Il “tapas”, la libido e la vittoria sulla necessità

Le tappe dello sviluppo della coscienza sono racchiuse nel mito, il quale conduce alla realizzazione consapevole del destino individuale, la cura come riattualizzazione del mito diventa mitobiografia in un percorso che da Jung, attraverso Neumann e Bernhard arriva fino a Romano Màdera.


di Roberto Cecchetti

Nella prefazione a Storia delle origini della coscienza [1] di Erich Neumann, Jung scrisse che l’autore «è pervenuto così a delle conclusioni e a delle nozioni, che vanno annoverate fra le più importanti mai raggiunte in questo campo» [2]In quell’opera Neumann, nel solco dell’insegnamento junghiano, si addentrava in uno studio dei diversi stadi dello sviluppo filogenetico dell’io e quindi della coscienza, ampliando ed in taluni casi correggendo, alcune delle più importanti scoperte del maestro.

In questo senso il recupero del mito, con particolare riferimento alla tradizione egizia e greca, è il punto di partenza dello studio sugli sviluppi della coscienza in quanto come narrazione archetipica universale viene studiato quale prodotto delle proiezioni delle dinamiche inconsce transpersonali della psiche dell’uomo, delle cosiddette “leggi eterne della psiche”. Nel mito ci vengono offerte le varie fasi dello sviluppo della coscienza: l’Ouroboros, la Grande Madre, la separazione dei genitori del mondo, la nascita dell’eroe e l’uccisione del drago con la conquista del tesoro.

In effetti il testo di Neumann, pubblicato nel 1949, si pone quale esplicita prosecuzione di quel lavoro capitale del maestro C.G. Jung, ovvero Libido, simboli della trasformazione (Wandlungen und Symbole der Libido) [3], testo che attraversa un quarantennio della vita dell’autore e che può essere definito come il “libro di una vita”, come scrive, nei suoi lavori su Jung, Romano Màdera. Nella prefazione alla quarta edizione, quella del 1950, Jung scriverà che:

« Il mito è, come ebbe a dire un Padre della Chiesa, “quod sempre, quod ubique, quod ab omnibus creditur” [ciò che è creduto sempre, ovunque, da tutti], quindi colui che crede di vivere senza mito o al di fuori di esso costituisce un’eccezione. Di più: è un uomo che non ha radici, senza un vero rapporto con il passato, con la vita degli antenati (che pure continua in lui) e con la società umana del suo tempo. »

E poco dopo Jung qui si chiede quali siano i miti che governano la nostra vita, quale sia il destino che dirige la nostra esistenza:

 « Fui indotto a chiedermi con tutta serietà “Che cos’è il mito che vivi?” […] Non sapevo di vivere un mito e, quand’anche lo avessi saputo, non avrei per questo i preso conoscenza del mito che, a mia insaputa, regolava la mia vita. »

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Carl Gustav Jung.

Entrambi, Storia delle origini della coscienza letto alla luce di Simboli della trasformazione, sono testi di fondamentale rilevanza per comprendere quale possa essere una riscoperta ed una ricomprensione degli elementi della ritualità e della mitologia ed in quale direzione possiamo muoverci per tentare una riattualizzazione moderna di tutto l’immenso apparato simbolico e sapienziale che appartiene del vastissimo apparato mitico e simbolico insito nella tradizione. Non solo, si tratta di testi che ci svelano da un lato il senso ultimo di alcune delle più profonde questioni filosofiche e dall’altro ci introducono ad una specifica idea di cura quale comprensione del proprio destino e tensione all’individuazione.

Proprio in questo senso Romano Màdera [4], proponendo una cura di quelle che sono le normali patologie dell’essere umano attraverso la ricerca e l’incontro con la dimensione numinosa del senso, ha voluto recuperare l’importanza di quella che viene definita una mitobiografia, seguendo la lezione di Ernst Bernhard [5]. Nella costante ricerca e nella perseveranza dell’esercizio filosofico per una filosofia che diventi sempre di più una pratica di vita, Màdera ci insegna che occorre tener conto non solo della dimensione storica e sociale in cui il soggetto si trova a vivere, ma anche della inevitabile e costante presenza di mitologemi e temi mitici che influenzano la nostra vicenda autobiografica, influenzando in modo più o meno inconscio la nostra vita.

