Folklore, sciamanesimo e “stregoneria” fra gli Inuit dell’Artico

Viaggio alla scoperta della tradizione mitica, delle credenze folkloriche e delle pratiche animistico-sciamaniche delle popolazioni native dell’area artica.


di Sam Hall
tratto da Il quarto mondo. Il patrimonio dell’Artico e la sua distruzione,
cap. 7, “Amuleti e Angakok”, Geo S.r.l., Milano, 1991
traduzione di Nicoletta Spagnol
note a cura di Marco Maculotti
immagine: Germaine Arnaktauyok, “Sedna – Mother Earth”


Durante la primavera e l’estate, quando si dedicavano agli aspetti pratici della vita comunitaria, gli inuit, generalmente superstiziosi e timorosi, sembravano contenti e allegri. Eppure il bel tempo continuo può risultare stancante, i white-out [1] e la nebbia estiva possono esaurire i sensi e indurre uno stato di disorientamento. Sotto al loro aspetto spensierato, in inverno gli inuit spesso davano asilo a una miriade di segreti terrori. Prima che i missionari e i commercianti portassero il cristianesimo e uno stile di vita più moderno, i loro pensieri si concentravano tristemente sulla fame, la malattia e un mondo di spiriti. Gli inuit dissero a Fritjiof Nansen [2] che credevano che ogni oggetto, animato e inanimato, avesse un’anima, la sua inua. Tutto era vivo: pietre, slitte, arpioni, il ghiaccio che scricchiolava, le onde del mare e l’aria che respiravano. Credevano fossero posseduti dagli spiriti perfino la fame, il dolore, il sonno, l’amore e il riso.

Tali convinzioni, oggi ridicolizzate dalla maggior parte delle persone, erano naturali per i gruppetti di gente primitiva che viveva in un mondo vasto e isolato, in costante movimento a causa della caduta di rocce, dell’ingrossarsi del mare e del fendersi del ghiaccio. Migliaia di anni fa, quando gli antichi inuit per la prima volta videro che i ghiacciai davano origine agli iceberg, devono essere stati colti da un timore reverenziale, convinti che il processo derivasse dall’attività di creature viventi.

Nansen congetturò che quando un inuk primitivo sognava di essere fuori a caccia, e si svegliava scoprendo di non essersi mosso, non potesse fare a meno di credere che il suo corpo era posseduto da un’inua, un termine che in origine significava “essere vivente”, e da cui prese il proprio nome. L’inuk deve aver riflettuto sul fatto che se i ghiacciai potevano generare una prole come facevano le donne inuit, anch’essi dovevano essere governati da un’inua, e se le cose stavano così, allora certamente lo stesso doveva valere per gli animali e per gli uccelli, i fiumi che producevano il pesce, le montagne e i promontori che partorivano le rocce, e tutto ciò che si vedeva o non si vedeva, o si sperimentava soltanto. All’interno di alcune comunità si pensava che le persone e gli animali contenessero varie inua, una per ogni osso del corpo.

Alcuni inuit credevano che gli animali, gli oggetti inanimati e la terra stessa fossero abitati dalle anime dei morti. In alcune zone dell’Artide si credeva che l’aurora boreale fosse provocata dai bambini nati morti che giocavano. Gli originari della Penisola Kamciatka, in Siberia, credevano che gli animali e gli insetti rinascessero negli inferi. Si pensava che un gigantesco orso polare che aspirava acqua in fondo al mare, attraverso le narici dilatate, fosse la causa dei vortici. Dopo la morte gli spiriti umani potevano recarsi in particolari emisferi presenti tra la terra e il cielo, o sotto la terra e il mare. La regione superiore era benedetta dalla luce solare, da animali selvatici in abbondanza e rappresentava il “tempo in cui cantare” [vale a dire la stagione estiva, ndr]. La metà inferiore era più fredda e buia, molto simile alla terra quando c’erano la neve, il ghiaccio e terribili bufere. Questi mondi spirituali erano l’equivalente del paradiso e dell’inferno, anche se non esistono motivi di pensare che il comportamento di un inuk durante la vita avesse qualche importanza per la scelta finale.

