Il Sacro Bosco di Bomarzo: un percorso iniziatico

Visitare il “Parco dei Mostri” di Bomarzo, ideato da Pier Francesco Orsini in memoria della defunta moglie Giulia Farnese e realizzato da Pirro Ligorio, equivale a compiere un vero e proprio viaggio metafisico, stimolato dalle numerosissime suggestioni ermetico-alchemiche, negli abissi dell’interiorità umana.


articolo e foto di Roberto Eusebio
foto di copertina: statua del Nettuno a Bomarzo

 

 

Chi scende da Firenze verso Roma sulla E 35, facendo una deviazione per Orte (provincia di Viterbo) e avendo tempo da dedicare al mistero, potrà  visitare il Sacro Bosco di Bomarzo; e dobbiamo dire che le sensazioni che si possono provare sono all’altezza delle parole che il grande critico d’arte Bruno Zevi ha detto del complesso monumentale:

« A Bomarzo la finzione scenica è travolgente; l’osservatore non può contemplare perché vi è immerso, in un ingranaggio di sensazioni (…), capace di confondere le idee, di sopraffare emotivamente, di coinvolgere in un mondo onirico, assurdo, ludico ed edonistico. »

Immerso nel verde, Bomarzo si situa nel cuore della Tuscia tra le estreme pendici nord-orientali dei monti Cimini che sono l’origine dello sperone roccioso di peperino su cui è adagiato il paese di Bomarzo e l’ampia vallata del fiume Tevere. Il suo sacro bosco per cui è famoso è ornato da numerose statue in basalto progettate e realizzate intorno al XVI secolo. Fu creato tra il 1560 e il 1585. Vi dimorano mostri, dèi e animali mitologici. L’opera fu voluta dal principe Pier Francesco Orsini che la dedicò alla memoria della moglie, Giulia Farnese. Fu realizzata dall’architetto e antiquario Pirro Ligorio, lo stesso che diventerà famoso per la progettazione di villa d’Este a Tivoli.

Era quella l’epoca in cui sotto lo stimolo delle accademie e dei cenacoli rinascimentali ci si apprestava a trasformare le scienze e a destinare studi più raffinati all’approfondimento delle conoscenze di più alto livello, secondo l’intento di mettersi in viaggio verso e oltre le “colonne d’Ercole” della conoscenza ma anche e soprattutto della conoscenza di se stessi. D’altra parte Pier Francesco Orsini detto Vicino, dopo la carriera militare che lo vide impegnato sino al 1557 al seguito delle truppe papali, si ritirò nel palazzo di famiglia [1] e da quel momento si dedicò alla costruzione del bosco. Fu personaggio erudito, raffinato letterato, che amava circondarsi di umanisti, filosofi e alchimisti in stretto contatto con gli epigoni di un’accademia neoplatonica di ermetisti di cui fecero parte Cosimo de Medici, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino.

A quel tempo l’Ars Regia era coltivata nelle corti europee a seguito di quell’idea di cambiamento che maturò un nuovo modo di concepire il mondo e se stessi, sviluppando le idee dell’umanesimo, nate in ambito letterario nel XIV secolo. Gli eruditi del Rinascimento avevano avuto il merito di tradurre le migliori opere alchemiche che si stavano diffondendo grazie all’invenzione della stampa che erano lette e interpretate nelle accademie e nei cenacoli delle corti europee. Tra le famiglie nobili si faceva a gara a interpretare nella loro domus vivendi modi e aspirazioni intellettive tradotte in termini reali. Ecco allora apparire nelle dimore nobili a loro coronamento esteriore, i famosi giardini alchemici in cui i simbolismi dell’Arte Regia erano strutturati nelle forme e nei significati a maggior espressione di un metodo allegorico, la cui nuova percezione dell’uomo e del mondo che stava intorno sarebbe stata molto diversa da quella dei secoli precedenti.

Il Bosco Magico di Bomarzo anticamente conosciuto come Bosco delle Meraviglie o boschetto, come lo chiamava famigliarmente l’Orsini, è tutto questo e qualcosa di più. L’elemento misterico che lo contraddistingue sembra ammantarsi di fantasmi, le statue sembrano provenire dal mondo onirico, si vestono dell’irrealismo fantastico del mito, mentre in effetti  le loro radici, risalendo attraverso il periodo gotico sino a quello classico, s’intrecciano con apporti antichi, anche orientali, caricandosi di una diversa valenza simbolica attraverso la rilettura di antiche tradizioni. Lo stesso territorio bomarzese non manca di testimonianze di antichi insediamenti sparsi nei vicini boschi. In luoghi come la selva di Malano o colle Casale vi sono presenti monumenti di epoca etrusca-romana: nicchie, loculi, vasche scavate nella pietra e sarcofagi monolitici a forma di sagoma umana.