La direzione sembra essere quella di una riattualizzazione consapevole ed autobiografica del mito, che renda possibile comprendere il potere dinamico del simbolo, riconoscere gli archetipi quali forze che costantemente esercitano un potere, un’energia sulla nostra esistenza, un’energia psichica che, per la sua potenza insoverchiabile viene avvertita dall’uomo come destino, come heimarmene, destino, sorte, fato.

È decisivo, a nostro modo di vedere, che il lavoro di Neumann si svolga quasi interamente attorno al problema del Destino. Potremmo infatti sintetizzare l’esperienza della salvezza, cioè della cura psichica dell’essere umano, come l’esperienza della trasformazione interiore attraverso la quale viene a generarsi la luce della consapevolezza.

Il mito, che fu preceduto dall’azione rituale, in un’anteriorità temporale tutta interna alla mente, dalla quale non è possibile uscire, rappresenterebbe, come noto, quella stratificazione di proiezioni che l’inconscio collettivo, a tutte le latitudini, ha prodotto quale narrazione, raffigurazione, rappresentazione di processi e dinamiche interiori. Tali processi trasformativi rappresentano la via verso l’individuazione, il diventare se stessi, oppure, per dirla con Neumann, conducono alla centroversione, cioè convogliano, per così dire, l’energia psichica, la libido, verso la formazione di un io stabile e cosciente.

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Erich Neumann.

È curioso, lo notiamo per inciso, come la moderna psicologia sia in preda ad una sorta di regressione per cui essa tende sempre di più a voler rincorrere la scienza della medicina, come a voler raggiungere l’ideale scientista post-illuminista delle scienze esatte.

Questo punto è quantomai interessante per quanto riguarda la comprensione del mito e della sapienza in esso contenuta, e la dice lunga sullo smarrimento contemporaneo che ha rigettato nell’ombra del rimosso, cioè appunto nell’inconscio, l’aspetto terapeutico del mito stesso e ciò che esso inevitabilmente rappresenta. Indice di questa “satanica” inversione delle cose, già denunciata dallo stesso R. Guénon e poi da J. Evola, si avvera in una prima fase come inversione del simbolo, ed in una seconda fase, la nostra, attraverso la sua pressoché totale dimenticanza.

Il risultato di tutto ciò è una sorta di damnatio memoriae del portato terapeutico del mito, e la cancellazione della parola “cura” da tutto ciò che invece rappresenta la cura per eccellenza, ovvero la ri-generazione di se stessi, la rinascita, l’autentico possesso autarchico del proprio destino. Non è il caso di dilungarsi in questa sede sulle diffidenze e le differenze interpretative e di concetto fra gli autori della tradizione e gli autori che provengono dalla rivoluzione psicoanalitica. Ma qui c’è un punto fondamentale che non può essere trascurato: ciò che viene rimosso non scompare affatto, ma finisce per dominare le nostre vite, e le domina come destino [6].

Se sfogliamo il testo di Neumann ci accorgiamo di quanto sia centrale per l’autore il tema del destino. Il destino uroborico di un io che ancora non esiste, in quanto totalmente immerso nell’immagine della Grande Madre, il destino dell’eroe che tenta di uscire dallo stato adolescenziale ma fallisce come Narciso e viene ucciso per annegamento nell’elemento acquatico dell’inconscio, il destino dell’eroe capace di separare e differenziare il cielo come elemento maschile e la terra come luogo femminile, ed infine il destino dell’eroe solare, l’eroe che uccide il drago e conquista il tesoro di un’energia libidica liberata, la quale vola come il cavallo alato Pegaso verso la rigenerazione cosciente.

Il tema del destino è ciò che più di ogni altra questione lega il discorso junghiano con le successive intuizioni e sviluppi di Neumann. Per comprendere a fondo questo passaggio decisivo occorrerebbe mettere bene in luce quanto il problema del destino sia in realtà il centro di tutta la speculazione filosofica dell’Occidente la quale è derivata in larga misura dalle intuizioni del pensiero magico e dall’atteggiamento rituale.

