Frammenti di uno sciamanesimo dimenticato: le Masche piemontesi

Lo studio delle pratiche “magiche” e delle credenze folkloriche riguardanti le Masche piemontesi ci apre degli spiragli (neanche troppo inaspettati) sui Culti cosmico-agrari dell’antica Eurasia.


di Marco Maculotti
copertina: David Ryckaert III, “The Witch”, c. 1640-1650

« I rituali segreti che le cosiddette streghe praticavano potevano nascondere, e insieme conservare, segreti appartenuti a ere remotissime e dimenticate; in tal caso, non sarebbe stato impossibile che Keziah avesse scoperto come varcare i cancelli che regolano l’accesso alle altre dimensioni spazio-temporali. Molte tradizioni insistevano sull’inutilità delle barriere materiali per fermare le streghe, e chi poteva dire cosa si nascondesse dietro l’allegoria della cavalcata notturna sul manico di una scopa? »

« Ella disse al giudice Hathorne di linee e curve che potevano essere fatte per muoversi attraverso le mura dello spazio verso un altro spazio esterno… »

H.P. Lovecraft, “The Dreams in the Witch-House”, 1933

Esistono al mondo ben poche aree geografiche interessate dal “fenomeno” della Stregoneria quanto l’Italia: dai processi inquisitori nel Settentrione, dalla Liguria al Trentino, ai culti estatico-agrari del Friuli analizzati da Carlo Ginzburg [1], dalle Janare del Meridione [2] alle omonime Janas sarde [3], dalla Stregheria toscana studiata da Charles Godfrey Leland in Aradia, il Vangelo delle Streghe (1899) [4] alle più antiche tradizioni in merito alle Sibille appenniniche e cumane, la penisola italica sembra aver conosciuto una diffusione a macchia d’olio delle pratiche cultuali in esame, diffusione che nemmeno l’avvento del cristianesimo ha saputo attenuare, se non dopo molti secoli e al prezzo di molteplici vite umane [5].

Persino i più antichi numi delle popolazioni italiche, d’altronde, erano detti essere divinità “selvagge”, proprie di un mondo pastorale e non ancora stanziale, come i latini Silvano [6] e Fauno e la sabina Feronia: tradizione che ci fa pensare a un’epoca arcaica, probabilmente il Neolitico, in cui doveva essere diffuso nell’intera penisola un sistema cultuale di tipo sciamanico, che noi abbiamo già in altra sede proposto essere il substrato reale del revival (sempre se di revival poi devesi parlare, e non piuttosto di una persistenza più o meno continuativa) del “fenomeno stregonesco” [7].

In questa sede vogliamo limitarci ad analizzare la tradizione piemontese, nel cui ambito culturale le adepte al culto stregonesco vengono denominate con l’appellativo di “masche”, termine derivante dal longobardo che compare per la prima volta in un testo scritto nell’Editto di Rotari (643 d.C.) col significato di “strega”: «Si quis eam strigam, quod est Masca, clamaverit». Ma il suo significato va ben oltre, come vedremo, alla semplice accezione utilizzata nell’Editto, assumendo all’occorrenza anche il significato di “spirito di un morto” e “demone maligno”.

Tuttavia, sebbene le testimonianze dell’era cristiana insistano particolarmente nel mettere in risalto i lati “sinistri” e “demoniaci” delle masche, nondimeno la tradizione popolare non le reputa del tutto malvagie: così come potevano maledire e avvelenare le loro vittime, esse erano anche in grado di guarirle, sia grazie alla conoscenza della scienza erboristica sia mediante pratiche “magiche”, o noi diremo piuttosto “para-sciamaniche”; così come scatenavano tempeste e guastavano i raccolti potevano anche allontanarle e favorire la fertilità dei terreni e l’abbondanza dei raccolti con operazioni rituali.

