L’Uomo eterno e i cicli cosmici

La specificità dell’uomo fra ipotesi evolutiva e prospettiva involutiva: immerso nei cicli del Cosmo, eppure perennemente uguale a se stesso.


di Michele Ruzzai
versione aggiornata dell’articolo “L’Uomo originario e l’inizio dell’età paradisiaca”, originariamente pubblicato su EreticaMente
note integrative (*) a cura di Marco Maculotti

Nell’articolo precedente [La fine dell’Età Primordiale e la Caduta dell’Uomo] avevamo cercato di inquadrare il particolare momento preistorico che vide il passaggio dalla fase paradisiaca a quella post-edenica della nostra umanità, traendo in larga misura spunto da quanto hanno avuto modo di scrivere gli autori ascrivibili al filone culturale del cosiddetto “Tradizionalismo integrale” (definito anche “Perennialismo”) come Julius Evola e René Guenon, ma anche nomi quali Ananda Kentish Coomaraswamy, Frithjof Schuon, Titus Burckhardt, in parte Mircea Eliade ed altri ancora. La prospettiva qualificante di questa corrente di pensiero – è utile ricordarlo – assume come essenziale punto di partenza il fatto che ai primordi si sia manifestato un retaggio conoscitivo, appunto una “Tradizione Primordiale”, di origine essenzialmente non umana, che i nostri Avi non hanno inventato o costruito, ma essenzialmente ricevuto da forze e realtà divine a loro trascendenti.

Se il sapere e le fonti più profonde delle verità metafisiche e cosmologiche – una Philosophia perennis et universalis – non rappresentano quindi nulla di umanamente accumulato, è facile comprendere come un altro degli elementi più caratterizzanti del pensiero tradizionalista sia il deciso rigetto della visuale evoluzionista – biologica e culturale assieme – almeno nella sua accezione più comune, ovvero quella di un processo generale che da un “meno” conduce verso un “più”, o da un “basso” procede verso “l’alto” (contrariamente al vero significato etimologico del termine che viene dal latino volvere, cioè srotolare, svolgere e che quindi dovrebbe piuttosto esprimere il dispiegarsi delle possibilità di esistenza che sono già tutte contenute – senza procedere, passo dopo passo, l’una dall’altra – nella totalità dell’Essere); ma sono tutti concetti che verranno approfonditi in un prossimo articolo (“Quale Evoluzione?”). La prospettiva tradizionalista ci invita quindi a considerate l’uomo sotto una luce radicalmente diversa rispetto a quella darwiniana, con delle riflessioni che possono coinvolgere più livelli.

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Peculiarità e “genericità” dell’Uomo

Ha radici lontane, innanzitutto, quell’interessante linea di pensiero rintracciabile già nel Protagora, dialogo platonico nel quale si narra il mito della creazione dell’uomo da parte dei due fratelli Titani, Prometeo e Epimeteo: quest’ultimo crea le diverse specie animali dotandole di vari organi di difesa, ma inavvertitamente lascia l’uomo nudo e inerme. Un aspetto, a ben vedere, abbastanza incongruo se interpretato nell’ottica evoluzionista di un perfezionamento continuo e di un uomo visto come “apice” del mondo biologico.

Temi simili vennero successivamente toccati da Pico della Mirandola, Herder e Schopenhauer fino ad arrivare alla più recente “antropologia filosofica” di Max Scheler e di Arnold Gehlen: l’uomo vi appare come un essere morfologicamente svincolato dall’ambiente circostante (con dunque pochi appigli da offrire alla selezione naturale), quindi “carente”, “manchevole” ed “a-specializzato”, di contro all’animale che invece vi è intrinsecamente condizionato. Una genericità morfologica che però, d’altro canto, Alain de Benoist ricorda anche accompagnata dal possesso di caratteristiche ed attitudini tipiche di specie molto differenti tra loro e che rendono l’uomo un soggetto unico per capacità così variegate, un ventaglio posseduto come nessun’altra forma vivente.

L’animalità dunque si evidenzia come intrinsecamente “più omogenea” per il neurobiologo Alain Prochiantz, ma anche di conseguenza più limitata e parziale, portando ad una singolare concordanza pensatori molto diversi come ad esempio Meister Eckhart – che inquadrava l’animalità come realtà parziale e l’uomo invece come un microcrocosmo completo – e Konrad Lorenz, il quale mise in luce come non esista praticamente nessuna specie vivente che possa, sul piano delle prestazioni fisiche, realizzare la diversità di esercizio di cui anche l’uomo medio, in virtù della sua “non specializzazione”, è capace. Dunque la coppia “ambiente-biologia” non è in grado di fornire all’uomo dei dati comportamentali univoci e quindi, rileva l’antropologo Clifford Geertz, è evidente come l’uomo viva in una vera e propria “lacuna di informazioni”: una lacuna che, di conseguenza, va riempita attingendo da altre fonti (cioè, in termini etnologici, dalla sua “cultura”). 

È quindi soprattutto sotto il profilo di una “chiusura”, di una perdita della pienezza delle possibilità omnidirezionali e “totipotenziali” esistenti ab origine (un “primitivismo” cioè da interpretare in tutt’altra prospettiva rispetto a quella di un’arretratezza evolutiva) che andrebbe riletto il meccanismo di specializzazione morfologica di una data forma; riducendo la scala, ciò ad esempio si verifica in un organo dalle iniziali caratteristiche più generiche attraverso l’ipertrofia di alcune funzioni a spese di altre (che per la “legge di Dollo” è un fatto irreversibile). Il dato della specializzazione morfologica può quindi essere letto in modo completamente diverso rispetto alle visuali darwiniste: se Giorgio Manzi rileva come nella classe dei mammiferi vi siano raggruppamenti (ad esempio i cetacei o i pipistrelli) che presentano caratteri decisamente peculiari a confronto dei Primati, nell’ambito di questi ultimi, secondo il biologo Max Westenhofer, lo stesso uomo addirittura potrebbe essere inquadrato come il più antico dei mammiferi in quanto, tra tutti, quello che sembrerebbe essersi meno allontanato dal loro ipotetico prototipo.

