La magia delle Mainarde: sulle tracce delle Janare e dell’Uomo Cervo

Una visita a Castelnuovo al Volturno, in Molise, ci consente di dare un volto ai personaggi del folklore locale, le Janare e “Gl’Cierv”, e di riprendere alcuni aspetti mitico-tradizionali centrali dei Culti cosmico-agrari dell’antica Eurasia.


di Massimiliano Palmesano
(revisione a cura di Marco Maculotti)
immagine: l’Uomo Cervo del Carnevale di Castelnuovo al Volturno

 

L’ultima domenica di Carnevale a Castelnuovo al Volturno (Isernia), in Molise, si celebra una festa che ci riporta direttamente alla notte dei tempi, quando tra uomini e animali non era ancora avvenuta una differenziazione così netta e, anzi, i primi riuscivano a trasformarsi in secondi e questi ultimi riuscivano a comunicare coi loro spiriti con gli uomini: é la festa de “Gl’Cierv”, ovvero dell’Uomo Cervo. La celebrazione, che pare sia una ritualizzazione mitica del passaggio dai mesi invernali a quelli primaverili con il ciclico risveglio della natura, è una pantomima in cui oltre all’Uomo Cervo, compaiono anche altre figure come la Cerva, il Cacciatore, la maschera molisana di Martino e tra gli altri anche le Janare e il Maone, loro oscuro capo.

La presenza delle Janare all’interno della pantomima è ancora più interessante soprattutto perché durante il rito queste compaiono per prime e, oltre agli stereotipati attributi negativi che le accompagnano un po’ ovunque in tutta la vasta area in cui sono presenti, presentano anche connotazioni più tipicamente sciamaniche: sembra infatti che l’Uomo Cervo sia quasi evocato dal corteo e dalle danze estatiche di queste donne vestite di nero, mascherate e con lunghi capelli di rafia. Decidiamo quindi di recarci sulle Mainarde, sulle tracce di quella che a prima vista ci era sembrata una interessante “anomalia” da analizzare nel percorso, parafrasando Carlo Ginzburg, di “decifrazione” della janara, quasi del tutto spogliata, nel rito del cervo, delle sue prerogative demoniache e negative, prerogative “offuscate” dal ruolo magico di evocatrici dello spirito ancestrale del cervo.

In realtà, le anomalie interessanti sono due: la seconda é quella che rientra nell’ambito che chiamiamo la “Geografia della Janara”, ambito di studio abbastanza ampio che si occupa dei rapporti tra centri e periferie, da un lato, e dall’altro, quella che riguarda i confini di quella che chiameremo la “Nazione Janara”, ovvero tutto il territorio interessato nella tradizione e nella superstizione dalla presenza delle janare. Su questo ultimo punto c’é da fare una precisazione: tra i tanti stereotipi che accompagnano la storia nera della Janara, uno dei più diffusi é quello che la vuole semplicemente come una “traduzione” beneventana della figura della strega (considerazione che é quantomeno una mezza verità, se non proprio la spiegazione superficiale di un fenomeno ben più complesso).

La “Nazione Janara” comprende infatti certo tutto il beneventano, ma le sue propaggini si estendono a sud per pochi chilometri sotto Benevento fino al nord del salernitano. Infatti, nell’avellinese gia compare la figura della “maciara” o “magara”, più affine al mondo magico lucano studiato da Ernesto De Martino, mentre se saliamo verso nord troviamo la sua presenza pressoché ovunque nelle province di Napoli e Caserta, nel basso Lazio almeno fino a Terracina e a Fondi (a Formia c’é addirittura il toponimo “Grotta della Janara”), in quasi tutto il Molise e in alcune zone del basso Abruzzo e in parte della provincia di Foggia. Un’area vastissima che ci suggerisce che non basta giustificare questa diffusione con la sola influenza che Benevento ebbe come capitale della Longobardia Minor nell’Alto Medioevo e cioè nell’epoca in cui, secondo alcuni, si è formata la figura della janara.