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Ci limiteremo in questa sede a rilevare che già l’esperienza del tragico, come ricorda lo stesso Sergio Givone nella sua Storia del nulla [7], è l’esperienza del distacco dell’ente dall’essere, una separazione dell’uomo dall’unità originaria, per cui il destino a cui l’uomo è diretto non potrà essere che un destino di dolore e di morte, un destino nefasto che è frutto della volontà umana di separazione, frutto di quel pensiero che separa soggetto ed oggetto e che pensa se stesso come un in sé separato dall’essere: meglio non esser mai nati, che patire questa sofferenza!

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C.G. Jung, Liber Novus.

In senso psicologico la separazione dall’essere è sempre tragica, la caduta, l’uscita dall’Eden segna infatti un passaggio doloroso, avvertito come colpa, ma segna anche un momento necessario di uscita faticosa dal luogo amniotico dell’inconscio. In termini filosofici ed idealistici, l’accento può essere messo sulla separazione dell’in sé dall’altro da sé, separazione questa che preclude la dialettica di quel riconoscimento indispensabile per ritornare ad accogliere il non-io nell’io, l’oggetto nel soggetto, e procedere dialetticamente verso uno stadio superiore della coscienza.

Ecco che, restando per un momento nel terreno filosofico, il problema centrale della filosofia è stato, fin dalla sua origine, il problema dell’oggetto e della sua conoscibilità, della sua riconduzione cioè sotto le categorie di un pensiero che ordina e organizza il materiale fenomenico della realtà. Sotto questo profilo potremmo dire che ogni filosofia è sempre anche una gnoseologia, ovvero una scienza della conoscenza. Una svolta in questo senso avviene nell’idealismo preannunciato dalla rivoluzione kantiana.

Infatti con i grandi pensatori dell’idealismo tedesco, Fichte, Hegel, Schelling, si compie quella grande svolta per cui il conoscere non presuppone più la separatezza fra l’io che consce e la cosa fuori dall’io, quella cosa in sé kantianamente inconoscibile. Con l’idealismo si procede ritornando indietro, ovvero attraverso il movimento dialettico, si riconosce l’originaria unità fra soggetto ed oggetto, unità che precedeva il movimento stesso del processo triadico che va dall’alienazione alla conoscenza [8].

In tal senso possiamo affermare che la grande svolta dell’idealismo rappresenta la conquista del Logos, cioè del pensiero, di quello stesso ideale magico che per millenni aveva agito in modo sotterraneo ed aveva continuato a pensare ad una unità del tutto, ad una unione fra i due poli di soggetto ed oggetto, per cui l’azione interiore non poteva non avere un effetto nel macrocosmo.

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C.G. Jung, Liber Novus.

Dopo questa breve precisazione possiamo tentare di comprendere come il destino rappresenti il vero fulcro intorno al quale ruota il pensiero filosofico e lo stesso pensiero della psicologia, per come lo stesso Jung la delinea. Il destino è sempre connesso innanzitutto alla questione dell’incarnazione e poi al problema del tempo, basti pensare al mito platonico di Er, per quanto riguarda la scelta del destino da parte delle anime, e alle figure che presiedono, nella mitologia alla tessitura, all’intreccio delle trame del reale.

Nella grecità esistevano difatti tre diversi tipi di temporalità: il tempo lineare come Chronos, il tempo dell’attimo significativo, quale Kairos, ed infine il tempo fanciullo, il tempo ciclico come Aion. È proprio di questa dimensione temporale che si occuperà lo stesso Jung.

In questa prospettiva è interessante notare come il tema di Aion, il tempo fanciullo e ciclico, sia già in Omero connesso con il termine Psiché. Questo collegamento viene solitamente spiegato con il fatto che quando sopraggiunge la morte il soffio psichico fugge via dal corpo ed insieme a questo soffio vitale avviene la perdita della temporalità. Ma se consideriamo che il termine Aion è fin da Omero messo in relazione con la dimensione dell’anima questo fa pensare al fatto che la psiche stessa contenga in se stessa la totalità di ciò che temporalmente si dispiega nel tempo ciclico dell’eone. Il riferimento all’Aion di Jung qui è esplicito. La psiche infatti non è solo una dimensione individuale in Jung, ma contiene in sé la totalità del processo storico, la totalità cioè del tempo e di ciò che nel tempo si manifesta come realtà.

