Il mito dell’occultamento nelle tradizioni eurasiatiche

Breve excursus lungo il percorso storico, filosofico e religioso attraverso il quale si è sviluppato il tema dell’occultamento del divino nel grande spazio eurasiatico: un tema che dimostra una volta in più l’unità spirituale primordiale di questo vasto continente interiore


di Daniele Perra
articolo pubblicato su L’Intellettuale Dissidente
e ripubblicato in questa sede corredato di note
immagine: Nicholas Roerich


Turan è una parola antichissima. È l’antico nome iranico con il quale si identificava lo spazio geografico dell’Asia centrale. Il termine, di chiara matrice etimologica indoeuropea, indica nell’Avesta la «Terra dei Tur»: ovvero, del popolo nomade dei Tuirya, nemico per antonomasia degli Irani, sedentari e stanziali. Solo con lo Shahnameh di Firdusi il termine “turanici” inizierà a riferirsi ai popoli turchi; sebbene non vi fosse una reale connessione tra cultura turanica e cultura degli antichi turchi.

Iranismo e turanismo, di fatto, rappresentano due differenti interpretazioni del logos indoeuropeo. Turan è la madrepatria della cultura nomade indoeuropea. È il centro eterno dal quale si sono diffusi i popoli che abitano questa immensa dimensione spaziale. L’Iran, invece, è la terra abitata da tribù provenienti dal medesimo spazio turanico che, col passare del tempo, si sono sedentarizzate perdendo l’originaria caratteristica nomadica e pastorale della cultura indoeuropea [1].

Ibn Khaldun, nella sua monumentale opera al-Muqadimah, pur riferendosi principalmente ai popoli della Penisola Arabica, dimostrò come le popolazioni nomadi, maggiormente disposte ad atti di coraggio e ad uno stile di vita umile e lontano dal lusso rispetto a quelle sedentarie, vivessero una condizione esistenziale di compartecipazione all’eternità ed alla dimensione del sacro.

Lo spazio esistenziale dei popoli indoeuropei, di fatto, era contraddistinto da una concezione spirituale del mondo fondata sull’interdipendenza tra l’uomo e la natura e tra l’ordine fisico e quello metafisico. In questa dimensione la morte e il male non esistevano. L’uomo era un prodotto della Luce che si sprigiona dall’Eterno e la morte era concepita solo come un ritorno alla Luce originaria. L’anima discendeva sulla terra solo in vista dell’ascensione futura. Tutto era verticalità e gerarchia. Una verticalità ampiamente espressa sia nelle tombe a tumulo della civiltà di Kurgan, ben descritta e raccontata dall’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas, che nello stesso schema trifunzionale (Re/Sacerdoti – Guerrieri – Contadini) attraverso il quale Georges Dumézil descrisse la società tradizionale indoeuropea. In questa prospettiva il male veniva inteso essenzialmente come lontananza dal bene; come rifiuto dell’ordine gerarchico o come uscita dal sistema delle caste per ciò che concerne prettamente l’induismo identificato da René Guénon proprio come la tradizione più simile a quella primordiale.

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Iran e Turan, cartina.

A differenza della visione “turanica” del mondo come ipostasi terrena, estranea al male, della sorgente eterna di luce, la cosmovisione iranica si fondava su di un principio dualistico in cui luce e oscurità, bene e male, si contendevano reciprocamente il dominio sull’uomo e sul mondo. Dunque, il male non solo esisteva e minacciava l’uomo e il mondo con le sue lusinghe ma, cosa ancor più sorprendente, esso, seppur temporaneamente, poteva addirittura avere la meglio sul bene.

È attraverso il logos filosofico e religioso iranico (una vera e propria metafisica della luce) che il tempo assume il valore dell’attesa e della speranza nella resurrezione; nel trionfo definitiva del bene sul male. In questa prospettiva si inscrive il mito zoroastriano del Saoshyant: colui che nella redenzione cosmica finale guiderà le schiere del bene nella battaglia contro le forze del male e condurrà alla rinnovazione del mondo. E questa prospettiva messianico-escatologica influenzerà non poco anche il pensiero religioso ebraico nel periodo della cattività babilonese.