Cosa c’entra Benevento in tutto questo discorso allora? C’entra, cosi come c’entrano i longobardi e il principato della Longobardia Minor. Quando i longobardi arrivarono a Benevento nella seconda metà del VI secolo d.C., guidati da un capo guerriero chiamato Zottone (ca. 570-591), che la tradizione dipinge come fondatore del ducato longobardo di Benevento [1], essi erano già quasi tutti cattolici (con piccole minoranze che professavano la “eresia ariana”) e avevano ufficialmente abbandonato i loro antichi culti da un bel po’ di anni. Questa “conversione” delle genti longobarde era avvenuta però più per motivi di carattere squisitamente politico che “spirituale”: essa infatti consentiva loro una più ampia rosa di possibilità di confronto (che nella realtà fu quasi sempre riottoso) con il papato: era per essi fondamentale rendere la loro presenza quanto meno “aliena” possibile dal contesto che intendevano dominare, sebbene il grosso del lavoro lo facessero con la spada.

Nella realtà, però, tanti di quei guerrieri conservavano ancora vive le consuetudini e le tradizioni dei propri avi, con cerimonie praticate all’aperto, tra gli alberi e forse proprio sotto ad una pianta di noce, con la presenza di simulacri rituali caprini [2] affini a tanti popoli nomadico-guerrieri provenienti dall’Europa del nord e dell’est e forse anche con sacrifici rituali di capri; un corollario cultuale che se da un lato, a cominciare da San Barbato che nelle sue predicazioni cominciò a parlare di raduni di streghe e diavoli sotto il noce di Benevento, fece facilmente associare questi culti pagani al sabba stregonesco, dall’altro lato, quasi sicuramente, queste stesse forme di cultualità vennero da subito riconosciute come affini dalle donne che praticavano culti ancestrali risalenti, a nostro avviso, a prima del periodo romano: culti italici legati alla Dea Madre con forti affinità con il mondo celtico-germanico. Insomma se da un lato, nella narrazione pubblica, fu lo stereotipo demoniaco e pagano a prendere il sopravvento [3], dall’altro lato furono possibili anche forme di sincretizzazione o forse solo di affinità archetipo-simbolica tra i culti delle Janare e quelli dei conquistatori longobardi.

L0019609 A witch at her cauldron surrounded by beasts. Etching by J.
Jan van de Velde II, “A witch at her cauldron surrounded by beasts”, 1626.
Magnifiche e magiche Mainarde

Ma ritorniamo alle Mainarde. Non appena arrivati in zona, l’impressione che si avverte é di trovarsi in un luogo “magico”, in cui la natura conserva verginalmente tutti i suoi poteri e dove il tempo si é ritagliato uno spazio di fissità cessando il suo ritmo infinito. Facciamo base sul lago di San Vincenzo, bacino artificiale costruito a metà del secolo scorso per alimentare una centrale idroelettrica ma che si é inserito perfettamente nel territorio, per restare un paio di giorni per avere un primo approccio con il mondo del Cervo e delle Janare di Castelnuovo.

Prima però, facciamo (con nostra infinita gioia) un salto all’area archeologica dell’Abbazia di San Vincenzo a Volturno che é definita da tanti la Pompei altomedievale, e a Scapoli, patria dei costruttori di zampogne, altro elemento, quello della zampogna e degli zampognari, che ci mostra una resistenza culturale forte in queste terre. Il primo incontro con le Janare e con il Cervo lo facciamo proprio a Scapoli, dove, nella bottega del maestro Izzi, situata all’interno del camminamento di ronda della cittadella medievale, tra tornii, zampogne e ciaramelle, alcune finite altre ancora abbozzate, ne approfittiamo per fare alcune domande e per illustrare ai locali il motivo della nostra visita.

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Scopriamo innanzitutto che una delle ipotesi che ci ha portati fin qui va riformulata: le Janare all’interno della pantomima del Cervo sono state immesse successivamente e in epoca recente. Certo la janara é una figura centrale nelle credenze di queste terre, ma la nostra ipotesi riguardo il suo ruolo di evocatrice del Cervo andava scartata. Scopriamo anche un altro dato utile: in tempi remoti la festa del Cervo era praticata in tutta la zona e non era solo una prerogativa di Castelnuovo, proprio a sottolineare il comune sostrato culturale arcaico degli abitanti di queste zone.