La divinità suprema era Sila, la forza vitale che creava e permeava tutte le cose e che, come il Tao cinese, era inesauribile e intangibile [3]. L’ira di Sila, espressa tramite bufere di neve e tempeste, doveva venir evitata a tutti i costi, anche se gli inuit erano altrettanto ansiosi di placare le varie altre figure mitologiche e gli spiriti che influenzavano la loro vita. C’era Sedna, la dea del mare che forniva gli animali per la caccia [4]; Narssuk, il bambino gigantesco che viveva nello spazio e, probabilmente con l’aiuto di Sila, si diceva controllasse il tempo atmosferico; e se i loro tabù venivano ignorati la luna si eclissava. L’immaginazione della maggior parte degli inuit dell’estremo Nord era piena di una tale varietà di creature soprannaturali che sembra un miracolo che fossero in grado di conservare il proprio equilibrio mentale. Alcuni spiriti erano utili, avvisavano i guidatori di kayak dei pericoli che li attendevano o aiutavano i cacciatori a uccidere una balena o un tricheco, ma la maggior parte di loro dovevano essere temuti.

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Le malattie e la morte erano opera degli ilisiituk, che si occupavano segretamente di magia. Molto odiati, questi vecchi uomini e donne malvagi preparavano pozioni con piante e insetti, nonché carne e ossa umane, come i maghi e le streghe medioevali. Erano ladri di anime che si impadronivano dei cacciatori mettendoli contro le proprie famiglie e convincendoli a rifiutare la comunità per condurre una vita sulle montagne, dove le vittime, chiamate qivitok, diventavano quasi selvagge. Le dicerie e una paura esagerata conferivano a questi sfortunati una fama negativa e infondata. Si diceva che alcuni fossero alti nove metri e fossero in grado di saltare da una montagna all’altra, cacciando senza armi.

Gli ilisiituk erano particolarmente abili nel preparare dei mostri per gli stregoni, o tupilek, animaletti usati per infliggere ferite o anche la morte ai nemici degli ilisiituk [5]. Questo veniva fatto segretamente. Venivano raccolti una varietà di ossa e pelli, avvolte in una borsa di pelle con della carne di foca catturata dalla vittima prescelta, e un frammento preso dai suoi indumenti. L’ilisiitok, indossando il proprio anorak a rovescio, in modo che il cappuccio gli coprisse il volto, sedeva sulle rive di un fiume o di un fiordo, recitando formule magiche e scuotendo degli amuleti sulla borsa, in modo da chiamare in vita il tupilak. Quando questo era emerso ed era cresciuto completamente, la grottesca creatura scivolava nell’acqua, si travestiva da foca o da tricheco e nuotava vicino al nemico contro il quale era stato mandato. Non appena il cacciatore giungeva a tiro, il tupilak colpiva. Di solito l’inuk era spacciato. Se riusciva a sfuggire e il mostro falliva il suo compito, il tupilak ritornava a uccidere colui che l’aveva creato.

Con così tanti spiriti e creature soprannaturali in circolazione era importante osservare i molteplici tabù e le regole di vita che erano nate dall’esperienza e dalla saggezza delle precedenti generazioni. Consapevoli della sensibilità della terra, che era una cosa vivente, l’inuit cercava di evitare di posare direttamente sul terreno le pelli degli animali morti, affinché i loro spiriti non si trasferissero nel suolo. La morte degli animali veniva pianta e le parole che potevano risultare offensive per le loro anime, come “arpione” o “coltello”, non venivano usate. Gli inuit che non mostravano rispetto per gli animali che uccidevano o che incorrevano nell’ira delle divinità, potevano attirare sul villaggio tempeste, caccia scarsa e malattie [6]. In tali periodi molti inuit morivano di fame, lasciando i sopravvissuti in uno stato di confusione e incertezza. Fu in risposta al loro bisogno di essere guidati che nacque la figura dell’angakok, che rivestiva una posizione influente e potente in qualità di consigliere spirituale, dottore e tutore dell’ordine all’interno della comunità.