Altri ricercatori (ad esempio Klaatsch, Dacquè, Samberger, Frechkop) arrivano addirittura ad ipotizzare per la linea umana una percorso filogenetico del tutto a sé stante, tale da superare quello dell’ordine dei Primati se non addirittura, sorprendentemente, quello dei mammiferi. Per tempi più vicini a noi ed in una prospettiva meno ampia, il genetista Giuseppe Sermonti sottolinea come la gran parte dei caratteri dell’uomo attuale siano da considerarsi “primari”, cioè vicini alle conformazioni tipiche dell’ordine, presenti quanto meno nei più antichi primati fossili e collocandolo, contrariamente a quanto dovrebbe attendersi secondo la teoria evoluzionista, in una posizione filogenetica compatibile con quella di un mammifero della più elevata antichità: tra tutti, anche secondo Sermonti, forse il meno lontano da un ipotetico “prototipo” iniziale.

La forma umana sembrerebbe cioè essere la primigenia tra tutte quelle dei mammiferi in quanto evidenzierebbe una specializzazione molto meno marcata; e ciò non solo nei confronti, ad esempio, delle scimmie attuali, ma anche in rapporto a quelli che si vorrebbe fossero i nostri ipotetici precursori, ovvero le Australopitecine, gli Homo Erectus e gli Habilis. Al contrario, tali specie parrebbero invece denotare caratteri estremamente adattati a delle precise “nicchie” ecologiche (ed anzi, secondo Vittorio Marcozzi, già decisamente indirizzatesi in direzioni – in dei cul de sac – morfologicamente troppo divergenti per rappresentare le nostre antenate) rispetto ad altre forme più prossime a quelle umane attuali. Da queste ultime, infatti, gli ominidi africani avrebbero mantenuto la stazione eretta – che dunque presenterebbe una grandissima antichità – ma ciò stando ad indicare una loro derivazione da un tronco più originario e “centrale”, esistente già da tempi molto più antichi di quanto si supponga.

Sotto questo profilo, altre interessati indicazioni possono essere tratte dalla conformazione del feto umano. È stato infatti osservato come questo manifesti in modo ancora più evidente i caratteri generali dell’ordine a cui la specie appartiene, ed è per tale motivo che si presenta in maniera morfologicamente molto simile in tutti i rappresentanti di questa stessa classificazione zoologica (ad esempio, il feto di uno scimpanzè o di un gorilla sono quasi identici a quello umano): ma ciò solo perché ancora libero da caratteri “secondari” che verranno acquisiti in un secondo momento. Una specie poco specializzata, com’è quella umana, evidenzia infatti questa sua “primarietà” proprio nella somiglianza che, nell’adulto, si mantiene con lo stadio di feto e di neonato, cosa che invece non è osservabile in altre forme considerate a noi vicine: queste, ben presto, con la crescita dell’individuo si rivestono delle “sovrastrutture” organiche loro proprie.

È tale eterna fanciullezza che ha spinto autori come Louis Bolk ad inquadrare i caratteri somatici dell’uomo come condizioni fetali divenute permanenti anche in età adulta. È il fenomeno generale noto come “neotenia” nel quale, accanto all’aspetto legato agli elementi connessi alla “fetalizzazione” vi è anche quello della “pedomorfosi” che comprende, ad esempio, anche il dato, assolutamente caratteristico della nostra specie, della prolungata educabilità per diversi anni da quando Homo Sapiens viene alla luce. Significativo anche il fatto che il biologo Adolf Portmann inquadri la “difettività” umana (in coerenza con le summenzionate elaborazioni filosofiche) anche alla luce del primo anno di vita del bambino, che rappresenterebbe una vera e propria “gravidanza extrauterina”: solo al termine di questo periodo l’uomo acquisisce la statura eretta ed un rudimento di linguaggio che sono elementi vitali per la sua sopravvivenza e che invece altre specie di mammiferi, in proporzione alle loro caratteristiche, presentano fin da subito, appena nati.

Sono tutti elementi che dunque sembrano puntare in una ben precisa direzione: l’uomo non pare essere derivato da forme ancestrali animalesche, bensì sono semmai queste che rappresentano delle linee laterali, derivate e senili di sviluppo. I caratteri primordiali, invece di essere di tipo “bestiale”, sono quelli fetali, quelli della incontaminata giovinezzaÈ piuttosto l’animale ad essere il prodotto di una “involuzione” a partire dall’uomo – quasi una sua “malattia” – come ipotizzava anche lo stesso Platone che, ad esempio, vedeva nelle scimmie gli umani di un remoto passato, decaduti per aver perso la “scintilla sacra” (*). Probabilmente nella stessa direzione si può leggere lo stesso Julius Evola quando ricorda le potenzialità animali che il principio umano primordiale avrebbe recato in sé stesso e che, significativamente prima dello stabilirsi della razza dei mortali, il pensatore romano inquadra nei termini di una vera e propria lotta avvenuta tra un impulso divino ed un altro di direzione teratomorfa, animalesca: direzione che tuttavia la corrente più centrale avrebbe “lasciato dietro” nel momento in cui veniva a manifestarsi nelle forme più consone a fornirgli pure una veste biologica.

(*) A tal riguardo, è curioso notare come anche la tradizione mesoamericana, sia quella maya che quella azteca, ricordi come, in seguito a uno dei cataclismi che ha messo fine a un’èra precedente a quella attuale, i membri dell’umanità di quel tempo furono letteralmente trasformati in scimmie. Nella tradizione nahuatl (tolteco-azteca) questa tradizione rimanda all’era del Secondo “Sole”, governata da Quetzalcoatl. Al termine di questo ciclo, quando gli uomini sulla Terra smisero di dimostrarsi grati con gli dèi, furono trasformati in scimmie da Tezcatlipoca, dio del giudizio e della magia, nonché Sovrano del Primo “Sole”. Ma Quetzalcoatl, che amava gli uomini nonostante le loro mancanze, si addolorò per la loro sorte, e soffiò via tutte le scimmie dalla terra con un terribile uragano, ponendo così fine al Secondo “Sole” e dando inizio al Terzo. A questa “tabula rasa” del mondo seguì l’episodio mitico della discesa di Quetzalcoatl al Mondo Infero, per rubare le ossa del genere umano defunto e farlo rinascere rinnovato immergendolo nel proprio sangue [cfr. M. Maculotti, Una lettura cosmogonica del pantheon della tradizione mexica, in un’ottica di sincretismo religioso]. Il lettore avrà modo di giudicare da solo la corrispondenza fra questo mitologema e quello del “rinnovamento” del genere umano di ciclo in ciclo, di Manvantara in Manvantara.