E sempre lungo l’orizzonte esistenziale iranico si sviluppò l’idea, poi ripresa del cristianesimo attraverso il concetto di Katechon, dell’Impero come potere frenante. Il Re/Sacerdote, tracciando i confini e consacrando lo spazio sottoposto alla sua autorità, ristabilisce il rapporto tra ordine fisico e metafisico minacciato dalla comparsa del male nel mondo. Di fatto, il Re, nella tradizione iranica pre-islamica, apparteneva alla casta dei magi e ne era a capo in quanto dotato, in virtù della sua gloria solare regale, di sovrannaturale intelletto. Una caratteristica che lo accomunerà agli Imam dello sciismo, capi politici e religiosi al contempo, capaci della comprensione di ciò che realmente è e non solo delle mere e illusorie forme sensibili.

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Questi uomini appartengono a quell’ordine metafisico il cui centro si trova nella regione superiore dell’Essere e che per sua natura si contrappone alla regione inferiore del divenire. Il loro occultamento rappresenta, non solo un sottrarsi al destino di un mondo pervaso intrinsecamente dal male, ma anche il passaggio alla natura immortale; alla sfera dell’intangibilità che, in quanto sovramondo, è principio e vita vera. Essi sono soggetti partecipi del divino, non soggetti-esuli come gli uomini mortali. Con il loro occultamento, dovuto alla momentanea vittoria del male, è il paradiso stesso ad occultarsi fino al momento della redenzione finale.

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Nicholas Roerich, “The Last Days of Atlantis”.

Il mito dell’occultamento del divino è comune a diverse tradizioni eurasiatiche, dall’Occidente all’Oriente, sin dall’antichità. Zeus nacque e visse i primi istanti della sua vita nel dikteon andron di Creta, nutrito dalla ninfa Amaltea sotto forma caprina, in modo che potesse sfuggire alla furia divoratrice del padre Kronos; dio titanico del tempo e della fertilità, figlio di Urano e Gea, atterrito dalla profezia che vedeva il suo trono vacillare per mano del suo stesso figlio. Ed in quella stessa grotta, centro sacro fuori dal tempo all’interno del quale nessun altro poteva nascervi o morirvi, il giovane Epimenide, in cerca delle sue greggi, si addormentò risvegliandosi cinquantasette anni dopo, non mutato nell’aspetto fisico dall’esperienza atemporale sotterranea [2].

L’idea della grotta come nascondiglio, come luogo di esistenza fuori dal tempo e di accadimenti sovraumani, ritorna in modo evidente in epoca cristiana nella vicenda dei sette dormienti di Efeso. Un racconto riportato anche da Jacopo de Varazze nella sua Legenda Aurea, ed al quale Louis Massignon dedicò uno studio particolare ed appassionato anche in virtù del ruolo di rilievo dato a questa vicenda nella sura coranica della caverna.

Durante le persecuzioni dei cristiani sotto l’Imperatore romano Decio (250 d.C. all’incirca), sette giovani efesini vennero chiamati a rinnegare la propria fede cristiana di fronte ad un tribunale. Rifiutatisi di adorare gli idoli pagani, vennero condannati ma lasciati momentaneamente in libertà. Così i sette ragazzi, onde evitare l’arresto, decisero di nascondersi all’interno di una caverna sul monte Celion dalla quale solo uno di loro, travestito da mendicante, andava e veniva per procurare cibo. Tuttavia, scoperti dalle autorità, i sette vennero murati vivi all’interno della caverna nella quale si addormentarono in attesa della morte. Vennero risvegliati da alcuni pastori che sfondarono il muro con l’obiettivo di fare spazio ad un ovile. Erano passati oltre duecento anni e i sette dormienti si resero conto che il cristianesimo era divenuto la religione ufficiale dell’Impero. Essi perirono lo stesso giorno del loro risveglio e l’Imperatore Teodosio II, al quale apparvero in sogno chiedendo di rimanere nella grotta fino al giorno della resurrezione, fece ricoprire la loro tomba di pietre dorate [3]

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I Sette Dormienti di Efeso, icona russa del XIX sec.