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Da queste testimonianze e in anticipo sui tempi il principe Orsini e l’architetto Pirro Ligorio gestiranno tali idee molto prima degli inglesi che tradurranno le idee del poeta Alexander Pope che ispirerà il poemetto “Tempio della fama” del 1711 e nel 1719 realizzerà il suo giardino di Twickenham, il luogo della meditazione. Il bosco delle meraviglie sarà qualcosa di diverso dai giardini coevi, fatti realizzare nei dintorni da altri signori, come Villa d’Este a Tivoli, Villa Lante a Bagnaia o il giardino di Palazzo Farnese a Caprarola nonché in territorio siciliano la “villa dei mostri” di villa Palagonia a Bagheria [2]. C’è chi dice che accanto all’Orsini vi era, nell’ideazione del giardino, Michelangelo Buonarroti; comunque sia la verità, Orsini e Ligorio anticiperanno una delle regole di Pope ovvero l’abile arrangiamento delle sorprese (sia ottiche che di narrazione) poiché di sorprese e di narrazione il Bosco di Bomarzo è ricco di scenari che via via si aprono al visitatore.

Il giardino è strutturato come un viaggio metafisico a ricordare all’uomo la sua compagine in parte fallace, avvolta nei veli di Maia e dalle false paure e passioni che logorano l’uomo. È luogo di un ritorno al principio e alla natura. Il giardino concepito in tal senso consentiva di recuperare, nell’idea del committente, una sorta d’innocenza paradisiaca perduta. In questo viaggio onirico è suggerita la possibilità, come in una favola, di riscoprire la capacità di meravigliarsi ancora di fronte ai processi dell’essere, cioè i cicli di morte e rinascita, all’alternarsi delle stagioni, al mistero della bellezza intesa come canone spirituale e di essere un tutt’uno con l’universo. Al creato legittimo considerato come “natura naturata”, si contrappone una natura architettata come simbolo dall’uomo e per l’uomo, una sorta di libro delle meraviglie, un percorso iniziatico al fine di esorcizzare, attraverso il dominio intellettuale, le paure e le passioni superandole.

Tutto l’impianto sembra nutrirsi del suggerimento letterario proveniente dalla Hypnerotomachia Poliphili, opera di Francesco Colonna che esce in stampa nel 1499. In effetti, il percorso orrifico e mostruoso al di là di una mera strumentalizzazione monumentale ha un intento apotropaico. Questi tipi d’impianto simbolici s’incontrano di sovente nei racconti mitologici, assumendo spesso la medesima funzione in cui vivono o rivivono i sogni o un ricordo lontano. Servono dunque, per tenere a debita distanza e a bada, le sulfuree pulsioni della nostra indole. L’Orsini, uomo della sua epoca in tutto e per tutto, conclusa la sua carriera militare e ritiratosi a Bomarzo, si dedicò a uno stile di vita epicurea dove, attraverso tale filosofia, si cercava di ottenere una sorta di stato di grazia che era quello di vivere modestamente, acquisire conoscenza del funzionamento del mondo e limitare i propri desideri. Filosofia che apriva la via d’accesso alla felicità, dove per felicità s’intende l’atarassia (liberazione dalle paure e dai turbamenti).

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La creazione del bosco fu realizzata in una parte del territorio della vecchia Etruria. L’Orsini volle creare un luogo nel tentativo di sedare, come dirà lui stesso, cupezza e sconforto. La morte dell’adorata moglie lo lascerà sconvolto e profondamente turbato tanto da creare un luogo incantato nel quale rifugiarsi ma anche dove fosse possibile non solo “sfogare il core”, ma introdurre al tempo stesso, i suoi ospiti in un regno di sogno, stimolando la loro intelligenza e facendoli trasportare all’interno di richiami mitologici e di enigmi, non sempre compresi, che emergono come quinte teatrali, dalle prospettive del bosco come tanti fantasmi [3]. Nel corso dei secoli fu fonte d’interesse e d’ispirazione di diversi artisti come Goethe, Claude Lorrain e Salvador Dalì, Mario Praz, Maurizio Calvesi, Jean Cocteau, Niki de Saint Phalle e Manuel Mujica Láinez.