Anche se non precisamente nei termini di un conflitto di carattere interno ma da una prospettiva diversa, cioè come l’infelice esito di una ribellione da parte di un’entità subordinata verso un Principio superiore, si possono ricordare concezioni che, nel risultato finale, paiono analoghe: ad esempio quelle che, secondo il Talmud o il Corano, vedrebbero la nascita delle forme scimmiesche ed imperfette come una conseguenza del rifiuto di Lucifero di prosternarsi davanti ad Adamo, oppure i vari accenni presenti nei miti dei nativi americani che ricordano gli esseri deformi nati come frutto dei tentativi di imitazione della figura umana, generata idealmente da uno Spirito Creatore, da parte di un maldestro trickster, il Coyote; se non il ricordo che quelli che sono oggi animali un tempo erano del tutto simili agli esseri umani e solo successivamente hanno acquisito quelle caratteristiche che distinguono le diverse specie. 

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Dunque dai miti antichi, passando per Platone e via via attraverso pensatori successivi, come ad esempio Joseph de Maistre, Wilhelm Schmidt (la cui “scuola di Vienna” formulò l’idea nettamente antievoluzionista di una Urkultur umana ormai scomparsa che avrebbe avuto anche una religione unitaria, l’Urmonotheismus) fino ai “perennialisti” dei nostri tempi, si configura e si consolida sempre più un’idea che pare opposta a quella classica di “evoluzione” dal basso verso l’alto, ma è piuttosto legata ad un concetto generale di “caduta” e di “involuzione”. Ma tale idea può essere ulteriormente sviluppata tenendo conto di altri due aspetti più specifici: uno più incentrato sull’analisi dei legami sussistenti tra le varie forme biologiche, ed un altro più intrecciato con lo sviluppo cronologico della storia planetaria.

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I rapporti tra le forme viventi

Il primo aspetto richiama necessariamente una questione, ben messa in evidenza da Roberto Fondi, paleontologo dell’Università di Siena, che rileva un punto di particolare importanza: tale rapporto di derivazione delle diverse forme animali a partire dall’uomo, non può essere inteso in termini direttamente biologici, ma solamente in chiave tipologica e superstorica. È un’osservazione in buona parte condivisibile, anche se lascia spazio a qualche ulteriore integrazione che proveremo a sviluppare. Sappiamo infatti che gli autori tradizionalisti mettono in luce le debolezze paleontologiche del macro-trasformismo darwiniano evidenziando l’assenza di un’ininterrotta catena graduata di forme che ora, pur davanti a circa 250.000 specie fossili, presenta una documentazione che non sostiene l’idea di una continua transizione evolutiva dei viventi; bisogna però anche osservare che non pare logico proporre una linea di direzione inversa che rimarrebbe sempre, problematicamente, a corto di “anelli mancanti”. Quindi, in termini generali, il trasformismo di larghissima scala, cioè la cosiddetta “macroevoluzione” postulata nel quadro darwiniano, va sottoposta a severa critica a prescindere dalla direzione di marcia prescelta, dall’uomo verso l’animalità o viceversa.

E ciò anche se, è bene sottolinearlo, all’interno della specie non vi è nessun problema nell’ammettere la cosiddetta “microevoluzione”, che però quasi unanimemente i biologi rimarcano essere un fenomeno di scala completamente diversa e mai potrebbe spiegare la generazione di nuove; per intenderci la “microevoluzione” corrisponde alla possibilità di stabilizzare variazioni che corrispondono alle cosiddette “razze” (tecniche note da tempo ed utilizzate, ad esempio, anche negli allevamenti), ovvero “sotto-specie” la cui diversità genetica tuttavia non arriva a compromette la possibilità di reciproco incrocio tra queste, con la generazione di ibridi fertili. La domanda che semmai può sorgere è su quali leggi regolamentino gli ordini di grandezza intermedi tra la scala più grande e quella più piccola, come anche se quelli della specie siano da considerarsi confini davvero invalicabili, o invece soggetti ad una certa elasticità. Quesiti che possono legittimamente sorgere quando, ad esempio, apprendiamo dalle più recenti analisi paleogenetiche come una piccola ma significativa parte dell’attuale DNA Sapiens sembri derivare da ceppi diversi (il Neanderthal o il Denisova) avvalorando quindi l’idea di una certa interfecondità che avrebbe necessariamente dovuto sussistere tra forme diverse per poter condurre quelle remote tracce molecolari fino a noi. Forse allora bisogna ammettere che non sono ancora del tutto chiari i confini precisi oltre i quali la “microevoluzione” non possa spingersi e quanto peso abbia effettivamente il concetto di “stabilità” della specie biologica.

Ne consegue che pare opportuno tenere un punto di equilibrio tra due istanze opposte. Se da un lato va criticata la totale ed incessante “fluidità” di forme viventi pensata da Darwin (che non vedeva mai tipi individuali, per lui solo entità convenzionali), dagli ultimi dati paleogenetici vediamo d’altro canto che sempre meno sembra sostenibile il concetto di un rigido “fissismo” delle specie, assunto proveniente soprattutto da un approccio letteralista del testo biblico. Semmai, può apparire più convincente l’idea di una certa plasticità del vivente, non assoluta ma relativa, che si sarebbe espressa attraverso un ventaglio di possibili “variazioni sul tema” attorno ad un certo numero di “tipi” principali, diramatisi già in un ambito “sottile” ed ancora lontani dal piano biologico ma che su questo, quasi come su uno schermo cinematografico, avrebbero proiettato le aree entro le quali dispiegare tutti i possibili abbozzi di ciascuno di essi: ma comunque senza mai spingersi oltre ai confini di quella che tassonomicamente viene definita “famiglia” e che per noi corrisponde agli “Ominidi”. Sembra inoltre plausibile pensare che all’interno di ciascuno di questi “campi di variazione”, vi possa essere una forma più centrale e direttamente collegata quello che potrebbe essere un archetipo immateriale di riferimento, ed altre più periferiche e laterali, magari collegate a questo archetipo proprio per il tramite della forma centrale: quindi arrivando a presupporre, in questi casi, un effettivo rapporto di derivazione filogenetica tra forme laterali e centrali.