La questione mitologica della temporalità costituisce il problema principale nel lavoro di conciliazione nel pensiero dell’unus mundus in quanto fonte di sfasamento fra la volontà interiore e la disposizione cronologica degli eventi che accadono secondo una legge che non è in nostro possesso [9]:

« Ciò che in Occidente definiamo causalità, si radica nei mitologemi greci di Ananke (necessità), Dike (giustizia), Heimarméne (fato), e Nemesi (vendetta). Tutte queste dee, che governavano completamente il gioco degli opposti, erano venerate e temute. Eraclito afferma pure che “ogni evento accade secondo lotta e necessità”. Nella filosofia stoica Ananke, cioè Heimarméne, divenne poi una legge universale che tutto governa, persino gli dei. Per gli stoici Chronos (il tempo) era accoppiato con Ananke (necessità). Quest’ultima tiene l’universo «in ceppi inflessibili», circondandolo come un serpente, ed è anche la dea inesorabile dai lacci mortali: svolge il filo della nostra vita e alla fine lo taglia. Nel Cristianesimo l’idea di necessità non scompare, bensì fu proiettata sulle leggi d’una natura creata da Dio, in cui questi poteva intervenire attraverso il miracolo. Solo con Cartesio divenne dominante l’idea di una determinazione razionale, di un’assoluta validità delle leggi di natura, e fu esclusa ogni possibilità di un nuovo influsso creativo di Dio. »

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Raffigurazione di Ananke.

È a partire dalla volontà magica di superare la costrizione della necessità che si sviluppa la prima concezione psicologica dell’uomo, la qual cosa sta cioè a significare che la sua stessa radice è magica ed attiene alla radice stessa del pensiero filosofico in quanto pensiero conoscitivo, pensiero gnoseologico, che indaga ancora e da sempre, i modi di legare l’interno e l’esterno per superare i vincoli della necessità. Quindi il destino non solo quale tema centrale del pensiero magico che va ad influenzare la gnoseologia come fulcro dell’interrogazione filosofica sul conoscere, ma anche centro della riattualizzazione del mito e del suo potere salvifico e terapeutico.

La speculazione sul destino, come dicevamo, trapassa allora da Jung a Neumann. Basti come esempio quello del destino del giovane adolescente che vive ancora nel desiderio della madre divoratrice  questione quantomai viva ed attuale  riportato da Neumann attraverso l’analisi dell’archetipo della Grande Madre [10]:

« La relazione del figlio amante con la Grande Madre è una situazione archetipica che opera anche oggi, il cui superamento rappresenta il presupposto di ogni ulteriore sviluppo dell’io e della coscienza. Gli adolescenti-fiore non sono ancora abbastanza forti per difendersi contro lo strapotere della Grande Madre o addirittura per vincerlo. […]  Questi giovani dall’io debole e senza personalità posseggono solo un destino collettivo, non un destino proprio; non sono ancora individui e così non hanno neppure un’esistenza individuale. »

In tal senso il mito torna ad essere un chiaro elemento esemplare per uno sviluppo della coscienza, è questo infatti il grande compito dell’eroe che come eroe solare è un chiaro rappresentante dell’aspetto cosciente dell’io.