La storia, seppur non venga specificato il numero dei dormienti, è ripresa nel Corano ed è presentata come testimonianza della futura resurrezione dei corpi nella sura al-Kahf (la caverna) che ha ricoperto un ruolo cruciale nell’elaborazione dottrinale dell’escatologia islamica. Infatti, oltre al racconto dei dormienti di Efeso, in questa sura si racconta la storia di Dhu’l al-Qarnayn (il Bicorne, identificato con Alessandro Magno e con l’idea dei suoi “due cicli” e delle sue “due età”): un sovrano, divinamente ispirato, che realizzò un Impero, governò attraverso la legge divina e rinchiuse all’interno di una muraglia le malefiche genti di Gog e Magog. Egli è “colui che trattiene” e la sua istituzione imperiale è catecontica. Ma, come Dhu’l al-Qarnayn stesso afferma:

« Quando verrà il giorno promesso dal mio Signore, Egli ridurrà in polvere la muraglia, e la promessa del mio Signore è Verità. »

Un importante hadith riporta che il Profeta Muhammad ebbe la visione di una fessura che si apriva all’interno della muraglia e mise in guardia gli arabi contro un grande male che si stava avvicinando. Mentre un altro hadith racconta di come Dio, alla fine dei tempi, aprirà la muraglia e lascerà che le orde malefiche portino distruzione in ogni luogo. Queste «berranno le acque del lago di Tiberiade e lo prosciugheranno, berranno poi le acque del Tigri e dell’Eufrate». Dio, infine, annienterà queste orde e le spazzerà via dalla faccia della terra.

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Ma la Sura della caverna è fondamentale perché in essa fa la sua comparsa anche la figura di al-Khidr: spirito guida che, soccorso Mosè mentre si apprestava a raggiunger il “confluir di due mari”, lo accompagnerà alla scoperta della retta via e dell’imperscrutabilità del volere divino. Al-Khidr ritorna nuovamente come accompagnatore di Alessandro Magno nella terra delle tenebre alla ricerca della fonte della vita. Un viaggio che solo lui riuscirà a portare a compimento condannando Alessandro a rimanere intrappolato in un destino di mortalità [4].

Ora, per sottolineare ancora una volta il ruolo centrale della sura, un altro hadith narra che le reali ragioni dell’occultamento del dodicesimo Imam (il Signore del tempo – Sahib al-Zaman) Muhammad al-Mahdi, scomparso non a caso in una grotta nei dintorni di Samarra nel 874 d.C. (anno di inizio dell’occultamento minore – ghaybat al-sughra – preludio al grande occultamento – ghaybat al-kubra – iniziato  nel 940), saranno rivelate solo nel momento della sua ricomparsa, così come le ragioni dell’apparente ambiguo comportamento di al-Khidr non vennero immediatamente rivelate a Mosè.

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Miniatura persiana del XVI secolo che illustra la costruzione delle Porte di Alessandro allo scopo di tenere lontani Gog e Magog dalle popolazioni civilizzate.

Il tema dell’occultamento è ripreso in Occidente nella tradizione ghibellina: quella che Julius Evola definiva come una «splendida primavera d’Europa stroncata sul nascere» [5]. Il mito, in questo caso, è legato alla «stirpe divina» degli Hohenstaufen. Federico I Barbarossa, infatti, continuerebbe a vivere avvolto in un «sonno magico» assieme ai suoi cavalieri nell’attesa di ridiscendere a valle dal simbolico monte Kiffhauser, quando i corvi finiranno di girare attorno al monte e l’Albero Secco germoglierà di nuovo, per combattere la battaglia decisiva che determinerà il sorgere di una nuova era del mondo. A sua volta, anche Federico II (in qualità di espressione di un potere che frenò l’avvento dell’Anticristo) ricevette, per mano del Prete Gianni, un anello che gli diede il dono dell’invisibilità. E lo stesso Stupor mundi, durante il suo viaggio in Terra Santa, entrò in contatto col Vecchio della Montagna (shaykhu’l-giabal) e quella setta ismailita degli assassini il cui nome, secondo lo storico Pierre Ponsoye, deriverebbe dalla parola araba assas (guardiano) e richiamerebbe al loro ruolo di custodi di un centro spirituale tradizionale [6].

Albero e montagna sono due simboli assiali di fondamentale importanza. Secondo alcune leggende anche Alessandro Magno sarebbe scomparso all’interno di una montagna per poi riapparire alla fine dei tempi. Ed una montagna fece da sfondo all’apparizione del Mahdi a Jamkaran nel 984 d.C., su una piana desertica a pochi chilometri da Qom, attraverso la quale il discendente del Profeta, rivestito di luce divina, ordinò ad un vecchio del posto di costruire un luogo di preghiera. Allo stesso tempo, l’albero del paradiso è associato all’Impero per la naturale relazione che intercorre tra ogni vera manifestazione imperiale e la tradizione primordiale. L’attributo “secco” (la “pianta dispogliata” vista da Dante nel paradiso terrestre) è legato ad un periodo di decadenza che è necessario superare [7].