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Un angakok, di solito maschio, era l’equivalente dell’uomo di medicina degli indiani americani, del medico stregone africano, o del medium per gli spiritisti dell’occidente. Sosteneva di essere un chiaroveggente, di conversare con gli spiriti e di essere in grado di incredibili imprese di agilità mentale. Nella parte meridionale dell’isola di Baffin, una leggenda inuit descrive come il primo angakok avesse vissuto un’esperienza in cui il suo corpo astrale volò fuori dal tetto, e di come fosse stato in grado di vedere le anime dei suoi compagni. Sulla Penisola di Melville era un inuk che si tuffò nel mare per convincere la Madre del mare, Sedna, a fornire le prede sufficienti per porre fine a una carestia. Altri inuit credevano che i primi angakut fossero spiriti che scendevano dal cielo alla ricerca di bambini non nati nei cui corpi poter abitare, e da cui poter mettere in pratica le proprie conoscenze sciamaniche.

I compiti principali dell’angakok erano di comunicare con le divinità e gli spiriti più importanti per garantire condizioni di tempo e di caccia positive, e d’istruire gli inuit riguardo ai complessi aspetti dei tabù del gruppo, assicurandosi che vi si conformassero. Inoltre era il loro medico e, come tale, doveva combattere gli spiriti malvagi responsabili di aver causato le malattie. I disturbi minori venivano succhiati, soffiati e fatti uscire dal corpo a suon di colpi [7], oppure spazzati via con piume d’uccello. Le ustioni venivano curate con impacchi di sangue e grasso, o muco. Le ferite venivano pulite con urina, i foruncoli incisi, le ossa rotte venivano sistemate e le membra gravemente congelate venivano amputate.

Nel caso di malattie interne il paziente veniva esortato pubblicamente a confessare la violazione dei tabù. Si credeva che tali trasgressioni si attaccassero all’anima, opprimendola con la malattia e infine causando la morte. Di solito la confessione era l’unica cura di cui ci fosse bisogno, ma in casi estremi l’angakok poteva assegnare nuovi tabù come precauzione. Quando esaminava un paziente il suo verdetto era atteso con timore. Se decideva che non poteva o non voleva aiutare la persona malata, per lo sfortunato inuk non c’era altra alternativa che ritornare a casa e morire.

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Spesso per effettuare le cure veniva usata la magia. Una leggenda popolare racconta di come un ragazzo avesse recuperato la vista dopo che il suo angakok locale aveva usato delle gavie per portarlo fino a un lago, dove queste lo immersero ripetutamente nell’acqua. Le gavie artiche, o pulcinella di mare, erano strettamente associate allo sciamanesimo. Le loro penne adornavano il costume dello sciamano e i loro teschi, decorati con occhi artificiali, venivano usati come oggetti cerimoniali. Gli angakut siberiani usavano gli uccelli come famigli che dovevano guidarli a intraprendere lunghi viaggi nel mondo degli spiriti. Se un inuk stava male perché la sua anima era stata rapita dagli spiriti o da uno sciamano malvagio, era responsabilità dell’angakok trovarla, recuperarla e restituirla al suo legittimo proprietario [8].

Tali viaggi potevano essere intrapresi soltanto dopo una notevole preparazione. La capacità di indurre una trance era essenziale. Un angakok digiunava e si privava dell’acqua finché non iniziava ad avere delle allucinazioni, oppure si ritirava a meditare in un luogo isolato alla periferia dell’insediamento. Per concentrarsi mentalmente strofinava una pietra in circolo sul terreno per ore di seguito, come l’assistente di un maestro della pittura giapponese preparava per lui l’inchiostro strofinandolo su una pietra concava.