Lasciando Scapoli e scendendo a piedi tra le viuzze del centro storico, notiamo in ben due giardini di case private due rigogliose piante di noce metella (datura metel), appartenente alla famiglia delle solanacee e imparentata strettamente con lo stramonio (datura stramonium): la noce metella é una delle piante magiche utilizzate da quella che semplificando definiamo la stregoneria europea”. Certo: due piante non possono indicare in alcun modo un dato etnologico o etnobotanico e non abbiamo avuto modo di intervistare i proprietari dei giardini, ma ci é piaciuto lasciarci suggestionare dalla loro presenza subito dopo aver parlato di janare e di uomini che si trasformano in cervi e ne raccogliamo la caratteristica sfera pungolata per conservarla e catalogarla nella nostra sezione “Herbaria”.

Nel pomeriggio arriviamo finalmente a Castelnuovo e, con il pretesto di chiedere informazioni, ci fermiamo al bar della piazza dove avviene la pantomima del Cervo; in macchina abbiamo anche alcuni volumi sul cui contenuto vogliamo discutere con qualcuno del luogo non appena se ne presenti l’occasione. Fuori dal bar ci sono due anziani sorridenti: ci fermiamo a chiedere loro un posto dove possiamo comprare una bottiglia di buon vino. Nonostante qualche diffidenza iniziale, cerchiamo di rompere il ghiaccio utilizzando il dialetto: ma non utilizziamo il dialetto campano più vicino al napoletano, utilizziamo una forma dialettale ibrida tra campano settentrionale e dialetti appenninici con desinenza in “u”, antica eco delle lingue osco-sannite e l’espediente ci aiuta non poco. Scopriamo che entrambe sono zampognari da sempre e hanno “girato il mondo con zampogna e ciaramella” e subito entriamo in empatia con uno di loro, Giuseppe, che dopo pochi minuti di silenzio ci invita a seguirlo a casa: il vino ce lo darà lui.

Restiamo a primo impatto disorientati da questo simpatico e vitale signore avanti negli anni, dalla sua energia, dal suo modo di accoglierci, dal suo sorriso: d’altronde anche la musica, il saperla creare, l’essere veicolo per trasmetterla alle persone per infondere loro sensazioni é da sempre una prerogativa sciamanica e non possiamo non collegare il motivo delle nostre ricerche con questa ulteriore resistenza culturale legata al mondo delle zampogne e degli zampognari, in questo fazzoletto di terra. Ci sediamo a tavola con lui e subito capiamo che Peppe non ci venderà nulla: il vino ce lo regalerà, insieme a gustosi pomodori e peperoncini del suo orto. Ci parla della sua vita, dei figli, della campagna e soprattutto della sua vita di zampognaro, dell’arte ereditata dal padre, dei lunghi giri in lungo e in largo per lo stivale, e ci racconta di Charles Moulin, il pittore francese che decise di ritirarsi a vivere in una grotta sulle Mainarde dopo aver ascoltato per caso uno zampognaro suonare, restandone ammaliato.

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L’Uomo-Cervo nel Carnevale di Castelnuovo al Volturno.

Noi gli parliamo della nostra “cerca” del Cervo e delle Janare e lui, con gran sorpresa, ci dice che la moglie fa parte del gruppo di persone che mettono in scena il rituale del Cervo ogni anno. Tornati in piazza, ad attenderci c’é proprio lei. Cominciamo a parlare, riproponiamo in modo spezzettato e discorsivo le domande del questionario che stiamo sottoponendo agli autoctoni a scopo di ricerca. Quando cominciamo a parlare della festa del Cervo e delle Janare si forma un capannello, e i locali ci confermano che queste ultime sono state immesse nella pantomima in tempi recenti, sebbene popolino da sempre la credenze locali. Ci raccontano di come le Janare escano di notte “in volo”, si trasformino in animali, soprattutto gatti e serpenti, procurino e tolgano il malocchio.