Prima di addentrarci nel bosco di delizie dobbiamo fare qualche precisazione: in primis al suo originale accesso. Alcuni studiosi lo collocano verso il tempio, dove effettivamente vi è un ingresso con un arco, altri più sotto vicino alla piscina e alla casa inclinata. Oggi invece l’ingresso attuale è caratterizzato dall’arco merlato sormontato dallo stemma degli Orsini al fondo del parco. Inoltre l’attuale posizione delle varie statue, che risale alla seconda metà del XX secolo, non rispecchia che in minima parte la disposizione originale. Il nostro viaggio tra i sentieri del bosco lo faremo tenendo conto di una interpretazione simbolica che forse farà storcere il naso ad alcuni: non sarà comunque uno psicodramma con la messa in scena di sogni e fantasie, di miti e leggende, né l’assentimento a un codice morale con pochi facili espedienti, ma sarà un processo che faremo attraverso una indagine sui significati nascosti e di conseguenza sul modo di una trasformazione interiore che investe la parte più profonda dell’uomo attraverso e per mezzo, per lo meno inizialmente, dei suoi stessi sensi [4].

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La “casa pendente”.

A proposito di sensi, vicino all’ingresso antico si trova la “casa pendente”, dove gli amici dell’Orsini che entravano, provavano una forte e scioccante emozione, dove veniva, e tuttora viene, stravolta (questo pare fosse il proposito di chi l’aveva ideata) la percezione del mancante equilibrio naturale [5] attraverso le vertigini che si provano al suo ingresso per cercare un nuovo equilibrio oltre i propri sensi, oltre la propria natura. Il cartiglio presente su un lato della costruzione,

« Quiescendo Animus Fit Prudentior Ergo. »

risulta enigmatico per i profani, anche se alla luce della scienza alchemica diventa intellegibile poiché qui si tratta della “quiete” alchemica, che richiamandosi al suo etimo si rifà ad una nuova stabilità elementare ovvero all’unità indivisibile, al Principio. Il discorso e la speculazione si impegna su un fronte metafisico facendosi molto sottile e rarefatto, tanto che nel mondo filosofico antico si presenta come quel criterio che si arricchisce di una nota anche più importante e feconda, in quanto il reale viene concepito come quel quid che permane eternamente identico a sé stesso nelle proprie determinazioni, in relazione al significato della realizzazione del processo alchemico della propria vita.

Ritorniamo adesso, sui nostri passi percorrendo con ordine il percorso proposto supponendo che ci accompagni il principe Orsini. È quindi tempo di oltrepassare l’ingresso e proviamo a meditare sulle terzine che sono tracciate alla base delle due sfingi che ci accolgono:

« Chi con ciglia inarcate et labbra strette non va per questo loco manco ammira le famose del mondo moli sette. »

E sull’altra:

« Tu ch’ entri qua, pon mente parte a parte e dimmi poi se tante meraviglie sien  fatte per l’inganno o pur per l’arte. »

E allora se d’inganno si parla, nell’idea dell’Orsini e di Ligorio, l’uomo ordinario è preso da illusione tra le tante cose, se guarda solo con gli occhi ma non quelli della mente, e se di arte si tratta è dunque l’arte regia ovvero l’alchimia.  La ricerca di una verità altra o comunque la volontà di tendere ad essa che accompagnava, al tempo dell’Orsini, i visitatori invitandoli  in maniera simbolica a vedere oltre le diafanie del mondo.

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Proteo Glauco.

Ed ecco che tra la rigogliosa vegetazione appare, orrifica ai nostri occhi, la prima mitica creatura che il tracciato ci porta a trovare, è il Proteo Glauco, l’oracolo marino, divinità minore della mitologia greca la cui caratteristica era di avere il dono della profezia, ma anche la facoltà di prendere l’aspetto di qualsiasi animale o la forma di diversi elementi (fuoco, vento o acqua) per sottrarsi e chi lo interrogava. Nel contesto del “viaggio” Bomarzese, Proteo ha, secondo la nostra interpretazione, un significato molto più profondo di quello che la sua immagine mostruosa sembra dare che è dato dal significato delle diverse individualità con cui Proteo si presenta. Si dovrà allegoricamente rapportare all’uomo, dove questo, venendo meno la realtà della sua personalità, si atteggia a colui che non è. È solo forzando la sua stessa indole e divorando la propria individualità che sarà in grado di riprendere la sua natura decantandosi (ed è qui la metafora per l’uomo) dal falso dio o dal demone in cui s’incarna come personaggio nella falsa commedia della vita [6]. Il mostro, con la bocca spalancata, ci ricorda il Kalāmukha indù [7]: il distruttore delle spoglie individuali, con cui occultiamo la nostra indole e che temiamo perdere. La figura mitica ci riecheggia in maniera speculativa come il perseguire tale coscienza può rappresentare lo stato dell’essere giusto. Così secondo la filosofia epicurea l’uomo deve essere seguace di una sapienza che può procurare una vita felice attraverso la sincerità e la semplicità priva di malizia.