In inverno, quando gli inuit vivevano nelle loro abitazioni di pietra e di zolle, usava un altro metodo e organizzava una seduta simile a quelle che oggi vengono organizzate nelle comunità occidentali. Con le finestre e gli ingressi coperti e le lampade spente, l’angakok sedeva al centro del gruppo, cantando e cantilenando. I partecipanti, silenziosi e pieni di timore, ascoltavano la sua voce che seguiva il ritmo del battito di un tamburo di pelle, e che passava da gemiti e lamenti a un acuto piagnucolio e a grida isteriche. Dato che spesso era un abile ventriloquo, la scena includeva fruscii e fischi: voleva far credere che tali suono fossero voci provenienti dagli inferi. In tal modo l’angakok convinceva il pubblico del fatto che stava combattendo con gli spiriti maligni [9].

Se il maltempo impediva di cacciare e il villaggio doveva affrontare la fame, era necessario prendere misure drastiche. Allora all’angakok veniva chiesto di viaggiare nello spazio per placare l’Uomo della Luna, oppure di scendere nella profondità degli oceani per calmare Sedna, una dea che hanno in comune tutte le leggende inuit dalla Siberia alla Groenlandia. Tra gli inuit del Canada occidentale questo veniva effettuato tramite la costruzione di un illuliaq sul ghiaccio marino, e attraverso un foro praticato nel pavimento, lo sciamano e il suo pubblico cantavano per lei. Placata la sua rabbia, Sedna spiegava quali tabù erano stati infranti. L’angakok, che agiva da mediatore, esortava i presenti a confessare finché la dea non fosse soddisfatta e, addolcendosi, non li rifornisse nuovamente di prede.

Nell’Artide orientale e in Groenlandia il processo non era così semplice. Nella maggior parte dell’Artide era difficile e pericoloso comunicare con Sedna. Chiamata in vari modi, Nerrivik, Neqiviq Arnarkuagssoq, rappresentava la maggiore autorità in assoluto per gli inuit, e davanti a lei c’era soltanto Sila. Secondo quanto si dice era una donna irascibile e ne aveva motivo. La mitologia inuit, chiaramente arricchita in tempi recenti, racconta di come Sedna avesse sposato un gabbiano che ci vedeva così male da dover portare gli occhiali. Quando sua moglie lo vide senza occhiali per la prima volta, inorridì di fronte ai suoi occhi orribili e singhiozzò per tutta la notte. All’alba, quando suo marito andò fuori a caccia, lei fuggì in un’imbarcazione ricoperta di pelle con suo padre, e navigò in mare aperto. Quando il gabbiano scoprì che sua moglie se n’era andata, si infuriò talmente che inseguì l’imbarcazione e ne attaccò gli occupanti. Il padre, spaventato, cercando di salvarsi la pelle gettò fuori bordo sua figlia e quando questa si aggrappò al parapetto, le troncò le mani in modo che colasse a picco.

Incoraggiati dagli angakut che avevano un interesse acquisito nel sostenere e alimentare la superstizione, gli inuit credevano che i peccati segreti di coloro che non confessavano affondassero in fondo al mare e rimanessero impigliati nei capelli di Sedna, dove si trasformavano in pidocchi. Questi parassiti e l’irritazione che causavano, allontanavano dalla costa pesci e mammiferi, privando i cacciatori delle loro prede. La soluzione per una crisi del genere prevedeva che l’angakok scendesse sul fondo del mare e, pettinando i capelli di Sedna, ne placasse il malumore. Questo era forse il più difficile di tutti i suoi compiti e non poteva essere portato a termine senza l’aiuto degli spiriti servitori chiamati tornatLa maggior parte degli angakot possedevano molti di questi famigli, e li usavano in vari modi, come consiglieri, assistenti o vendicatori. Venivano mandati a svolgere il loro compito più o meno allo stesso modo e per motivi analoghi a quelli che spingevano chi praticava la magia nera a inviare i tupilek.