Scopriamo inoltre che è ancora in vita l’usanza dell’astenersi dall’avere rapporti sessuali il 24 marzo, perché in caso di concepimento c’é la possibilità che il bambino nasca a Natale, e chi nasce in quella notte diventa janara o lupo mannaro. Da sempre il lupo mannaro e la janara (o la strega) convivono all’interno dell’orizzonte mitico e superstizioso delle comunità agricolo-pastorali un po’ in tutta Europa [4]. In un racconto che abbiamo collazionato, risalente all’inizio del ‘900, la persona che si trasformava in licantropo andava in giro la notte di Natale, terrorizzando le persone coperto da una grossa pelliccia e coprendosi il volto con essa.

In questo racconto abbiamo immediatamente trovato una somiglianza morfologica, nelle pagine di Mircea Eliade [5] e Carlo Ginzburg [6], con pratiche affini dello sciamanesimo centro-asiatico ed europeo, nelle quali sciamano raggiungeva l’estasi coprendosi interamente con una pelliccia animale, il più delle volte quella del suo animale totemico, volando via (“in spirito”) o trasformandosi in animale per combattere con altri sciamani [7]. L’isomorfismo tra pratiche così distanti tra di loro nello spazio e nel tempo ci fanno pensare a un sostrato arcaico comune o comunque a una affinità cultuale, soprattutto qui, dove oltre al racconto del lupo mannaro abbiamo un’altra ben più importante figura che non é più completamente animale, ma nemmeno definitivamente uomo e cioè “Gl’Cierv”: vestito di pelli di capra, con addosso rumorosi campanacci e con in testa un copricapo con due grosse corna cervine.

Il mito di Castelnuovo ci tramanda la viva memoria di (a) un culto ancestrale legato al (b) passaggio dal periodo invernale a quello vitale della primavera; (c) un culto che é soprattutto estatico, l’uomo travestito da cervo che scende nel paese essendo contraddistinto da (d) un “furor” sovraumano (scende in paese urlando e travolgendo ogni cosa che trova sul suo cammino, nessun intervento riesce a domarlo, il suo palco di grandi corna di cervo tiene tutti alla larga), finché non arriva (e) il cacciatore che lo colpisce a morte, ma solo affinché (f) possa risorgere di nuovo, come ogni anno, la stagione primaverile dopo quella invernale.

Morte e resurrezione rituale del ciclo delle stagioni attraverso l’elemento magico delle pelli (il vestito dell’Uomo Cervo) e delle ossa (il suo copricapo cervino). Visto da questa prospettiva il mito del cervo di Castelnuovo ci fornisce una serie completa e chiara di elementi di carattere sciamanico che ci suggeriscono sue radici antichissime.

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Particolare del Calderone di Gundestrup.
Il Cervo, archetipo celtico-italico

« Il prestigio del cervo nel simbolismo non è semplicemente connesso al suo aspetto – bellezza, grazia, agilità – ma anche al fenomeno del ciclo di crescita e rigenerazione del suo palco di corna. Quest’ultimo aspetto é profondamente interiorizzato dalla mente dei contadini neolitici. Il palco di corna cervine svolge un ruolo importante […]. Il ruolo del cervo nel mito dell’Antica Europa non é una invenzione dei contadini neolitici. L’importanza della cerva gravida deve essere stata ereditata da un’epoca preagricola. I popoli nordici nello stadio della caccia credono ancora che la madre dell’universo sia una cerva-alce o un a renna-cerva. I miti parlano di donne gravide che governano il mondo ed hanno le sembianze di cervi: coperte di pelo e con palchi di corna ramificate in testa. » [8]

Ci troviamo qui di fronte a un simbolo “totemico” antichissimo e soprattutto comune in tutta Europa. Sappiamo che la figura archetipica del cervo rimane centrale anche durante l’epoca romana: l’animale é sacro alla dea Diana, protettrice, tra le altre cose, dei boschi e della vita selvatica. Una leggenda narra che quando l’esercito romano pose d’assedio l’antica città Capua, questa riuscì a resistere finché dal monte Tifata, luogo su cui sorgeva l’importantissimo tempio di Diana Tifatina, non scese un cervo bianco, simbolo e totem della dea, che si prostrò al generale romano facendosi uccidere.