Per questa nostra disamina, ci affideremo soprattutto al testo redatto da Donato Bosca, massimo esperto dell’argomento, Masche. Voci luoghi e personaggi di un “Piemonte Altro”. Egli riconosce nella figura della masca certi caratteri dominanti, che così riassume [8]:

la masca è prevalentemente una figura femminile;
opera quasi sempre di notte;
si incontra con altre masche in luoghi lontani dai centri abitati;
abita ai limiti del paese;
può mutarsi in animali;
è in grado di spostarsi in volo;
le sue vittime preferite sono maschili;
talvolta divora o sacrifica i neonati;
teme il sacro;
è una profonda conoscitrice delle pratiche naturali.

Vedremo ora di analizzare una ad una le suddette caratteristiche dominanti, facendo uso delle informazioni fornite dal Bosca ed integrandole con alcune osservazioni supplementari suggeriteci dalla conoscenza di tematiche similari in ambiti antropologico-cultuali non distanti da quello di cui si tratta in questa sede.

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Francisco de Goya, “Vuelo de brujas”, 1798.

Le masche, la Stregoneria, lo Sciamanesimo

Il fatto che la masca sia una figura prevalentemente femminile non può assolutamente causare stupore alcuno: in tutte le tradizioni ascrivibili all’alveo della “stregoneria” sempre si denota non solo una maggior presenza femminile dal punto di vista quantitativo, ma sempre si pone l’accento sul fatto che l’ambito sapienziale-cultuale proprio della “stregoneria” è per sua natura femminile, la conoscenza delle pratiche naturali (e in special modo delle piante, usate ora come rimedio ora come veleno, secondo la migliore tradizione sciamanica) essendo inseparabile da un corpus di conoscenze che nei tempi arcaici spettava di diritto al consesso femminile (probabilmente anche nell’ambito di confraternite iniziatiche), come appunto quello medico e ostetrico. Da cui, il gran numero di guaritrici ancora attive nel XX secolo in numerose aree rurali d’Italia.

Non è da escludere — anzi, chi ci segue da tempo saprà che questa è la nostra ipotesi di lavoro — che tali pratiche possano aver conosciuto una diffusione massima in un’epoca proto-storica, probabilmente come detto neolitica, ad ogni modo precedente l’arrivo dei popoli indoeuropei da Oriente: un’epoca che, riprendendo gli studi del Bachofen [9], sarebbe stata plasmata da uno Zeitgeist per così dire “matriarcale”, “selenico-ctonio”, in contrasto con quello dei più recenti conquistatori indoeuropei, la cui cultura “patriarcale” si fondava sull’addomesticamento del cavallo, la lavorazione del ferro, l’utilizzo del carro da guerra e un sentimento religioso di tipo “solare” e “verticale”, volto più agli dèi uranici che a quelli terrestri e ctoni. È anche l’ipotesi di Marija Gimbutas [10] e, prima di lei, di Margaret Murray [11], la quale fu forse la prima a connettere i puntini e a legare la stregoneria europea medievale con il culto ancestrale del “Dio Cornuto” e della sua paredra.

Nulla di strano, dunque, che un sistema cultuale-culturale simile, prima ostacolato dalle migrazioni indoeuropee — i cui popoli tuttavia seppero integrare nella loro “visione sacra” elementi arcaici provenienti da questo substrato neolitico, si veda ad esempio il culto di Pan/Silvano/Fauno e quello di Diana e delle potenze numinose a lei connesse, quali ninfe e fate –, poi “messo al rogo” dall’Inquisizione della Chiesa di Roma, abbia dato storicamente la preferenza alle adepte di sesso femminile, che probabilmente nelle sue pratiche trovarono anche il modo di veicolare i propri risentimenti verso le strutture “patriarcali” del potere costituito.

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In questo senso va interpretato l’accenno alla predisposizione della masche (o, più in generale, delle streghe), di temere il sacro: in realtà esse temono (e soprattutto aborriscono) la concezione del “sacro” tipica del cristianesimo, secondo la quale gli dèi dei Gentili sono equivalenti al diavolo. Ad ogni modo, la loro repulsione per la croce è indubitabile: Bosca racconta [12] di un prete che usava, a messa iniziata, far mettere nell’acquasantiera dei centesimi con la croce:

« E succedeva che alla fine della messa un certo numero di donne restavano ferme nei banchi, come se non potessero più muoversi, come se fossero paralizzate. Segno che erano masche e che la moneta con la croce le aveva imprigionate. »

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Salvator Rosa, “Scene with Witches: Morning”, c. 1645-1649.