Per quanto riguarda l’uomo, in quest’ottica il Sapiens non sarebbe quindi, come nella visuale evoluzionista, il culmine ascendente di una catena temporale ininterrotta di forme sempre più lontane dall’animalità, ma rappresenterebbe piuttosto questo punto centrale di sintesi: sintesi tra l’impulso antropogenetico proveniente da un livello esistenziale sovrastante e che in esso troverebbe, nell’incontro perfettamente perpendicolare tra l’asse verticale di caduta ed il piano cosmico orizzontale, la migliore fisicizzazione possibile nel mondo della vita. Se dunque è la forma Sapiens a costituire il punto centrale e di tramite, nell’ambito della famiglia zoologica degli Ominidi, tra il livello sovra-biologico e le altre specie più periferiche, possiamo quindi giungere ad immaginare la provenienza delle attuali scimmie, ed anche degli ominidi estinti, a partire da una forma molto simile, se non quasi identica, alla nostra. In effetti potrebbe essere questa la chiave per comprendere, ad esempio, il dato del minor numero di mutazioni del DNA mitocondriale umano stimate da A.R. Templeton (solo 13, contro 34 dello scimpanzé) rispetto a quello di un ipotetico progenitore comune, da cui si evincerebbe che l’uomo attuale si sarebbe allontanato molto meno del cugino scimmiesco dal punto di partenza iniziale. Ciò andrebbe nella stessa direzione di quanto osservato da Louis Bolk, secondo il quale lo sviluppo dell’uomo appare come “conservativo” mentre quello della scimmia come “propulsivo”.

Un dato coerente anche con le deduzioni di Morris Goodman, che confermò una velocità evolutiva molto minore nella linea umana rispetto a quella dello scimpanzé, desumendo quindi che l’antenato comune doveva essere molto più simile all’uomo che alla scimmia. Bisogna infatti ricordare che non sono stati rinvenuti fossili particolarmente antichi di scimpanzé, gorilla od orango, a riprova di una loro scarsa antichità rispetto a forme che invece denoterebbero una datazione molto più profonda della stazione eretta; mentre invece sembrerebbero non trascurabili, anche se la paleoantropologia ufficiale non ne parla volentieri perché non spiegabili nel suo orizzonte evoluzionista, gli elementi a sostegno di una forte antichità della forma Sapiens, che sorprendentemente arriverebbe ad una  profondità temporale anche dell’ordine di qualche milione di anni. Per citare solo alcuni di questi ritrovamenti: nell’isola di Giava a Trinil, in California a Calaveras, in Argentina a Buenos Aires, Monte Hermoso e Miramar, in Kenia nei pressi del lago Turkana (cranio “KNM-ER 1470”), in Tanzania con le famose impronte di Laetoli, in Spagna a Burgos, in Inghilterra a Ipswich e Foxhall, in Francia ad Abbeville e Clichy, in Svizzera a Delemont, ed infine anche in Italia a Castenedolo e Savona.

Ma, uscendo dal perimetro degli Ominidi, ecco che i rapporti tra le varie specie – quelli di scala più ampia – potrebbero invece essere del tipo ricordato da Fondi, ovvero di carattere effettivamente tipologico e superstorico. Sarebbe questo l’ambito che vedrebbe gli anzidetti archetipi “squadernarsi” l’uno dall’altro, probabilmente procedendo anche secondo un processo gerarchico che via via “lascerebbe indietro”, come diceva Evola, alcune possibilità animali, per tenere in una direzione centrale quella specificatamente umana. Le possibilità animali sarebbero tuttavia sempre “informate” da una loro particolare immagine che darebbe fondamento ontologico al concetto di “specie”, il quale, come ci ricorda René Guénon, è appunto analogo alla “forma” degli Scolastici ed a quello delle idee platoniche: cioè principi essenziali e “qualitativi” degli enti manifestati.

Per il filosofo Edgard Dacqué, in effetti, le specie animali discenderebbero involutivamente da un’umanità che non è tout court identificabile a quella attuale, ma che corrisponde ad un ceppo primordiale e non corporeizzato – lo definisce Urmensch – dal quale l’uomo materializzato, pur distinguendosene, tuttavia ne costituisce l’erede “perpendicolare” e più diretto, come nell’immagine descritta sopra. Ecco quindi l’uomo odierno, con le sue facoltà biologiche e razionali, che rappresenterebbe la “precipitazione” più approssimata e vicina di quest’Uomo originario, il quale non a caso anche Platone ebbe a sottolineare come dotato di una natura profondamente diversa da quella attuale. Il concetto di “specie”, quindi accostato a quello delle “idee platoniche”, al primo termine del binomio indù “nama-rupa” (nome-aspetto), all’eidos greco inteso come forma esemplare che avrebbe svolto una funzione archetipica e la quale, lo menzioniamo solo di sfuggita, in molte delle elaborazioni teologiche di ambito cristiano si collega al tema dell’immagine di Dio: dagli alessandrini (Clemente Alessadrino, Origene, S. Atanasio, ecc…) a Gregorio di Nissa, a Giovanni Scoto Eriugena, tale elemento non si riferisce tanto alla parte biologica dell’uomo, ma a quella spirituale, al Nous. A ciò che per René Guénon è in fondo l’Uomo Universale omnicomprensivo di tutte le sue potenzialità (infatti ancora precedente alla scissione Adamo-Eva del mito biblico) in rapporto al quale noi, Homo Sapiens, non saremmo che dei decaduti: anzi addirittura una sorta di “immagine seconda” di livello ancora più basso rispetto al Principio primo, assolutamente trascendente rispetto alla Manifestazione cosmica, che attraverso l’imago Dei plasmò tale Uomo primordiale. Ma dal cui impulso più centrale, come detto, l’umanità attuale nacque quale sorta di “precipitato” chimico, lungo una linea di caduta perfettamente verticale da un più alto piano di esistenza. 