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Questo periodo di decadenza è quello che il filosofo tedesco Martin Heidegger, ben più vicino ai nostri tempi, definiva «l’evo del mondo»: un’era segnata dall’inautenticità dell’esistenza in cui il divino si è occultato a causa dell’assenza o del pervertimento di una visione metafisica dell’universo. “L’Imam si è nascosto – affermava il grande iranista ed estimatore e studioso proprio di Heidegger, Henry Corbin – perché gli uomini si sono resi incapaci di vederlo” [8]. E compito di ogni fedele sciita, come non si stancò mai di ripetere l’Imam Khomeyni, è quello di essere un cooperatore dell’Imam nascosto in modo da prepararne la Parusia.

La tradizione vedica insegna che l’uomo deve inseguire il divino, la luce nascosta, il sole occulto o Agni (divinità-attibuto divino che rappresenta le forze della luce) che talvolta è detto occultarsi nel suo rifugio [9]. Ad Agni è associato il numero sacro del sette: difatti sette sono le madri e le sorelle ed i raggi di luce divina da cui è circondato. Ma il numero sette è sacro per tutte le tradizioni eurasiatiche. Sette sono i doni dello Spirito Santo nel cristianesimo; sette sono i sigilli la cui rottura annuncerà la fine del mondo nell’Apocalisse di Giovanni; sette sono le braccia del candelabro ebraico (menorah); sette sono gli attributi fondamentali di Allah e sette sono i cieli da lui creati e le parole della prima sura del Corano così come i gradi delle interpretazioni esoteriche del Libro; sette sono gli Imam della tradizione ismailita che rifiuta l’enfasi riposta nel pleroma del dodici da parte degli imamiti.

Tale alla “caccia” ad Agni deve essere la cerca/preparazione del ritorno dell’Imam (mahdaviat). Un vero fedele sciita, dunque, non può rimanere con le mani in mano in attesa della manifestazione del Mahdi [10]. In questa breve sentenza è racchiusa l’idea a fondamento delle lezioni sul governo islamico e sul vicariato del giureconsulto che hanno segnato il percorso ed il trionfo di quella Rivoluzione iraniana tanto profondamente osteggiata dagli appariti di pensiero del nichilismo occidentale.

Alla pari dell’Iran, è solo riscoprendo l’intrinseco valore delle proprie radici e tradizioni che l’Europa può realmente rinnovarsi e superare il profondo stato di decadenza in cui fluttua nell’attesa di sprofondare definitivamente nell’abisso. Come affermava ancora una volta Heidegger [11]:

« Gli dèi che ci sono stati una volta torneranno solo nel tempo opportuno, cioè quando gli uomini, per quanto sta in loro, si saranno rivolti al luogo giusto e nel momento giusto. »

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L’Imperatore dormiente Federico Barbarossa nelle viscere del monte Kyffhäuser. Secondo la leggenda, egli non sarebbe mai morto, ma aspetterebbe il momento del suo ritorno in compagnia dei suoi cavalieri più coraggiosi e fedeli. Il suo ritorno è previsto, secondo la versione dei fratelli Grimm, per “quando le aquile smetteranno di volare”. L’iconografia (si notino soprattutto i due corvi) lo ricollega direttamente all’Odino/Wotan della tradizione nordico-germanica, di cui dunque è, come pure l’Artù della tradizione britannica, una copia funzionale.

Note:

[1] A. Dugin, Introduction to Noomahia. Lecture III – Logos of Indo-European Civilization, su http://www.geopolitica.ru.

[2] Si veda a tal proposito K. Kerényi, Miti e misteri, Bollati – Boringheri, Torino 2010, nonché Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna, su AXISmundi.

[3] Si veda a tal proposito L. Massignon, Apocalisse islamica. I sette dormienti di Efeso, Mimesis, Milano 2012.

[4] C. Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, p. 38.

[5] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 350.

[6] C. Mutti, Introduzione a A. De Stefano, L’ideale imperiale di Federico II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1978, pp. 19-24.

[7] Ibidem.

[8] H. Corbin, L’Imam nascosto, Edizioni SE, Milano 2008, p. 68.

[9] A. K. Coomaraswamy, La filosofia dell’arte cristiana e orientale, Abscondita, Milano 2005, p. 140. 

[10] R. Khomeyni, Il governo islamico, Il Cerchio, Rimini 2007, p. 25.

[11] M. Heidegger, Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2014, p. 627.


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