo-astronomiche. A tal proposito, Guido Cossard ha notato che [27]:

« Il rapporto tra la base e l’altezza della cupola del pozzo coincide con un piccolissimo margine di errore alla geometria astronomica. La linea che parte dal punto nord della base della cupola e arriva all’apertura in alto, forma un angolo che coincide con l’angolo con cui la luna attraversa il meridiano nel giorno del lunistizio maggiore settentrionale; cioè il punto estremo che raggiunge la luna nel suo moto apparente nel cielo. In analogia al solstizio, il lunistizio definisce il momento in cui la luna raggiunge la massima declinazione del suo ciclo mensile. »

Arnold Lebeuf nel suo studio interamente dedicato al pozzo di Santa Cristina lo ha definito un vero e proprio «specchio del cielo». Il ricercatore ha calcolato inoltre che ogni 18 anni e 6 mesi la luna si rifletteva sul fondo del pozzo e che gli stessi bordi dei filari di pietra dei gradini venivano utilizzati come strumento di misurazione del moto lunare anche allo scopo di prevederne le eclissi [28]Appare così chiaro che l’osservazione del moto lunare, legato alla Dea Madre, avesse dei caratteri più propriamente rituali rispetto al ciclo solare legato alle pratiche agricole ed alla rigenerazione ciclica della vita.

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Pozzo sacro nel complesso archeologico di Santa Cristina di Paulilatino.
Conclusione

Ben lontana dai connotati barbarici che le attribuiva Pausania, la civiltà dei Sardi ha avuto un carattere peculiare intrinsecamente connesso alle specificità fisiche e umorali della terra che questi abitarono. L’assenza di una tradizione scritta non comporta necessariamente un grado minore di civiltà. Una tradizione esclusivamente orale è spesso associata ad una dottrina spirituale e ad una concezione propriamente metafisica inesprimibile attraverso il linguaggio scritto ma che in taluni casi necessita dello strumento del simbolo. Questa può essere la ragione per la quale una civiltà che ha dimostrato un livello di sviluppo elevato sul piano sociale, militare e architettonico ed uno stile di vita profondamente permeato dalla dimensione del sacro non ha comunque prodotto una tradizione scritta.

Nell’arte pre-nuragica, ed in particolar modo in quella della cultura di San Michele, si esprimeva chiaramente l’idea dell’uomo nei confronti del divino attraverso le cerimonie, i riti e i miti. La geometria primordiale delle forme artistiche non era altro che un principio di astrazione volto a superare lo specifico naturale per raggiungere il livello universale del soprasensibile. L’età nuragica, pur recuperando un certo antropomorfismo (caratteristico di una civiltà eroica) che si contraddistinse nella creazione delle figurine votive [29], mantenne intatto l’ideale dell’astrazione concettuale propria di una prospettiva intellettuale in cui veniva privilegiato l’aspetto metastorico. Questo superamento della natura attraverso il simbolo era sollecitato da una precisa volontà di comprendere il mondo e i suoi fenomeni attraverso un’interpretazione metafisica. E in fin dei conti la verità metafisica immediata «l’Essere è», tradotta in termini spirituali o religiosi non può che trasformarsi in «Dio esiste», e dunque nella constatazione diretta della presenza divina. Una presenza che permeava ogni aspetto della vita interiore ed esteriore di un popolo che viveva su un piano inclinato verso la trascendenza. 


Note:

  1. M. Eliade, Storia delle credenza e delle idee religiose (Vol. I), BUR Rizzoli, Milano 2006, p. 133.
  2. M. Pittau, Il dominio sui mari dei popoli tirreni. Sardi nuragici, Pelasgi, Etruschi, Ipazia Books, Dublino 2013, p. 42.
  3. G. Lilliu, La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, Il Maestrale, Nuoro 2017, pp. 459-460.
  4. V. G. Childe, The Bronze Age, Cambridge University Press, Londra 2011, p. 132.
  5. Giovanni Lilliu identifica almeno quattro differenti popoli nuragici che abitavano diverse zone della Sardegna: gli Iolai (Campidano); i Sardi (sud); i Balari (Logudoro); i Corsi (Gallura).
  6. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, pp. 242-243.
  7. Si veda a tal proposito Genesi (VI, 1-8).
  8. Pausania, Periegesi della Grecia (X, 17-5).
  9. Nato in Libia, dove Apollo condusse Cirene dopo averla rapita, su ordine di Ermes venne allevato dalle ninfe che gli insegnarono l’arte della pastorizia e dell’apicoltura, mentre il centauro Chirone lo iniziò all’arte venatoria. Invaghitosi di Euridice, Aristeo tentò di farla sua, ma questa fuggendo calpestò una serpe che la uccise col suo veleno. Le ninfe per dispetto distrussero i suoi alveari. Tuttavia, il semidio, su suggerimento della madre offrì un sacrificio alle muse per placare la loro ira e, tornato sul luogo dell’olocausto dopo nove giorni, trovò uno sciame di api che fuoriusciva dalla carcassa del toro sacrificato, cosicché poté cominciare nuovamente a produrre il miele. Una statuetta di Aristeo venne ritrovata a Dule nel 1843 come riportato nel testo di Giovanni Spano Aristeo a Dule.
  10. La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, ivi cit., p. 471.
  11. Si veda a tal proposito M. Maculotti, Enigmi del Mediterraneo: i Guanci, i Popoli del Mare, Atlantide, su AXISmundi.
  12. C. Maxia – E. Proverbio, Orientamenti astronomici dei monumenti nuragici, Estratto dai Rendiconti dell’Istituto Lombardo, Accademia di Scienze e Lettere, Vol. 107, Milano 1973.
  13. Cfr. B. Udai Nath, Parmenide, sacerdote di Apollo: la “incubatio” e la guarigione sacra, su AXISmundi.
  14. Cfr. K. Kerényi: “Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna”, su AXISmundi.
  15. K. Kerényi, Miti e misteri, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 122.
  16. R. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 1981, p. 92.
  17. Grazia Deledda nel suo romanzo Canne al vento elenca tutti i personaggi mitici legati alla cultura ed al folklore sardo: janas, panas (donne morte di parto), l’ammattadore (folletto con sette berretti entro i quali nasconde un tesoro), giganti, orchi e vampiri dalla coda d’acciaio. Scrive l’autrice nuorese: «nelle notti di luna piena tutto questo popolo misterioso anima le valli e le colline;  l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole».
  18. Cfr. M. Maculotti, Il simbolismo della Spirale: la Via Lattea, la conchiglia, la “rinascita”, su AXISmundi.
  19. La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, ivi cit., p. 269.
  20. J. Evola, La tradizione ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 2002, p. 77.