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Ma ecco il nesso con il testo di Jung al quel Neumann fa costantemente riferimento; In Simboli della trasformazione Jung sviluppa due nozioni fondamentali: quella della libido e quella della liberazione dalla necessità, dal destino. Le due cose sono fortemente connesse. Ritroviamo il punto in una nota nel testo junghiano:

« Il fine dei misteri era di infrangere mediante il potere della magia “la coercizione da parte delle stelle.” La potenza del destino si fa sentire in modo spiacevole, solo quando tutto procede in senso contrario ai nostri voleri, cioè quando ci troviamo  in disaccordo con noi stessi. In conformità a questa concezione, l’antichità ha stabilito un rapporto della heimarméne (fato, destino, sorte) con la “luce originaria”  o “fuoco originario”, con la concezione stoica della causa ultima, il calore diffuso per ogni dove, che tutto ha creato e che perciò è anche il destino. »

Qui si sollevano alcuni punti di importanza capitale. Jung ci sta dicendo che la potenza del destino è in realtà lo stesso calore interno che «tutto ha creato». Vediamo meglio cos’è questo calore capace di generare. Se teniamo presente cosa intende Jung col concetto di libido le cose diventano subito più chiare. Per Jung infatti la libido non è un’energia legata esclusivamente alla sfera delle pulsioni sessuali ma è altresì una potenza psichica desiderante e creativa che abita nell’inconscio. Il vero problema centrale di tutta la psicologia del profondo è in realtà quello di scoprire le leggi eterne che regolano la creazione della realtà da parte dell’inconscio.

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Tale forza creativa che scalda e che è eternamente desiderante non è altro che il tapas, il calore noto ai ritualisti vedici, l’ardore che nell’ascesi pone la realtà. Lo ritroviamo infatti nel testo di Neumann [11]:

« Quando noi parliamo di introversione, diciamo la stessa cosa. Per questo in India tapas, il calore interno e il “covare”, è l’elemento creativo grazie al quale ogni cosa è creata. L’autofecondazione dell’introversione, l’esperienza fondamentale dello spirito che genera da se stesso risultano chiare nel passo seguente: Egli, Prajapati, si mise a pregare e a digiunare, poiché desiderava una discendenza, e fecondò se stesso. »

Fra gli autori contemporanei è Roberto Calasso a parlarci del tapas e dei suoi meravigliosi poteri [12]:

« L’attività da cui dipende e discende l’intera creazione è soltanto mentale ma di una specie che subito manifesta l’efficacia della mente su ciò che le è esterno. E le propaggini dell’esterno sono, per la mente, l’interno del proprio corpo. Così si produce una combustione invisibile, un tepore progressivo, fino all’ardore che consegue all’operare della mente. È il Tapas, ben noto agli sciamani siberiani, ignorato o clandestino nel pensiero occidentale. Ubiquo e sovrano, rare volte viene definito nei suoi poteri, perché troppo evidenti. Ma talvolta il ritualista si concede di pensarli: “Invero con il Tapas conquistano il mondo”. »

Ciascuno di noi è diretto da forze, dalla potenza degli archetipi, e tende a vivere in modo assolutamente inconsapevole. Ecco, come dicevamo, l’esigenza di recuperare un sapere mitobiografico capace di riconoscere gli elementi del mito ancora viventi in noi. Costantemente ciascuno di noi infatti crea in maniera inconscia la propria realtà dando vita a vicende personali le più tragiche, le più pirandelliane. Il mito ci viene in soccorso e ci salva, ci cura, come anche Hilmann ebbe modo di rilevare, attraverso l’esempio di quelle immagini interiori proiettate nelle stelle.

Il fatto che la nostra energia creativa, il tapas o la libido, sia appunto inconscia, significa che occorre un mezzo per mettere in relazione questi due mondi: il conscio e l’inconscio. Se questo non accade saremo dominati dal destino insormontabile che noi stessi continuamente generiamo. Solo il mito, la ritualità ed il simbolo hanno consentono una connessione con l’inconscio ed una direzione indiretta ma più cosciente dell’energia psichica. Quale altro significato hanno di fatti le celebrazioni dei solstizi se non la possibilità per l’uomo di liberarsi dal circolo delle rinascere, di uscire dal tempo ciclico, dal peso schiacciante del destino? Attraverso le porte solstiziali l’iniziato può uscire dalla ripetizione dell’uguale e generare il nuovo.