Questa uccisione mitica, ritualizzata e sacra ci riporta a un’altra ulteriore similitudine morfologica tra il mito del Cervo di Castelnuovo e il culto di Diana e cioè con il racconto che fa James Frazer ne “Il Ramo D’Oro della figura del Rex Nemorensis. Il Rex Nemorensis era un re-sacerdote che viveva nel tempio di Diana presso il lago di Nemi (vicino Roma). La Diana Nemorensis (da nemur > bosco o più precisamente bosco sacro) ha affinità precise con la Diana Tifatina, infatti anche il termine tifat indica un bosco di lecci [9]. Il Rex Nemorensis custodiva e difendeva il tempio all’ombra di una grossa quercia sacra e brandiva costantemente una spada, perché la successione tra vecchio e nuovo re-sacerdote (di solito uno schiavo liberato) avveniva con un omicidio rituale: il nuovo re-sacerdote riusciva a diventare tale solo dopo aver ucciso il vecchio [10].

Queste implicazioni cruente di morte e rinascita sono assimilabili alla morte e resurrezione rituale dell’Uomo Cervo nella pantomima di Castelnuovo ed hanno quasi sicuramente una comune radice sciamanica arcaica: anche il Cervo di Castelnuovo muore solo nella misura in cui é già assicurata la nuova ri-nascita, proprio come il Rex Nemorensis che muore solo ad opera di chi prenderà immediatamente il suo posto in un ciclo continuo, circolare e non lineare, secondo una visione del tempo tipica del mondo antico [11].

Ma esiste anche un altro ambito di connessioni morfologiche e di analogie che risultano ancora più interessanti da mettere a confronto e da analizzare, e che ci riportano direttamente al mondo celtico-germanico. Sul cosiddetto Calderone di Gundestrup, un manufatto risalente al II secolo a.C. (ritrovato in una torbiera dell’Himmerland nel nord della Danimaca nel 1891), é raffigurato un Uomo Cervo che brandisce un serpente, attorniato da animali selvatici, tra cui anche un cervo: la somiglianza con il Cervo di Castelnuovo è impressionante. L’essere mitico raffigurato sul calderone é il dio Cernunno (o Kernunnos), divinità con corna cervine e rivestito di pelliccia animale, deputata alla vita selvatica, ai boschi e al ciclo delle stagioni [12].

Sempre sul Calderone di Gundestrup troviamo incise delle piccole figure tripuntute che assomigliano a tre piccoli funghi uniti al gambo, dalla forma del cappello é possibile tracciare delle similitudini con funghi psicoattivi del genere psylocibe, il che ci fa supporre una relazione tra i riti legati al mondo dei boschi e della natura selvaggia impersonata da Cernunno e l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo religioso-rituale [13], ipotesi che é stata formulata da numerosi archeologi ed etnobotanici anche per quanto riguarda alcuni calderoni unni e al loro utilizzo rituale in cerimonie che prevedevano l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo estatico-sciamanico [14].

Proprio questo particolare ci ha riportati alla mente un aneddoto raccolto durante il lavoro di ricerca ambientato poco più a nord della zona delle Mainarde, in Abruzzo, all’inizio del ‘900: il racconto di una donna che di ritorno dalla montagna all’improvviso ebbe una visione. Vide un grosso calderone, ripieno d’oro e ricoperto da una pelliccia; vi si diresse con l’idea di prendere l’oro, ma si accorse immediatamente che dalla cima di una roccia un essere munito di corna (che la protagonista ha associato al diavolo per un chiaro transfert di carattere culturale) l’aveva puntata e stava correndo verso di lei; si diede quindi alla fuga per evitare l’incontro. Risulta stupefacente la presenza di similitudini archetipiche tra il racconto di questa “visione” e l’universo mitico celtico: (a) visione estatica, (b) calderone, (c) oro, (d) pelliccia, (e) essere cornuto e furente. Una serie di connessioni e di similitudini che sembrano provenire da un unico universo mitico.