Per Giuseppe Viola, un «personaggio anacronistico a metà fra il guaritore e l’istrione» intervistato da Bosca, residente non lontano da Alba, «le masche costituivano una specie di società segreta che traeva poteri e privilegi da un libro magico offerto da belzebù a chi in cambio gli faceva dono dell’anima» (ne parleremo a breve). Qui ci interessa piuttosto mettere in rilievo come la sua testimonianza [13]:

« …accennava a simboli e rituali magici, con richiami ad un mondo arcaico… una specie di remota epoca pagana precristiana nella quale le divinità pagane dominavano incontrastate boschi, colli, fondovalli e saliscendi di Langhe e Roero. »

Ciò detto, è naturale che alla suddetta posizione liminale del personaggio della masca corrispondano determinate conseguenze di natura pratica, come il fatto di abitare ai limiti del paese (caratteristica che la “strega” condivide da sempre con altri personaggi “di confine” come lo sciamano, il fabbro e, nel folklore, l’Uomo Selvatico), o di operare quasi sempre di notte (d’altronde l’ambito cultuale “stregonesco” è da ritenersi fondato sulla conoscenza delle fasi lunari, l’adorazione per divinità seleniche quali Diana ed Ecate essendo inequivocabile in questo senso), o ancora di incontrarsi con altre masche in luoghi lontani dai centri abitati, spesso luoghi “fatati” come alberi di noce, collinette connesse al mondo delle Fate, boschi sacri sin dai tempi del paganesimo più arcaico, valli e grotte che ancora oggi nella toponomastica ricordano gli antichi culti (“Valle delle Streghe”, “Grotta delle Fate”, “Ponte delle Masche”, ecc.): sono questi i luoghi adibiti alle adunanze delle quattro tempora” (che i Celti chiamavano Imbolc [14], Belthane, Lammas [15] e Samhain), meglio conosciute dai “profani” con la denominazione generica di “Sabba”.

Può essere qui interessante notare che i poteri “magici” attribuiti nelle testimonianze dell’era cristiana alle masche — e più in generale alle streghe — siano pressoché gli stessi che gli autori classici riconoscevano ai Druidi celtici, o per meglio dire proto-celtici, in quanto sembra che il collegio sacerdotale dei medesimi esistesse già in epoca arcaica; si trattava quindi con tutta probabilità di una istituzione — o, per meglio dire, di una confraternita sacra — di una civiltà che occupò sia l’Europa continentale che la penisola iberica che le isole britanniche ben prima (nel tardo Neolitico e nell’età del bronzo) dei Celti conosciuti dai Romani in epoca storica. Ad ogni modo, ecco un elenco degli straordinari poteri attribuiti ai Druidi dagli autori latini [16]:

« Controllano i poteri dell’illusione, fanno sollevare venti e tempeste, ricoprono le terre di nebbie per portare lo scompiglio tra gli eserciti… sono maestri nell’arte di trasformare i corpi. Sono capaci di visioni a distanza. Fabbricano misteriosi elisir dell’oblio. Sono medici perché, dopo Tiberio, Plinio li descrive in Gallia ridotti a esercitare la medicina per vivere. Possono prosciugare i ruscelli. A volte profetizzano. »

Una volta appurate le molteplici somiglianze fra i poteri attribuiti alle masche/streghe (o più per esteso a tutti coloro che la Chiesa considerava “seguaci del diavolo”) e ai Druidi, non ci resta che rilevare come questi ultimi professassero un culto prevalentemente “arboreo” di impronta sciamanica, fondato sull’osservazione delle fasi lunari e sulla raccolta e l’utilizzo di piante a fini guaritivi e “magici”, nonché che i quattro “cardini” sacri del calendario druidico, come abbiamo già visto, equivalgono pedissequamente alle notti delle “quattro tempora” in cui si svolgevano i Sabba stregoneschi, in Piemonte così come in tutta Europa.