La strada della consapevolezza è dunque conservata dal mito e dal rito che come gesto dovette precedere il mito stesso. Dopo la cosiddetta “morte di Dio”, annunciata da Nietzsche, si apre per l’uomo moderno un periodo di profondo smarrimento nel non senso, in una libertà che non riesce a prendere forma, in un’epoca in cui i modelli della Tradizione rischiano di non comunicare più con uomini assolutamente destinati al buio totale dell’incoscienza. I miti ed i riti devono allora essere ricompresi, riattualizzati, solo così potranno parlarci nuovamente.

C’è un momento preciso, come ci ricorda Mircea Eliade, in cui i ritualisti vedici compresero che il gesto rituale può essere interiorizzato, e trasferirono i gesti esteriori in atti di trasformazione interiore. Trasformare la percezione del mondo, come sostiene P. Hadot, liberarsi dal destino che noi stessi ci siamo creati, come ci insegna Jung, rinascere come l’eroe solare secondo l’esempio di Neumann.

Intanto qui in Italia esiste la figura dell’analista filosofo, il quale pratica un tipo di analisi che va sotto il nome di “analisi biografica a orientamento filosofico”; tale pratica rivolgendosi alla dimensione di sofferenza con cui ciascuno è chiamato inevitabilmente a confrontarsi, vuole tener conto della tradizione, della dimensione storica, delle scoperte della psicologia del profondo e della sapienza delle antiche scuole filosofiche in cui ci si esercitava a diventare liberi.

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L’Autore (a destra) con Romano Màdera.

Note:

[1] E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma, 1949.

[2] Ibid., p. 12.

[3] C.G. Jung, Simboli della trasformazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. La prima edizione italiana viene pubblicata col titolo La libido: simboli e trasformazioni nel 1965, mentre l’edizione tedesca risale al 1912. Nella prefazione del 1924 Jung scriverà che: «Il vero intento di questo libro è solo quello di elaborare il più a fondo possibile tutti i fattori storici e spirituali che confluiscono nei prodotti involontari di una fantasia individuale». Ci si riferisce infatti allo studio del materiale delle fantasie prodotte da una giovane americana, soprannominata Miss Miller, attraverso le quali Jung sviluppava le sue connessione con il mito a partire dalla sua celebre teorizzazione dell’esistenza di un inconscio collettivo.

[4] Romano Màdera è filosofo, docente universitario e psicoanalista di formazione junghiana. Fra le sue opere ricordiamo: Il nudo piacere di vivere (Mondadori), La carta del senso (Raffaello Cortina), Carl Gustav Jung, biografia e teoria (Mondadori), L’animale visionario (Il saggiatore), La filosofia come stile di vita (Mondadori), Una filosofia per l’anima (Ipoc). Nel tentativo di recuperare la sapienza ed il potere trasformativo e terapeutico della filosofia, Màdera, ispirandosi a vari autori fra cui P. Hadot, C. G. Jung, E. Bernhard, S.Freud, propone una filosofia come pratica di vita ed ha fondato a Milano la Scuola Philo, Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche in cui si formano gli analisti filosofi.

[5] E. Bernhard, Mitobiografia, Adelphi, Milano 1969.

[6] La questione del rimosso, centrale per S. Freud rappresenta una di quelle esperienze in cui emerge il carattere dialettico per cui gli opposti transitano l’uno nell’altro e coesistono nel medesimo simbolo. Si pensi alla merce che in Marx è cosa concreta e mistero teologico, oppure alla figura della prostituta in Benjamin, ella è donna e cosa in quanto esponendosi si vende come oggetto. Questo carattere duale è proprio anche di ciò che da familiare si ripresenta con una connotazione perturbante (unheimlich), e paurosa in quanto riemersione del rimosso.

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[7] S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Bari, 1995.

[8] Per approfondire questi temi rimandiamo al pensiero di Massimo Donà che ha intelligentemente indagato i nessi fra idealismo e pensiero magico. Si pensi ad esempio al testo Filosofia e magia, Bompiani, Milano, 2004.

[9] M.-L. Von Franz, Psiche e materia, (1988), Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 76.

[10] E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma, 1949, p. 64.

[11] Ibid., p. 40.

[12] R. Calasso, L’Ardore, Adelphi, Milano, 2010


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