  21. G. Lilliu, Prima dei nuraghi, in AA.VV., La società in Sardegna nei secoli, ERI Edizioni, Torino 1967, pp 15-16.
  22. R. Guénon, Il Re del mondo, Edizioni Adelphi, Milano 1977, pp. 88-89.
  23. Si veda a tal proposito E. Muroni, Monte d’Accodi. La dimenticata nave di una patria perduta, Il Terzo Millennio, Roma 1970.
  24. I sardi nuragici adoravano anche gli alberi dei boschi sacri popolati da creature fantastiche e dallo spirito del bosco che i romani identificarono con il nume latino Silvano. A tal proposito Gregorio I Magno, indispettito dalla resistenza dei Sardi dell’entro terra alla conversione al cristianesimo, scrisse: «barbaricini omnes, ut insensata animalia vivant, Deum verum nasciant, ligna autem et lapides adorent».
  25. La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, ivi cit., p. 661.
  26. É curioso notare come i luoghi dei santuari nuragici si siano successivamente trasformati in luoghi di culto cristiani. Solitamente i vescovi cristiani stanziatisi nelle città più popolose in prossimità delle coste attribuivano a santi e martiri cristiani, locali e non, dei miracoli compiuti nelle vicinanze dei vecchi santuari nuragici in modo tale sia da giustificare la prosecuzione e resistenza di certi riti ancestrali in epoca cristiana e sia per assecondare la diffusione della nuova religione tra la popolazione. Così sante e santi cristiani vennero collegati all’antica religiosità delle acque e delle fonti sacre nuragiche. A questo proposito si può vedere A. Massaiu, Le lontane origini del carnevale sardo, su AXISmundi.
  27. G. Cossard, Cieli perduti. Archeoastronomia: le stelle degli antichi, Utet Editore, Torino 2010, p. 98.
  28. A. Lebeuf, Il pozzo di Santa Cristina. Un osservatorio lunare, Edizioni Tlilan Tlapalan, Cracovia 2011, p. 151.
  29. Di particolare interesse sono soprattutto quelle iperantropiche ritrovate nel santuario di Abini Teti, con quattro occhi, quattro braccia o quattro gambe, tendenti a riflettere una condizione semidivina e di accresciuta forza nei sensi e nel corpo.

Bibliografia:

  • AA.VV., La società in Sardegna nei secoli, ERI Editore, Torino 1967.
  • Vere Gordon Childe, The Bronze Age, Cambridge University Press, Londra 2011.
  • Guido Cossard, Cieli perduti. Archeoastronomia: le stelle degli antichi, Utet Editore, Torino 2010.
  • Sergio Frau, Le Colonne d’Ercole. Una mostra, le prove, Nur Neon, Cagliari 2006.
  • Id., Omphalos. Il primo centro del mondo, Nur Neon, Cagliari 2017.
  • Karoly Kerényi, Miti e misteri, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
  • Arnold Lebeuf, Il pozzo di Santa Cristina. Un osservatorio lunare, Edizioni Tlilan Tlapalan, Cracovia 2011.
  • Giovanni Lilliu, La civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, Il Maestrale, Nuoro 2017.
  • Leonardo Melis, Shardana. I Popoli del Mare, Ptm Editrice, Mogoro 2002.
  • Eugenio Muroni, Monte d’Accodi. La dimenticata nave di una patria perduta, Il Terzo Millennio, Roma 1970.
  • Massimo Pallotino, Etruscologia, Hoepli, Milano 2016.
  • Raffaele Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 1981.
  • Giangiacomo Pisu, S’ard. I danzatori delle stelle: simbolismo, sciamanesimo e religione cosmica nella Sardegna dei nuraghi, Ptm Editrice, Mogoro 2014.
  • Massimo Pittau, Il dominio nei mari dei popoli tirreni: Sardi nuragici, Pelasgi, Etruschi, Ipazia Books, Dublino 2017.
  • Giovanni Ugas, Shardana e Sardegna. I Popoli del Mare, gli alleati del Nord Africa e la fine dei grandi regni (XV – XII secolo a.C.), Edizioni la Torre, Cagliari 2016.

2 commenti su “Sacralità, mito e divinità nella civiltà degli antichi Sardi

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