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Il fattore tempo

Il secondo aspetto al quale, in relazione al concetto di “involuzione”, si era accennato in precedenza, è come detto più connesso allo sviluppo cronologico della storia planetaria, secondo una dinamica sua propria che però può senz’altro essersi intrecciata con le linee “tipologiche” di più ampio respiro descritte nel paragrafo precedente. È, questa, la prospettiva secondo la quale è soprattutto l’origine delle forme ominidi più o meno “laterali” rispetto alla linea Sapiens che potrebbe essere ricondotta non tanto ad una ragione superstorica, come segnalato da Fondi, quanto soprattutto in funzione di un elemento temporale, per il fatto di derivare da cicli precedenti al nostro. Sono cicli che avrebbero riguardato umanità pregresse – di cui i summenzionati ritrovamenti Sapiens di datazione antichissima – e che corrisponderebbero a quelli che Tradizione indù definisce “Manvantara” (un concetto che, come vedremo più avanti, viene utilizzato da René Guénon ma non da Julius Evola). Il Manvantara è cioè il ciclo completo di vita di un’umanità, che nell’interpretazione guénoniana ha una durata di circa 65.000 anni e che a sua volta è suddiviso in sezioni di ordine inferiore, nel mondo orientale definiti “Yuga” (in totale 4: Satya, Treta, Dvapara e Kali Yuga), e nella Tradizione ellenica di impostazione esiodea, invece, “Età” (e qui in totale sono 5, da cui la non perfetta sovrapponibilità di queste con gli Yuga indù: Età dell’Oro, dell’Argento, del Bronzo, degli Eroi e del Ferro).

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Ad ogni modo, la separazione tra Manvantara ad opera di cesure temporali piuttosto nette, i “Pralaya”, porterebbe ad un andamento assolutamente discontinuo della Preistoria umana, che, oltretutto, nelle ricadute biologiche potrebbe andare nella stessa direzione di quanto ipotizzato dallo stesso Fondi, che postula infatti un processo involutivo non graduale ma sviluppatosi “per salti”. Un andamento immaginato anche da Giuseppe Sermonti che prende ad esempio la rapida metamorfosi, ad esempio, della farfalla dal bruco o della rana dal girino. L’inesorabile conclusione di un ciclo potrebbe cioè aver comportato uno scivolamento della relativa umanità verso livelli inferiori: eventi traumatici quali mutilazioni psichiche poi ribaltatesi sul piano fisico, prevaricazioni finite tragicamente, pratiche antropofaghe e quant’altro, vengono ad esempio ricordate in vari miti tibetani, nordamericani e siberiani come punto di origine di ceppi subumani, Sasquatch e pitecantropi. Terminato quindi il loro ciclo di competenza, tali popolazioni già Sapiens avrebbero perso la “centralità” biologica cadendo traumaticamente, non gradualmente, in forme più o meno dominate dall’animalità. Una dinamica che avrebbe prodotto, magari anche ripetendosi – e quindi aggravandosi – nel succedersi dei vari Manvantara, quelle specie geneticamente più lontane dalla nostra, ma che tuttavia sarebbero ancora contraddistinte da una relativa parentela zoologica individuabile nella comune appartenenza alla famiglia degli Ominidi. In altre parole, qui alla base ci sarebbe lo stesso “archetipo” (e non la divaricazione ancora più radicale, quella tipologica di Fondi, connessa cioè al fatto di avere “archetipi” diversi di riferimento): ma le modalità di “biologizzazione” di questo, sarebbero state progressivamente compromesse e condizionate dal fattore temporale, come in un numero sempre più elevato di “rifrazioni deformanti” intervenute.

Inoltre, non sarebbe da escludere nemmeno un’ulteriore possibilità regressiva, questa invece tutta interna allo stesso Manvantara, a partire cioè direttamente dall’umanità biologicamente Sapiens vigente al momento, quale pericolo involutivo sempre pronto a riemergere sotto particolari condizioni: potrebbe trovarsi qui la spiegazione della nascita di ceppi fenotipicamente piuttosto diversi dal Sapiens, ma non troppo dissimili da esso rispetto alle linee residuanti dai Manvantara precedenti. È un’ipotesi teorica nella quale far rientrare, ad esempio, le ipotesi “degenerative” dei biblici Cainiti (progenie di Adamo, quindi appartenenti alla presente umanità) come delineate da Attilio Mordini nel suo interessante “Il mistero dello Yeti”. Dal punto di vista genetico, però, queste linee aberranti si sarebbero collocate in una posizione non così distante dallo stock Sapiens di partenza da compromettere una certa interfecondità reciproca, proprio per il fatto che tale dinamica si sarebbe verificata tutta all’interno dello stesso ciclo umano. Potrebbe essere questa la spiegazione, ad esempio, dell’origine dei tipi neanderthaliani (Piveteau, ad esempio, li riconduce a dei Sapiens involuti) e denisoviani, dei quali la summenzionata letteratura ha ormai accertato la presenza di significative introgressioni molecolari all’interno del nostro genoma: in definitiva una sorta di “retroazione” nei confronti della stirpe dalla quale si sarebbero anticamente, e forse ripetutamente, allontanati.

Non è poi agevole immaginare cosa in generale possa passare da un Manvantara a quello successivo: secondo René Guénon molto poco se non praticamente nulla, dal momento che ipotizza addirittura la “volatilizzazione” e l’abbandono di questo piano manifestato di ogni residuo materiale ad esso attinente. Nella sua particolare interpretazione, il metafisico francese ricorda gli “antichi re di Edom” come traccia delle umanità dei precedenti cicli, trascorsi i quali sarebbero finite in una modalità, però solamente extracorporea, del Manvantara presente. Per Guénon, quindi, ogni singola umanità nel suo tempo partirebbe da una sorta di “tabula rasa”, con la sua propria Età dell’Oro, dell’Argento e via seguendo le altre, e non esisterebbero popolazioni “residuali” (come invece, per inciso, potrebbe sembrare nella lettura evoliana, ad esempio, dell’origine dei “selvaggi” australi) in grado di superare i limiti fisico-temporali del proprio Manvantara per accedere a quello successivo; almeno non sul piano della manifestazione materiale. O, in alternativa, forse anche sì – interpretando in tal senso il summenzionato passo platonico sulle scimmie – ma solo al durissimo prezzo di una animalizzazione senza ritorno (**).