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Il viaggio in fondo al mare era lungo e pericoloso. Lo sciamano e il suo tornak prima attraversavano gli inferi, dove combattevano con gli spiriti dei loro precedenti nemici, oltrepassando crepacci e affrontando dure prove contro foche furibonde che cercavano di morderli. Un cane feroce era a guardia dell’abitazione di Sedna, il cui ingresso si stringeva finché non era più angusto di una lama di coltello [10]. A questo punto l’angakok era costretto ad attraversare un abisso per raggiungere la casa dove sedeva quella donna irritabile, che agitava due braccia che avevano le dimensioni delle pinne caudali di una balena, nel tentativo di liberarsi dei pidocchi. Se non era abbastanza agile da scansarla, un unico colpo avrebbe posto fine alla sua missione. Non sempre Sedna accoglieva favorevolmente i visitatori, e spesso era necessario che l’angakok e il suo tornak la tenessero ferma mentre la pettinavano. Fatto questo Sedna, dopo aver mangiato i pidocchi, si calmava e piena di gratitudine restituiva gli animali ai territori di caccia.

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Nonostante le difficoltà della professione, i vantaggi derivanti dall’essere un angakok erano notevoli. La sua capacità di predire il futuro e di ripristinare l’equilibrio vitale gli conferivano una posizione d’autorità, influenza e potere. Veniva rispettato e temuto e si diceva fosse immortale. In termini inuit era anche un uomo ricco. Anche se non veniva rimborsato per i servizi resi alla comunità nel suo insieme, poteva farsi pagare più o meno quel che voleva quando dava consigli di natura spirituale o medica a un singolo inuk. Di solito un coltello a lama larga o un arpione erano un pagamento sufficiente nel caso di una malattia poco grave ma, in casi più seri poteva chiedere un certo numero di cani o una tenda, un kayak o una slitta costruita con fanoni di balena.

Se c’era la possibilità che il paziente morisse poteva insistere per ricevere il pagamento in anticipo e poiché era in ballo la vita dell’inuk malato, non c’era alternativa, bisognava pagare. La mitologia non spiega che cosa facesse l’angagok con la sua crescente raccolta di beni materiali, ma in alcuni casi il pagamento veniva realizzato in forma di servizi. Il compenso per aver assistito a una nascita poteva essere i favori della madre una volta che si fosse ristabilita. La soluzione ai problemi di una coppia senza figli non veniva mai messa in discussione. Molte donne consideravano un onore giacere con un angakok e i loro mariti a quanto pare accoglievano favorevolmente la cosa e inoltre lo pagavano, soprattutto se l’unione risultava fruttuosa.

Non c’era carenza di aspiranti alla posizione di angakok, ma il neofita scelto doveva sottoporsi a un apprendistato di prova che durava anche dieci anni. Questo doveva venir intrapreso segretamente e comprendeva dover trascorrere lunghi periodi in solitudine, durante i quali il novizio apprendeva a indurre una trance e a trovare gli spiriti che, una volta toccati, sarebbero divenuti i suoi aiutanti. Gli veniva richiesto di scivolare in uno stato di meditazione talmente profondo da morirne di paura e poi tornare nuovamente in vita. Altre prove comprendevano lottare con un orso polare e venir mangiato da un tricheco, dopo di che lui doveva ripristinare il suo corpo spezzato e far ritorno all’accampamento tutt’intero [11]. Trascorso il periodo di prova, l’apprendista proclamava pubblicamente la sua conquista e iniziava la propria attività come socio giovane dell’angakok ufficiale della comunità.

Anche se per molte delle sue attività era necessaria la solitudine, i tentativi da parte dell’angakok di cambiare il tempo, curare gli ammalati e combattere gli spiriti maligni, oppure far visita a Sedna e all’Uomo della Luna venivano sempre effettuati di fronte a un pubblico. Inoltre egli celebrava varie cerimonie, soprattutto in Alaska, dove il tempo più mite faceva sì che gli inuit si dovessero preoccupare un po’ meno per la loro sopravvivenza. Nel corso dell’anno si tenevano elaborati rituali e danze, durante i quali i partecipanti indossavano costumi caratteristici. Con le pelli o le ossa o, quando era disponibile, con il legno, venivano realizzate delle maschere con cui nascondere la propria identità. In bocca alle maschere venivano posti dei denti di foca. Con le pellicce dei cani si facevano sopracciglia e baffi, e con le piume le barbe. Sul bordo esterno venivano applicate delle cordicelle di amuleti d’avorio squisitamente intagliati, per impedire agli spiriti di penetrare negli occhi, negli orecchi, nella bocca e nelle narici. La manopole, che arrivavano fino allo spalle, erano adornate di giada e pezzi di quarzo bianco, oppure di becchi di uccelli.