Nel mondo germanico e norreno ritroviamo, ancora una volta, il motivo della morte e resurrezione sotto le sembianze di un cervo, il quale [15]:

« […] é animale di simbologia solare poiché le sue corna che perennemente si rinnovano (emblema dell’eternità) sono considerate corrispettive dei raggi del sole dotati di virtù vivificanti. […] Il cervo é altresì strettamente legato all’albero cosmico Yggdrasyl. Al pari di esso infatti partecipa ai tre strati dell’essere: le zampe toccano la terra, il corpo appartiene al mondo di superficie, le corna ramificate sono come le fronde che si protendono nel cielo. Secondo il racconto di Snorri quattro cervi saltano tra i rami di Yggdrasyl e ne brucano le foglie: essi sono Dainn (Morto), Dvalinn (quello che indugia), Duneyrr (quello che fa rumore sul terreno ghiaioso), Duradror (cinghiale sonnacchioso). Legate al cervo sono anche la figura e la vicenda di tale Dorir, grande adoratore pagano soprannominato cervo (hjortr). Re Olaf Tryggvason lo aveva sconfitto in battaglia ed egli si era dato alla fuga. Uno degli uomini del sovrano aveva scagliato una lancia contro di lui ed egli era caduto a terra moribondo. Dal suo corpo era uscito allo un grosso cervo. »

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L’Uomo-Cervo nel Carnevale di Castelnuovo al Volturno (Fonte: LaStampa.it).
Ossa e pelli di Cervo

Ma é veramente possibile intravedere un tratto di unione tra il Cervo di Castelnuovo e il mondo celtico? La congettura é meno azzardata di quanto possa sembrare a prima vista e a darci una traccia sono alcune iscrizioni sannite risalenti al tempo della I Guerra Sannitica (343-341 aC) in cui si dice a chiare lettere che l’esercito sannita che si accingeva a scontrarsi contro quello romano, fu benedetto da un collegio sacerdotale composto da sacerdoti autoctoni e da druidi celti. Il rapporto quindi tra le genti appenniniche e quelle di stirpe celtica che popolavano le terre un po’ più a nord è verificato da iscrizioni risalenti almeno a 300 anni prima della nostra era. Celti e osco-sanniti, forse per le loro abitudini nomadiche e pastorali, si incontrarono già in tempi molto più antichi del De Bello Gallico.

E mentre tutte queste connessioni si accalcavano nella testa e i fili si riannodavano, ecco che arriva un uomo magro e slanciato che subito si presenta: é Ernest, il presidente dell’associazione che organizza la pantomima del Cervo. Gli facciamo leggere delle pagine dai libri che portiamo con noi, che parlano di uomini che si tramutano in cervi, di di ossa e di pelli. Ernest subito si rende disponibile per una visita alla sede dell’associazione dove sono conservati i costumi e alcune importanti memorie in merito al rito dell’Uomo Cervo. Pochi minuti dopo siamo nella sede dell’associazione, visitiamo il primo piano che ospita una mostra con tutti i costumi della pantomima: Cervo, Cerva, Martino, Cacciatore e le nostre Janare dalle maschere terrificanti, Ernest ci mostra orgoglioso una serie di maschere appese al muro, frutto dello scambio e della contaminazione dell’Uomo Cervo di Castelnuovo con tanti rituali simili diffusi in tutta Europa dalla Sardegna [16] all’Inghilterra.

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Scendiamo quindi nel piano interrato che é il laboratorio dove vengono custoditi e assemblati i costumi del rito dell’Uomo Cervo e, mentre vediamo come sono fatti e ne proviamo alcuni, Ernest mentre parla come un fiume in piena e ci “regala” una di quelle “anomalie” all’interno della narrazione che tanto ricercavamo per una decifrazione del rito del Cervo. Ci dice infatti che ora l’Uomo Cervo indossa un costume già pronto, un vero e proprio vestito con casco cornuto, casacca e coprigambe di pelle, ma un tempo, e fino a pochi decenni fa, la pelle veniva cucita a mo’ di costume intorno al corpo di chi impersonava l’Uomo Cervopoco prima del rito. Questo particolare tipo di pratica magico-rituale ci riporta immediatamente ai racconti sullo sciamanesimo caucasico ed europeo: la cucitura delle pelli addosso all’uomo ricalca uno schema “magico” di trasmutazione dell’uomo in animale, un ritorno alla ferinità, alle sensazioni e ai bisogni primordiali, una pratica in definitiva estatico-sciamanica.