(**) Nondimeno, tale concezione è molto più antica del Guénon e della corrente “tradizionalista” o “perennialista” del XX secolo: già Esiodo ne “Le Opere e i Giorni” menzionava come, in seguito alla fine ciclica delle varie ère, le rispettive umanità dei precedenti cicli si tramutassero in “démoni”, vale a dire entità de-corporeizzate, dimoranti in piani di manifestazione sottili, differenti dal nostro, e tuttavia mantenessero in un certo senso la possibilità di influire sulla vita dell’umanità corporea del ciclo successivo. Per esempio, degli uomini dell’età aurea viene detto che «…dopo che la terra coprì questa stirpe, essi diventarono démoni… benigni sulla terra; custodi degli uomini mortali…». E, sulla “stirpe argentea”: «E poi, quando anche questa stirpe la terra ebbe coperto, costoro vennero chiamati presso i mortali “inferi beati”, geni inferiori…».

Ma quella guénoniana è una posizione che pare problematica, se accolta nei termini più larghi, proprio alla luce della presenza dei reperti riferibili, per la loro elevatissima datazione, ad umanità precedenti la nostra e che tuttora sono ben presenti nei livelli stratigrafici del pianeta. È tuttavia molto chiara la cesura temporale dei Pralaya tra i vari Manvantara, che significativamente potrebbero trovare un’interessante conferma scientifica nel fortissimo “collo di bottiglia genetico” che pare l’attuale umanità abbia attraversato tra 60 e 70.000 anni fa, forse in concomitanza con un coevo disastro climatico, quella “Catastrofe di Toba” sulla quale sta ragionando anche l’attuale ricerca preistorica. Non sembra però secondario, d’altro canto, il tema tradizionale di un certo “filo conduttore” a legare assieme i vari Manvantara, che ad esempio nella stessa Tradizione indù viene ricordato nella figura del Cinghiale Bianco, simbolo centrale non solo del presente ciclo umano, ma dell’intero Kalpa o “giorno di Brahma” (composto da 14 Manvantara, dei quali noi attualmente stiamo vivendo le fasi finali del settimo): in definitiva lo sviluppo generale di un Mondo e che, nel nostro caso, è chiamato Shweta-varaha-Kalpa, ovvero “ciclo del Cinghiale Bianco”.

Se dunque, forse anche in termini antropologici, può sussistere un “filo conduttore” tra i vari Manvantara, all’inizio del nostro, questo dev’essere stato esilissimo e non è certo agevole capire se ciò può aver implicato il passaggio fisico, dal ciclo precedente, se non di un’umanità nel suo complesso, almeno di una ridottissima schiera di Homo Sapiens rimasti ancora spiritualmente “centrali”. O se invece con il Pralaya tale “distillato” umano possa aver subìto (come in effetti ritiene Guénon, che però allarga il tema della volatilizzazione a tutte le risultanze pregresse, anche quelle poi effettivamente riscontrate nei nostri livelli sedimentari) una sorta di sublimazione, divenendo il substrato germinale del ciclo futuro: substrato sul quale avrebbe poi agito un nuovo intervento “archetipico” e “restauratore” dall’alto. Forse, appunto, può essere plausibile una soluzione intermedia: sempre nella Tradizione indù sono infatti menzionati i pochissimi “salvati” del ciclo precedente da quella figura – Satyavrata – che diventerà anche il futuro Legislatore Universale del nuovo Manvantara, il Manu Vaivaswata. Il “materiale di base” (forse anche genetico?) che verrà in qualche modo trasfigurato dalla nuova rettificazione trascendente di inizio ciclo e rappresenterà il punto, ma anche la nuova “sintesi”, dal quale partirà l’umanità successiva. Una nuova “forma”, rinnovellata ma antica – e perenne – al tempo stesso.

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Verso un nuovo ciclo

Julius Evola, al contrario di René Guénon, non risulta abbia mai utilizzato il concetto di Manvantara quale “cornice” generale di un completo e conchiuso ciclo umano. Tuttavia, pur essendo egli più vicino ad una prospettiva delle origini umane che si potrebbe definire “polifiletica” (in questo, forse, ricalcando le linee del ricercatore tedesco-olandese Herman Wirth) è interessante notare come almeno in un paio di passaggi abbia significativamente riconosciuto in quella primordiale razza unitaria Hamsa, menzionata nel mito indù, la condizione di “anteriore ad ogni successiva differenziazione umana”. Inoltre, in un altro passaggio segnala – in termini analoghi – che, pur nella latente dualità, vi è una chiara unità di fondo del principio generatore che nutrì i due gemelli Romolo e Remo, così opposti (il primo votato alle divinità maschili, celesti e solari, il secondo a quelle femminili, ctonie e lunari), ma pur sempre nati dalla medesima Lupa e da Evola ricordati come chiave interpretativa delle stesse “origini umane”. Il pensatore romano, quindi, non chiuse la porta alla possibilità di un momento autenticamente unitario agli albori del ciclo umano. 

Notoriamente molto più di Evola, René Guénon ebbe modo di insistere su questo punto: ad esempio sottolineò l’inesistenza di qualsivoglia irriducibilità assoluta già sul piano cosmologico, negando una dicotomia secca tra la prima di tutte le dualità, cioè quella che polarizza l’Essere Universale in “Essenza” e “Sostanza”. Essenza e Sostanza da intendersi come concetti analoghi a Cielo e Terra, la cui separazione, sul piano ora antropologico, corrisponde chiaramente al polarizzarsi di quell’entità unitaria e primordiale che fu l’Androgino platonico (sul quale avremo modo di tornare) nei due soggetti separati – maschio e femmina – nella tradizione biblica identificati in Adamo ed Eva. Ciò costituisce il primo passo verso la diversificazione umana, che implica il manifestarsi delle varie modalità di esistenza le quali, partendo da una radice unica, troverà la sua estrinsecazione attraverso la nascita delle varie razze della nostra specie.

Ma, come già ricordavamo, il metafisico francese rafforza questa impostazione, tendenzialmente più “monofiletica” di quella evoliana, anche attraverso il concetto di Manvantara. Ed, in rapporto a questo, sembra particolarmente significativo un altro elemento: la quasi totale assenza di reperti riconducibili a Homo Sapiens nel lasso di tempo posto tra 65.000 e 52.000 anni fa, ovvero nella sua primissima fase. È un dato che verrà meglio evidenziato in un futuro articolo, “Discontinuità nella nostra Preistoria”. Tale intervallo dovrebbe in effetti corrispondere al momento veramente primordiale della presente umanità e forse non è casuale che l’assenza di siti archeologici copra un periodo di circa 13.000 anni, ovvero quello che, come dicevamo sopra, è stato definito “Grande Anno”, pari a 1/5 esatto della durata totale del Manvantara. Il Grande Anno corrisponde alla metà del ciclo precessionale terrestre e, come Guénon ricorda, nelle varie mitologie tradizionali assume spesso un’importanza particolarmente significativa. 