Questi amuleti venivano indossati come protezione contro gli spiriti maligni e i rapitori di anime, e potevano essere realizzati con strani ciuffi di capelli, pelle e unghie, oppure piccolissime statuine d’avorio o d’osso. Normalmente venivano indossati direttamente sulla pelle, ma le donne che desideravano figli forti, talvolta li portavano dentro alle crocchie di capelli sulla sommità del capo. Gli uomini, nella speranza di viaggiare sicuri e di fare buona caccia, li indossavano su cinture e fasce poste intorno alle braccia, oppure li introducevano in piccole sacche di pelle che si appendevano al collo [12]. Altri venivano posti nel tetto delle loro abitazioni, nelle panche in cui dormivano o all’interno dei kayak. Gli occhi e i becchi, gli artigli e le penne degli uccelli erano particolarmente benefici. Intorno al collo dei neonati venivano appese cordicelle di zampe di corvo per prevenire la fame. La zampa di un corvo, uccello tenuto in alta considerazione perché era in grado di trovare il cibo anche nei luoghi più inaccessibili, era considerato il più potente. Si riteneva che il legno, che non aveva sentimenti, garantisse una vita ricca e priva di dolori. Dalla pelle della mandibola superiore di un orso polare si poteva ottenere il coraggio. Il teschio di una volpe conferiva astuzia. Le ragazze ansiose di avere una gravidanza facile portavano nei propri indumenti le uova di uno zigolo delle nevi. Molti amuleti erano fatti a mano, e per esempio si diceva che un paio di kamiks in miniatura proteggessero dall’annegamento chi li portava.

Con tanti oggetti che pendevano dai loro costumi, gli inuit che danzavano producevano un rumore secco mentre si contorcevano e vorticavano al suono del tamburo cerimoniale. Questo era l’unico strumento presente in tutto l’estremo Nord. La sua ampia struttura circolare, con un diametro di più di 60 centimetri, era fatta con costole di foca o tricheco, anche se dal diciannovesimo secolo in poi venne usato il legno. La pelle del tamburo era tratta dalla gola di un tricheco o dal rivestimento dello stomaco di una balena, un caribù o un cane. Il suonatore di tamburo, che teneva in mano lo strumento prendendolo da un piccolo manico attaccato alla struttura, se ne stava a gambe divaricate, con le ginocchia leggermente piegate, e ondeggiava da una parte all’altra battendo il bordo invece della pelle del tamburo, con un corto bastoncino d’osso. Man mano che il ritmo faceva presa, lasciava oscillare il capo in modo esagerato, finché non cadeva in trance.

A questo punto un altro inuk tra il pubblico si alzava e si metteva in piedi direttamente davanti a lui, cantando qualche semplice nota. Non c’erano parole, soltanto un «Aya-ya-a… aya-a…» pulsante cantato in quarti di tono e mezzi toni su mezza ottava. Ben presto gli astanti venivano affascinati dallo stato d’animo e dalla monotonia della musica, e si univano a loro con un ritornello. Man mano che il battito del tamburo si faceva più insistente, la voce del cantante si innalzava fino a divenire un grido penetrante, e a questo punto interveniva il suonatore di tamburo, che cantava la propria frase. I due uomini continuavano a cantare alternandosi, in modo che lo spettacolo si trasformava in duello piuttosto che in duetto. Sudando abbondantemente, continuavano finché non erano stremati fisicamente ed emozionalmente e venivano sostituiti da altri combattimenti musicali, che continuavano a cantare per tutta la notte e parte del giorno successivo.