È necessaria un’estasi, che possiamo definire “mistica”, per fare in modo che lo spirito del cervo (e della natura selvaggia che incarna) entri in contatto con quello dell’uomo, che, in perfetta linea con gli attributi sciamanici tradizionali, non si lascia dominare dagli spiriti, ma li conduce, li guida, fa sì che essi diventino suoi ausiliari: nel caso dell’Uomo Cervo di Castelnuovo, affinché lo spirito dell’animale aiuti la comunità ad uscire dal rigore dell’inverno e la conduca a una primavera ed una estate ricche di messi e frutti. Era proprio questo l’anello che ha unito gli altri anelli della catena e ha, possiamo dire, chiuso il cerchio nel ”gioco” di isomorfismi e serie di similitudini. Il rito dell’Uomo Cervo di Castelnuovo é quindi quasi certamente a un ambito arcaico che affonda le proprie radici almeno nel Neolitico; un ambito estatico, sciamanico, connesso a una visione ciclica di morte e resurrezione, all’Eterno Ritorno [17], alla trasmutazione dell’uomo in animale (ma anche dell’animale in uomo).

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Martino fronteggia l’Uomo-Cervo, Carnevale di Castelnuovo al Volturno 2008 (fonte: TurismoinMolise.com).
Conclusione

Prima di lasciare l’associazione visitiamo una stanza a pian terreno dedicata al pittore Moulin, di cui gia abbiamo parlato; e qui, tra le foto dei suoi lavori, troviamo alcune “ricette” di preparati a base di erbe selvatiche. Scopriamo così che, oltre ad essere pittore, nella sua casa-grotta Moulin aveva approntato un eccellente laboratorio erboristico e conosceva le virtù e le proprietà di tutte le piante autoctone. Ci raccontano che in paese tanti hanno beneficiato dei suoi rimedi medici e hanno imparato da lui l’utilizzo delle erbe. Tanto sapere erboristico ci ha subito riportato alle piante di noce metella viste poche ore prima a Scapoli: in questo posto magico dove sopravvivono rituali e miti antichissimi e musiche arcaiche legate al mondo agricolo e pastorale, è ancora viva la conoscenza tradizionale delle piante e dei loro “poteri”, non ultimo grazie alla figura di Moulin, che ha popolato queste montagne solo pochi decenni fa.

Ritorniamo in piazza per salutare tutta la compagnia che ci ha accolti come fossimo a casa e ci ripromettiamo di ritornare presto con un po’ di materiale in più per decifrare non solo la figura della Janara ma anche quella altrettanto intrigante e magica dell’Uomo Cervo. Ritorniamo giusto in tempo al lago per il tramonto e lo spettacolo é eccezionale: le guglie irte e rocciose sovrastano i boschi e tra questi ci sembra di scorgere l’Uomo Cervo, o Cernunno, o il Rex Nemorensis che tira i fili che fanno muovere la ruota delle stagioni, mentre intorno danzano eteree janare, quasi ninfe del lago e dei boschi, illuminate dalla luna piena delle magiche Mainarde.


Note:

[1] T. Indelli, Storia Politica della Longobardia Minor – I principati longobardi di Benevento, Salerno e Capua, Editrice Gaia.
[2] Cfr. A. Modena Altieri, Lupercalia: le celebrazioni catartiche della Februa, su AXIS mundi.
[5] M. Eliade, Lo Sciamanesimo e tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee.
[6] C. Ginzburg Storia Notturna – Una decifrazione del Sabba, Adelphi (Capitolo “Ossa e pelli”).
[8] M. Gimbutas, Le Dee e gli Dei dell’Antica Europa, p. 178.
[9] G. Centore, Capua Epigrafica ed altro, Capua Speciosa, p. 70.
[14] G. Spertino, I calderoni unni: un’ipotesi micologica, Eleusis N* 3 dicembre 1995, pp. 20 ss.
[15] G. Chiesa Isnardi, I miti Nordici, pp. 557 ss.
[16] Cfr. A. Massaiu, Le lontane origini del Carnevale sardo, su AXIS mundi.