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L’assenza, totale o quasi, di reperti databili tra 52.000 e 65.000 anni fa, oltre a sovrapporsi perfettamente al Primo Grande Anno del nostro ciclo, corrisponde anche alla prima metà esatta del Satya Yuga: non è improbabile che tale dato potrebbe trovare una spiegazione proprio con l’esistenza di quella Urmensch – la forma primordiale umana, sulla quale in futuro torneremo ancora – praticamente impossibile da rinvenire sotto forma fossile in quanto non ancora fisicizzata secondo i canoni odierni. Evento che si sarebbe verificato solo più tardi, anche se – va sottolineato – ben addentro alla stessa età edenico-paradisiaca. È ovvio che quest’ultimo assunto presupponga un’idea più articolata e dinamica dell’Età Primordiale (il Satya Yuga, appunto) rispetto a quanto, nella letteratura di riferimento, sembra darsi quasi sempre per scontato, e cioè l’aver rappresentato, questa, un momento statico, una parentesi senza storia. 

Qualche breve e preliminare nota di ordine più generale a questo punto ci sembra utile per fornire una cornice introduttiva ed accompagnare le considerazioni che, più in là, si cercherà di svolgere in merito alla genesi umana. In effetti, come ci ricorda sempre Guénon e come derivante da alcune interpretazioni dei Purana indù, il Satya Yuga si sarebbe protratto per circa 26.000 anni, una durata molto lunga per la quale, a ben vedere, sembra difficilmente sostenibile una totale assenza di discontinuità interna; d’altronde, non è un caso se il metafisico francese in varie occasioni ebbe modo di sottolineare come, in ciascuna delle varie età del Manvantara, vi sia la possibilità di operare ulteriori significative suddivisioni interne, a partire da quella, basilare, nelle due relative metà. Il Satya Yuga, quindi, non sfugge a questa regola ed anzi è rimarchevole il fatto che risulti composto esattamente da due “Grandi Anni” di quasi 13.000 anni ciascuno.

Oltretutto, è stato rilevato come il transito da un Grande Anno a quello successivo sia sempre contraddistinto da un violento cataclisma che quindi, per l’età edenica, deve per forza aver avuto luogo in corrispondenza della sua metà, attorno a 52.000 anni fa (***). Anche da considerazioni legate al “ciclo avatarico” di Vishnu (ciclo che suddivide il Manvantara totale in dieci parti uguali di 6.500 anni, ciascuna collegata ad una particolare “discesa” sulla terra del Principio per il ristabilimento della legge divina) lo stesso evento traumatico viene ricordato nel preciso momento del passaggio dal secondo Avatara (Kurma), al terzo (Varahi), quando dovettero verificarsi importanti modificazioni della geografia boreale, uno spostamento di Centro dal polo artico verso una zona più nord-orientale (la terra di Beringia?) e, come ipotizza anche Gaston Georgel, una primissima ondata migratoria verso aree meno settentrionali del pianeta.   

(***) È interessante rilevare che anche nella tradizione andina le varie ère cosmiche che si susseguono, denominate “Soli”, sono suddivise a loro volta in due parti uguali da una grande cesura che avviene verso la metà di ogni “Sole”: sia le cesure mediane dei vari “Soli” che le cesure tra un “Sole” e il successivo vengono dette tradizionalmente Pachakuti [cfr. M. Maculotti, Pachacuti: cicli di creazione e distruzione del mondo nella tradizione andina].

Ciò che ne seguì, originò quella che Guénon ritiene la sede del centro spirituale primordiale di questo Manvantara, la citata Varahi o “Terra del Cinghiale”, dalle marcate caratteristiche solari: il fatto però che risulti collegata non al primo ma al terzo Avatara di Vishnu, ci fa supporre sia più corretto collocare Varahi non nella fase aurorale ed indistinta, veramente iniziale, del nostro ciclo umano, ma invece nel Secondo Grande Anno, ovvero tra 52.000 e 39.000 anni fa. Ma la rilevanza particolare di Varahi è forse riconducibile al fatto che essa fu la prima terra abitata dalla nostra stessa forma umana, mentre sedi precedenti, letteralmente polari, dovettero essere connesse a quella fase più schiettamente primordiale – la Urmensch di Dacqué, l’Androgino platonico, la supercasta Hamsa – che a rigore fu sovrumana.   

Ma sono tutte considerazioni che verranno approfondite nei prossimi scritti. 


Bibliografia consultata:

  • AA.VV. (a cura di Maria Teresa Pansera) – Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen – Mimesis – 2005
  • Giuseppe Acerbi – Introduzione al Ciclo Avatarico, parte 1 – in: Heliodromos, n. 16 – Primavera 2000
  • Giuseppe Acerbi – Introduzione al Ciclo Avatarico, parte 2 – in: Heliodromos, n. 17 – Primavera 2002
  • Basilio M. Arthadeva – Scienza e verità – Edizioni Logos – 1987
  • Arvo – L’origine delle specie secondo l’esoterismo – Introduzione alla Magia – Vol. 3 – Edizioni Mediterranee – 1987
  • Francis Bertin – Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena – in: “Androgino” (aa.vv. – a cura di Antoine Faivre e Frederick Tristan) – ECIG – 1986
  • Ugo Bianchi – Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico – Edizioni dell’Ateneo – 1983
  • John Blanchard – Evoluzione, mito o realtà ? – Passaggio – 2004
  • Maurizio Blondet – L’Uccellosauro ed altri animali (la catastrofe del darwinismo) – Effedieffe – 2002
  • Louis Bolk – Il problema dell’ominazione – DeriveApprodi – 2006
  • Alessandro Bongioanni / Enrico Comba – Bestie o Dei? L’animale nel simbolismo religioso – Ananke – 1996        
  • Antonio Bonifacio – La caverna cosmica. La potenza dello shamanismo nell’arte rupestre paleolitica – Simmetria edizioni – 2005
  • Titus Burckhardt – Scienza moderna e saggezza tradizionale – Borla – 1968
  • Eduardo Ciampi (a cura) – Gli esegeti della tradizione. Da Guenon agli studiosi della Sophia Perennis – Ed. Terre Sommerse – 2008
  • Giuseppe Cognetti – L’arca perduta. Tradizione e critica del moderno in Renè Guenon – Angelo Pontecorboli Editore – 1996
  • Anna Maria Cossiga – Identità a confronto. Breve manuale di antropologia dell’attualità – Eurilink – 2013    
  • Michael Cremo – Le origini segrete della razza umana – OM Edizioni – 2008
  • Nuccio D’Anna – Parashu-Rama e Perseo – in: Arthos, n. 33-34 – 1989/1990
  • Nuccio D’Anna – René Guenon e le forme della Tradizione – Il Cerchio – 1989 
  • Alain de Benoist – Le idee a posto – Akropolis – 1983
  • Alain de Benoist – Uomini e animali. Il posto dell’uomo nella natura – Diana Edizioni – 2014
  • Piero Di Vona – Evola, Guénon, De Giorgio – SeaR Edizioni – 1993
  • Julius Evola – I saggi della Nuova Antologia – Ar – 1982
  • Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988
  • Julius Evola – Sulla tradizione nordico-aria (Razze – Simboli – Preistoria mediterranea) – in: Esplorazioni e Disamine, gli scritti di “Bibliografia Fascista” (volume primo: 1934-1939) – Edizioni all’insegna del Veltro – 1994 
  • Antoine Faivre – Esoterismo e Tradizione – ELLEDICI – 1999
  • Francesco Fedele – Neandertaliani fra noi? – in: Le Scienze, Quaderni n. 17 – Ottobre 1984 
  • Jean Flori / Henri Rasolofomasoandro – Creazione o evoluzione ? – Edizioni ADV – 2005
  • Roberto Fondi – Fratello Neandertal – in: Systema Naturae. Annali di Biologia Teorica. Vol. 2 – 1999
  • Roberto Fondi – La critica della scienza e il ripudio dell’evoluzionismo – in: “Testimonianze su Evola”, a cura di Gianfranco De Turris – Edizioni Mediterranee – 1985
  • Roberto Fondi – Organicismo ed evoluzionismo. Intervista sulla nuova rivoluzione scientifica – Il Corallo / Il Settimo Sigillo – 1984
  • Clifford Geertz – Interpretazione di culture – Il Mulino – 2010
  • Arnold Gehlen – L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo – Mimesis – 2010
  • Vito Genua – Antropogenesi e nozione di doppia creazione dell’uomo in Origene – in: Pan, vol. 23 – 2005
  • Gaston Georgel – Le quattro Età dell’umanità. Introduzione alla concezione ciclica della storia – Il Cerchio – 1982
  • René Guenon – Forme tradizionali e cicli cosmici – Edizioni Mediterranee – 1987 
  • René Guenon – Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi – Adelphi – 1995
  • René Guenon – Il simbolismo della Croce – Luni Editrice – 1999
  • René Guenon – L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta – Adelphi – 1997
  • René Guenon – Simboli della scienza sacra – Adelphi – 1990
  • Hoffman Reynolds Hays – Dalla scimmia all’angelo: due secoli di antropologia – Einaudi – 1974
  • Giovanni Iammarrone – L’uomo immagine di Dio. Riflessioni su una spiritualità dell’immagine – in: Teresianum, A. 46, fasc. 2 – 1995
  • Martin Lings – Antiche fedi e moderne superstizioni – Il leone verde – 2002
  • Silvano Lorenzoni – Il Selvaggio. Saggio sulla degenerazione umana – Edizioni Ghénos – 2005
  • Giorgio Manzi – Homo sapiens – Il Mulino – 2006
  • Giorgio Manzi – L’allegro passato di Denisova – in: Le Scienze – Marzo 2011
  • Vittorio Marcozzi – Alla ricerca dei nostri predecessori. Compendio di paleoantropologia – Edizioni Paoline – 1992 
  • Riccardo Martinelli – Uomo, natura, mondo. Il problema antropologico in natura – Il Mulino – 2004
  • Meister Eckhart – Commento alla Genesi (a cura di Marco Vannini) – Marietti – 1989
  • Raffaele Menarini / Gabriella Neroni – Neotenia, dalla psicoanalisi all’antropologia – Borla – 2009    
  • Giovanni Monastra – Le origini della vita – Il Cerchio – 2000
  • Attilio Mordini – Il mistero dello yeti – Società editrice il Falco – 1977
  • Seyyed Hossein Nasr – L’uomo e la natura. La crisi spirituale dell’uomo moderno – Rusconi – 1977
  • Michel Robert Negus – Uomo, creazione e reperto fossile – in: “AA.VV. – Quale evoluzionismo? – Terre Sommerse – 2012”
  • Franco Prattico – Eva nera – Codice Edizioni – 2007
  • Daniel Raffard de Brienne – Per finirla con l’evoluzionismo. Delucidazioni su un mito inconsistente – Il Minotauro – 2003
  • Marco Respinti – Processo a Darwin – Piemme – 2007
  • Frithjof Schuon – Dal divino all’umano – Edizioni Mediterranee – 1993
  • Giuseppe Sermonti – Dimenticare Darwin. Ombre sull’evoluzione – Rusconi – 1999
  • Giuseppe Sermonti – La Luna nel bosco. Saggio sull’origine della scimmia – Rusconi – 1985
  • Giuseppe Sermonti – Le forme della vita. Introduzione alla biologia – Armando editore – 1981
  • Rutilio Sermonti – Evoluzionismo: scienza o frode ? – Scripta manent diffusione libraria – 2005
  • Rutilio Sermonti – Rapporto sull’evoluzionismo – Il Cinabro – 1985
  • L.M.A. Viola – Religio Aeterna, vol. 2. Eternità, cicli cosmici, escatologia universale – Victrix – 2004
  • Kate Wong – L’alba della nostra mente – in: Le Scienze – Agosto 2005 
  • Harun Yahya – L’inganno dell’evoluzione – Edizioni Al Hikma – 1999
  • Ubaldo Zalino – Cosmologia e evoluzionismo – in: Rivista di Studi Tradizionali, n. 35, luglio-dicembre 1971

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