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Un’altra gara comprendeva il canto con la gola [13]. Quest’uso affascinante della glottide e delle corde vocali era una tecnica che interessava la modulazione della voce e che veniva praticata soprattutto dalle donne. Il canto era una grande gioia per gli inuit. Quando la caccia era abbondante, in tutto il villaggio echeggiavano continuamente le canzoni, provenienti da varie voci. Il loro canto era talmente importante, che le gare di canto e le danze al suono del tamburo in seguito si evolvettero in un unico processo giudiziario per la risoluzione delle dispute [14].

Sempre timorose del ridicolo, le parti in causa si davano il turno e cantavano versi satirici che schernivano i misfatti e gli insuccessi dell’avversario. Venivano derise le capacità del cacciatore o le sue parti anatomiche. Ognuno si beffava dell’altro. Questa canzonatura musicale, accompagnata da una recitazione ingiuriosa e molto caricata, faceva vincere colui che riusciva a suscitare le risate più forti. Per il perdente, tuttavia, l’esperienza poteva essere talmente dolorosa che la vergogna della sconfitta costringeva molti inuk [sic; inuit, ndr] ad andare in esilio.

Le canzoni e le poesie inuit erano brevi e non presentavano rime né scansioni, eppure erano semplici e dirette come la poesia Haiku giapponese. I seguenti esempi dimostrano un analogo interesse per la natura:

Il tempo possente
imperversa nella mia anima,
e io tremo.
Ossa sbiancate!
Scheletro asciugato al vento
nel vento si sgretola!

L’arte inuit è rigorosa. In tutte le loro opere la raffinatezza e la concentrazione delle idee riflettono una vita in cui c’è tempo soltanto per le cose essenziali. Eppure l’ambiente che li circonda, la lotta costante contro l’inedia e un’esistenza basata sulla paura hanno prodotto una ricca cultura. Dalla notte dei tempi, la capacità di scolpire e intagliare era necessaria come mangiare e dormire. Gli utensili, le lampade e i recipienti dovevano essere sbozzati dall’osso, dall’avorio e dalla pietra. Il desiderio di possedere degli amuleti portò alla realizzazione di una grande quantità di intagli in miniatura che rappresentavano la natura selvaggia che li circondava. Uno studio attento delle abitudini degli animali e degli uccelli, osservati nell’ambito dell’immenso paesaggio artico che isola talmente gli oggetti non bianchi da far sì che spicchino nell’acutezza dei particolari, ha causato un aumento del potere di osservazione e di comprensione degli inuit e ha conferito intensità alla loro scultura, poesia e pittura. Gli inuit non coglievano soltanto la forma, ma l’essenza dei loro soggetti, mostrando brillantemente l’arroganza di un orso polare, la paura della foca, la malvagità di un tupilak o l’umorismo di un inuk impegnato nella danza del tamburo.

L’intimo rapporto degli inuit con la Natura è continuato quasi indisturbato fino alla metà del diciottesimo secolo, quando vennero a contatto per la prima volta con la cultura degli uomini bianchi provenienti dal sud. Alcune comunità, specialmente gli inuit polari di Tule, nella Groenlandia nord occidentale, rimasero isolate fino all’inizio di questo secolo e un gruppo, gli Angmagssalik, nella Groenlandia orientale, non ha avuto praticamente alcun contatto con il resto del mondo fino alla II Guerra Mondiale. Eppure, in questi pochi anni relativamente brevi, l’influenza straniera ha intaccato e minato l’antica cultura venatoria.

In Alaska e in Canada ormai sono i turisti stranieri a indossare le pellicce. Gli inuit hanno adottato giacche a vento imbottite di piumino. Fatta eccezione per la Groenlandia, dove rappresenta ancora un importante mezzo di trasporto, la slitta trainata da cani è divenuta una rarità. Oggi, giovani inuit con occhiali a specchio corrono rumorosamente sul ghiaccio a cavallo di motoslitte acquistate con l’aiuto dei pagamenti dell’assistenza sociale. Altri formano scritte e disegni con le bombolette spray sulle pareti di prefabbricati di legno vuoti. La povertà e la disperazione stanno dividendo le famiglie, e lasciano gli inuit in uno stato di confusione e di amarezza.