Sulla metamorfosi zoomorfica [17] e sul “volo” delle masche [18] non sarà necessario soffermarsi più di tanto, avendo noi già trattato l’argomento in altri due articoli precedenti: valga quindi quanto già detto in altra sede, cioè che la capacità di “volare” è da connettersi a pratiche estatiche mediante le quali, il più delle volte con l’ausilio di un unguento psicotropo, le streghe lasciavano il corpo e, “in spirito” (o, secondo il lessico di Paracelso, con il “corpo astrale”), potevano raggiungere i luoghi più disparati, trasformandosi pure all’occorrenza in animali (gatti neri, capre, civette, ecc.). Grazie a tali esperienze estatiche le masche ottenevano il potere della bilocazione e quello della “visione a distanza”. Si diceva inoltre che potessero apparire in forma di “fiammelle oscillanti al vento” o “fuochi fatui”.

Tutti questi poteri extra-ordinari, benché a prima vista possano sembrare afferenti tutt’al più al mondo della favola e della fantascienza, sono ben conosciuti nell’ambito dello sciamanesimo di qualunque parte del mondo in tutte le sue più o meno variegate propaggini [19]: per esempio in India, dove vengono denominati Siddhi (“potere spirituale”, “abilità psichica”) e non vengono affatto “demonizzati”, o in Irlanda e Scozia fino almeno al XIX secolo, dove erano prerogativa di una minoranza di persone che erano state investite del dono della “seconda vista”, spesso conferita loro dal popolo “sotterraneo” dei Tuatha de Danann, consorzio divino e ferico cui in idioma gaelico ci si riferisce con il termine… Sidhe [20]!

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Scherzi dell’etimologia o brandelli di un arcaico substrato comune all’intera Eurasia, dall’oceano Atlantico a quello Indiano e alle steppe dell’Asia centrale? A tal riguardo, non è fuori luogo la segnalazione raccolta da Bosca di due bastoni rituali utilizzati nelle pratiche sciamaniche kazake ed esposti nel museo etnografico di Alma-Ata, capitale del Kazakistan [21]:

« Tutto ciò che mi dissero è questo: sono bastoni che venivano usati dalle streghe (per lo più donne e per lo più cattive) per dare il malocchio o fare scherzi alle persone… Sono oggetti da museo che appartengono alla tradizione dei Kazachi, popolazione di allevatori nomadi di stirpe turco-mongola diventata stanziale e contadina solo nel secolo scorso. »

Se già quanto rilevato può sembrare — a ragion veduta — eccezionale, devesi aggiungere che la denominazione kazaka di tali bastoni rituali, che ricordano sia nella forma che nell’utilizzo le “bacchette” delle streghe (e delle fate), sia “Bastoni del comando”. Il proseguo del discorso ci consentirà di trovare un’altra, strabiliante corrispondenza con la tradizione “stregonesca” — ma meglio sarebbe a questo punto dire “sciamanica” — piemontese.

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Litografia del XVI secolo raffigurante il Sabba.

La “Fisica” e il “Libro del comando”

Vediamo ora di proseguire il discorso, indagando in modo un po’ più approfondito le modalità con cui le masche ottenevano e mettevano in atto i loro poteri eccezionali; ancora una volta, riteniamo, ciò ci collegherà ai poteri attribuiti ai Druidi e alle pratiche rituali ed estatiche dello sciamanesimo delle steppe dell’Asia centrale. Secondo la testimonianza del già citato Viola e di molti altri, le masche riuscivano a compiere prodigi perché conoscevano le “regole del Gioco”, la cosiddetta “Fisica”, vale a dire un corpus di pratiche “magiche” con cui si riteneva fosse possibile influenzare la realtà («Già, la fisica. Ti fanno vedere delle cose che gli altri non vedono» [22]).

A questo riguardo, probabilmente non è un caso se la divinità femminile del Sabba viene sovente denominata, nei documenti processuali dell’Inquisizione nell’Italia settentrionale, “Signora del Gioco” (Domina Ludi) [23]. Da parte sua, Bosca definisce questa “Fisica” come «una sorta di energia psicocinetica che consentiva di plagiare le persone con poca forza di carattere» ma precisa che, riferita alle masche, «indicava uno stato di ipnosi che permetteva di staccarsi dalla realtà e di accedere ad altri mondi» [24].

Indispensabile per la messa in atto di certe pratiche proibite si riteneva essere il “Libro del comando”, una sorta di «ricettario della magia nera», vale a dire un tomo di cui le masche erano in possesso e che si vociferava essere stato dato loro dal Diavolo in persona. Il luogo d’incontro delle adepte con il demonio per ottenerlo doveva essere una zona boschiva, preferibilmente in mezzo a un quadrivio o un settivio — ciò ci ricollega nuovamente ai culti ctonio-notturni proto-indoeuropei, quali ad es. quelli di Ecate e Mercurio ctonio –, sovente vicino a un maestoso albero colpito da un fulmine [25]. Secondo una testimonianza collazionata da Bosca, uno di questi libri demoniaci [26]:

« Ce l’aveva un prete di Elva… E a legger là dentro ci voleva davvero una scienza profondissima. Non era mica un libro come gli altri. Prima di tutto antico di secoli, fors’anche di millenni; e poi, scritto a mano, ma con un’infinità di segni stranissimi — ghirighori, frecce, circoli, nodi, reticolati, spirali, cifre e figure mostruose — e con certe pagine in un rosso così vivo da parer sangue e fuoco. Aprendolo, e leggendolo nei suoi diversi capitoli come si doveva, il fortunato suo proprietario poteva fare qualunque cosa gli venisse in mente, soddisfare qualsiasi capriccio, produrre i fenomeni più grandiosi e catastrofici che si possano immaginare; come sarebbe offuscare il sole, suscitare il vento, scatenar l’uragano, cambiar direzione ai fiumi, spianar le montagne. »

Sebbene la maggior parte degli studiosi ritenga che si trattasse semplicemente di una sorta di agenda su cui gli adepti al culto segreto appuntavano formule e cerimonie, nondimeno la tradizione popolare ne parla come di un vero e proprio oggetto “sovrannaturale” e “diabolico”. Sono molti i racconti collazionati dal Bosca in cui si racconta di opere di distruzione di “Libri del comando” con conseguenze “sovrannaturali” [27]:

« A bruciarli si vedevano fiamme d’ogni colore, e dentro le fiamme uomini che cercavano di uscire gemendo e si udivano pianti, risate, urla, fischi, i rumori più assordanti. »

Si dice anche che una masca non potesse morire senza aver passato il “Libro del comando” e l’ars stregonesca a qualcun altro: essa semplicemente deperiva nelle più atroci sofferenze fisiche e psichiche, «tra tormenti e ossessioni diaboliche» [28], e per spirare ci volevano settimane o mesi.

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August Malmström, “Dancing Fairies”, 1866.

Masche, Fairies e spiriti dei morti

Con tutta probabilità, ad ogni modo, è proprio per la sua capacità di uscire “in spirito” dal corpo e di assumere fattezze animali a proprio piacimento che tradizionalmente la figura della masca si pone a metà strada, come d’altra parte anche la Janara dell’Italia meridionale, tra la strega ed entità altre quali fantasmi, entità feriche, spiriti dei morti e “demoni maligni” di ogni sorta. Così Davide Lajolo [29]:

« Le masche stanno nei boschi e sono altissime. La loro testa sovrasta quasi sempre le piante, anche le più alte. Sono fatte di cose bianche che sembrano lenzuola, ma non sono lenzuola perché non si possono toccare. Hanno la voce roca che attraversa tutte le valli e le colline come un’eco. Con loro è possibile consumare anche l’amore. »