L’angakok è morto, è stato sostituito da medici, infermieri e dai surrogati spirituali dei vescovi bianchi del sud, il cui stile di vita ha sommerso gli inuit e li ha lasciati in uno stato di dipendenza dalla stessa monocultura industriale che minaccia di distruggerli. La sua avanzata inesorabile li ha trasformati in cittadini di seconda categoria in un mondo emergente, ampiamente sconosciuto e sottosviluppato  un Quarto Mondo per cui le altre nazioni hanno dimostrato uno scarsissimo interesse, a parte per l’aspetto riguardante lo sfruttamento del suo popolo e delle sue risorse [15].

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Note:

[1] I white-out (reso in italiano come “tempo lattiginoso”) sono quei momenti nel bel mezzo di una bufera in cui, a causa della nebbia di neve e del vento gelido fortissimo non si vede più niente anche a distanza di pochi metri.

[2] Fridtjof Nansen (Store Frøen, 10 ottobre 1861 – Bærum, 13 maggio 1930) è stato un esploratore, scienziato e politico norvegese.

[3] Il concetto di Sila veniva anche reso, da alcune popolazioni del Subartico canadese, come “orenda”, con un significato simile al “manitu” dei nativi amerindi e al “mana” dei polinesiani.

[4] Altre tribù dell’Artico si riferivano alla «Grande Madre degli Animali Marini» con la denominazione di Takànakapsâluk.

[5] I Tupilek ricordano i famigli delle streghe europee, ma anche e soprattutto l’homunculus alchemico e il golem delle leggende ebraiche.

[6] Il rapporto degli inuit con il mondo della Natura è pressoché identico a quello degli altri nativi americani; cfr. M. Maculotti, Il Sacro Cerchio del Cosmo nella visione olistico-biocentrica dei Nativi Americani e La tradizione orale delle “Big Stories” come fondamento della legge delle popolazioni native del Canada e F. Spagna, Animali spirituali: tradizioni native del Canada subartico, su AXIS mundi.

[7] Sono queste tecniche di guarigione sciamaniche che ritroviamo, all’interno della razza mongolide, persino dall’altra parte del mondo (per es., nel Sud-Est asiatico).

[8] Per una trattazione completa di tutti questi topos all’interno delle culture sciamaniche, cfr. M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee, Roma, 2005.

[9] Nelle fonti etnografiche riguardanti le popolazioni amerindie del Nord America, a tale cerimonia ci si riferisce solitamente con la denominazione di “rituale della tenda scossa”.

[10] Sul topos nello sciamanesimo (e non solo) del “passaggio stretto”, cfr. M. Maculotti, L’accesso all’Altro Mondo nella tradizione sciamanica, nel folklore e nelle “abduction”, su AXIS mundi.

[11] Tale prova iniziatica si può ascrivere all’ambito del cd. “smembramento rituale”, come a tutte le tradizioni sciamaniche e particolarmente evidente nelle credenze degli aborigeni australiani.

[12] Equivalenti delle “borse-medicina” (medicine bags) dei nativi amerindi.

[13] Tradizione presente, all’interno del ceppo mongolide, anche nell’Asia centro-settentrionale, e precisamente in Nepal, Mongolia e Siberia.

[14] Per la peculiare risoluzione delle dispute fra i nativi americani, cfr. M. Maculotti, Diversità culturale e giustizia nativa: il “sentencing circle” e l’utilizzo sacrale del peyote tra i popoli nativi del Canada, su AXIS mundi.

[15] Per una vasta trattazione sulla tematica della sussistenza e dello sfruttamento delle risorse forestali e del sottosuolo in Canada e nell’Artico, cfr. M. Maculotti, Il riconoscimento dei diritti dei popoli nativi del Canada, cap. 3 “Native Land: titolo aborigeno e Land Rights“, pp. 110 ss., su Academia.edu.