Com’è evidente, talvolta il loro ambito mitico-folklorico è il medesimo di entità dell’inframundo [30] del tipo dei Fairies (le masche rapiscono e sostituiscono i bambini nelle culle [31] o, nottetempo, intrecciano le criniere dei cavalli nelle stalle) ed è connesso in qualche modo anche con il “mondo dei morti”: Bosca riporta leggende che richiamano il topos mitico della “Caccia Selvaggia” [32], che d’altronde si diceva condotta dalla dea Diana o divinità femminili omologhe. In più, i “folletti” (servan) sono citati nelle testimonianze collazionate da Bosca come partecipanti al Sabba insieme alle masche [33]: il regno del dio (e della dea) delle streghe è la stessa Fairyland [34], il dominio ultraterreno, a metà strada fra il sotterraneo e l’etereo, della “Regina delle Fate” e del “Dio Cornuto”.

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Quando parliamo di “masche”, dunque, non dobbiamo concentrarci solo sulle “streghe”, ma sull’intero universo mitico che lo studio del fenomeno rivela: e ciò vuol dire il substrato neolitico, con annesse le pratiche cultuali stagionali, la conoscenza dei rimedi naturali, l’uso di sostanze vegetali psicotrope, l’adorazione di divinità della “natura selvaggia” con tutto il suo seguito di entità altre quali Uomini Selvatici, Fairies, fate e folletti. Se vogliamo decifrare il loro complesso mitico-cultuale è necessario immetterci nel loro “flusso”, comprendere la loro Weltanschauung, non demonizzarne cristianamente l’universo mitico né tantomeno — peggio ancora — limitarci a considerarlo meramente al livello di “favola”, “superstizione”, o “psicopatia” come i soloni delle accademie sono soliti fare.

Vogliamo concludere con una citazione della professoressa Tonello Regis, riportata da Bosca, in cui viene riassunto l’ambivalente universo mitico delle masche: viene messo in risalto — oltre ai già lungamente discussi aspetti più “sinistri” — come esso in ultima analisi richiami suggestioni “fantastiche” proprie del “mondo fatato” e non immuni dal topos del paradiso perduto, locus amœno del tipo della leggendaria Arcadia e dell’Oltremondo celtico, cui noi tutti, anime vaganti, “prigionieri di un sogno”, aneliamo alfine di tornare [35]:

« Ci sono masche astiose e vendicative, figlie del demonio assetate di sangue, ce ne sono altre burlone e dispettose che scambiano in culla i neonati più belli con i loro stregoncini. E folletti che si divertono a scompigliare tegole e a spaventare le mandrie negli alpeggi; anime del purgatorio che vanno in processione di notte sui monti facendosi luce con il mignolo acceso come i fantasmi del Monte Rosa, prigionieri di un sogno che li spinge nell’inutile ricerca di “das Verlorene Thal”, la meravigliosa valle perduta verdeggiante tra i ghiacciai. »

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William Blake, “Oberon, Titania and Puck with Fairies Dancing”, c. 1786.

Note:

[1] C. Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966 e Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 1989; vedi anche M. Maculotti, I benandanti friuliani e gli antichi culti europei della fertilità, su AXIS mundi.

[2] Cfr. M. Maculotti, Cernunno, Odino, Dioniso e altre divinità del ‘Sole invernale’ e M. Palmesano, La magia delle Mainarde: sulle tracce delle Janare e dell’Uomo Cervo, su AXIS mundi.

[3] Cfr. A. Massaiu, Le lontane origini del Carnevale sardo, su AXIS mundi.

[4] C.G. Leland, Il Vangelo delle Streghe, Stampa Alternativa, 2001.

[5] Cfr. M. Maculotti, Da Pan al Diavolo: la ‘demonizzazione’ e la rimozione degli antichi culti europei, su AXIS mundi.

[6] La figura mitica del “silvano” è presente anche nel folklore piemontese con il nome di “servan”, «abitatori dei boschi che si divertono a mettere le cose in disordine, scompigliando tegole, greggi, quello che capita a tiro. Tra le malefatte va per la maggiore il non lasciar quagliare il latte e il suonare a tradimento i campani delle mucche» (D. Bosca, Masche. Voci luoghi e personaggi di un “Piemonte Altro” attraverso ricerche racconti e testimonianze autentiche, Priuli & Verlucchia, Torino 2012, p. 214).

[7] Cfr. Maculotti, Benandanti, op. cit.

[8] Bosca, op. cit., pp. 102-103.

[9] J.J. Bachofen, Le Madri e la virilità olimpica. Storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, a cura di J. Evola, Mediterranee, Roma 2010.

[10] M. Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia, Roma 2008.

[11] M. Murray, Il dio delle streghe, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1972.

[12] Bosca, op. cit., p. 103.

[13] Ivi, pp. 42-43.

[14] Cfr. M. Maculotti, Imbolc, la triplice dea Brigit e l’incubazione della primavera, su AXIS mundi.

[15] Cfr. M. Maculotti, La festività di Lughnasadh/Lammas e il dio celtico Lugh, su AXIS mundi.

[16] L. Charpentier, I giganti e il mistero delle origini, L’Età dell’Acquario, Torino 2007, p. 238.

[17] Cfr. M. Maculotti, Metamorfosi e battaglie rituali nel mito e nel folklore delle popolazioni eurasiatiche, su AXIS mundi.

[18] Cfr. Maculotti, Benandanti, op. cit.

[19] Cfr. M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee, Roma 2005.

[20] A riguardo dei Tuatha de Danann, si aggiunga anche che: «…le leggende li mistificano come un popolo fatato e semidivino dell’Annwyn (l’aldilà celtico) i cui membri, immortali e potenti maghi, partecipavano a eterni banchetti in luoghi fuori dallo spazio e dal tempo, collocati spesso all’interno degli antichi tumuli o in prossimità di dolmen o dei laghi, oppure danzavano sotto la luna, oppure ancora rapivano bambini» (cit. Wikipedia.it, “Sidhe“). Impossibile non notare le similitudine con l’universo mitico-folklorico delle masche e, più in generale, delle streghe dell’Europa continentale. Sull’Aldilà celtico, cfr. Jean Markale: l’Altro Mondo nel Druidismo e nel Cristianesimo Celtico, su AXIS mundi.

[21] Bosca, op. cit., p. 53.

[22] Ivi, p. 197.

[23] Cfr. L. Muraro, La Signora del Gioco. La caccia alle streghe interpretata dalle sue vittime, La Tartaruga Edizioni, Milano 2006.

[24] Bosca, op. cit., p. 212.

[25] Ivi, p. 49.

[26] Ivi, pp. 201-202

[27] Ivi, p. 49.

[28] Ivi, p. 71.

[29] D. Lajolo, Gazzetta del Popolo, 10 luglio 1977, cit. in Bosca, op. cit., p. 102.

[30] Cfr. M. Maculotti, Chi si nasconde dietro la maschera? Le visite dall’Altrove e l’ipotesi parafisica, su AXIS mundi.

[31] Cfr. M. Maculotti, I rapimenti dei Fairies: il “changeling” e il “rinnovamento della stirpe”, su AXIS mundi.

[32] Bosca, op. cit., p. 90. Sulla “Caccia Selvaggia”, cfr. G. Failli, Il Meraviglioso nel Medioevo: i “mirabilia” e le apparizioni dell’ “exercitus mortuorum” e La Masnada di Hellequin: da Wotan a Re Artù, da Herla ad Arlecchino, su AXIS mundi.

[33] Ivi, p. 86.

[34] Cfr. M. Maculotti, L’accesso all’Altro Mondo nella tradizione sciamanica, nel folklore e nelle “abduction”, su AXIS mundi.

[35] Bosca, op. cit., p. 35.


13 commenti su “Frammenti di uno sciamanesimo dimenticato: le Masche piemontesi

  1. Buongiorno. Volevo avvertirvi che se si cerca di scaricare questa pagina, alcune parti risultano ‘pallide’ e difficilmente leggibili. Potreste provvedere e ripostarla? E ancora mille volte congratulazioni per il vostro preziosissimo lavoro.

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