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Ercole e Caco.

Proseguendo e scendendo ora la scalinata sulla destra del mausoleo, questa ci porta verso le cosiddette statue dei giganti: Ercole e Caco che sono in effetti le statue più grandi del parco, alla loro sinistra lo stesso Orsini ci parla con la scritta:

« Se Rodi altier fu già del suo colosso pur di questo il mio
bosco anco si gloria ed è per più non poter fo quanto posso. »

Sembrerebbe questo un richiamo alla città dei colossi: Rodi, ma forse con l’Orsini dobbiamo abituarci a interpretare in altra maniera le sue statue e vedere in un’ottica diversa le storie che sembrano raccontare. Noi pensiamo che il riferimento non sia solo alla monumentalità della città di Rodi e del parallelo con le statue di Bomarzo, quanto in forma sottile e occulta riferentesi alla narrazione fantastica del destino di Ercole. Il mito ci rammenta come un essere umano, qual era Ercole, riesce a ridestare il dio interiore e a ritrovare, sacrificando volontariamente se stesso [8], il Luogo nell’Olimpo, dove sarà accolto da Giove suo padre, tra gli altri dèi. Una sorta di potenziale promessa anche per l’essere ordinario.

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La testuggine sormontata dalla figura colonnare femminile.

Pochi passi in mezzo alle piante ci dividono dalla gigantesca statua della testuggine la quale è sormontata dalla figura di una donna in forma di colonnaLa tartaruga, come per diversi altri animali, nell’immaginario dei miti è stata patrimonio di innumerevoli tradizioni, in particolare quelle orientali. A parte la leggenda greca della sua creazione con la trasformazione della ninfa Chelone, la tartaruga rappresenta la stabilità ed è animale sacro che racchiude simbolicamente cinque significati: protezione, saggezza, data la sua lentezza, longevità, immortalità e Madre primordiale, poiché da essa con la sua divisione furono creati i cieli e la terra, mentre sul suo guscio è espressa la legge del creato. Come potrebbe essere diverso? La caratteristica corazzatura, la sua particolarità di animale acquatico e nel contempo terricolo, la sua longevità e prolificità oltre misura, ne ha fatto un animale mitologico e un simbolo universale. Le stesse conformazioni del carapace e del piastrone, l’uno tondo e l’altro quadrato, sono stati assunti nelle tradizioni dell’oriente come simboli della struttura cosmica [9]: Il suo guscio tondo a cupola a rappresentazione del cielo e il piastrone quadrato della terra.  In questo modo la tartaruga diventa simbolo della manifestazione e in senso microcosmico per l’essere nelle sue possibilità umane. Mettendola in altri termini ognuno, nelle varie possibilità di manifestazione, si evolverà secondo una maggior o minor tendenza a distinguersi tra lo spirituale ed il materiale. In alcune rappresentazioni l’animale tra le piastre è raffigurato come un uomo a rappresentare l’essere mediatore del cielo e della terra. Per altro riferendoci a una spiegazione più politica, la testuggine riconduce a Firenze essendo uno degli ornamenti ricorrenti di Cosimo de Medici prossimo all’Orsini per il suo legame di sangue, seppure remoto, che lo stesso Cosimo aveva. Entrambi, infatti, discendevano, per parte materna, da Jacopo Orsini, Signore di Monterotondo.

È tuttavia probabile che convivano i due aspetti, anche se onestamente pensiamo che gli artefatti di Bomarzo siano un impianto prettamente simbolico, rappresentano un quantum del tutto particolare e personale dell’intellettualità dell’Orsini, senza aver avuto l’intenzione di una raffinata adulazione nei confronti del potere. Comunque sia, l’intellettuale Orsini, nonostante la vicinanza al papato, sarà attento ricercatore di un’altra verità ma anche al danno che lo stesso uomo fedele ai dogmi e alle verità indiscusse può fare a se stesso e al mondo circostante, ecco allora il monito inciso sul vaso:

« Notte e giorno noi siamo vigili e pronte a guardar d’ogni ingiuria questa fonte. »

A quale ingiuria dovremmo guardare notte e giorno? L’unica ingiuria da cui ci si deve difendere è quella dell’ignoranza fatta all’intelletto e a quella fonte dell’eterno sapere e di ogni Principio.

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Ma chi era Pier Francesco Orsini? Abbiamo già accennato che era uomo di colti e ampi interessi e come abbiamo detto legato a modo suo alla corte Papale, da cui dipendeva, e alla famiglia Farnese cui era imparentato tramite la moglie. Il suo credo politico e religioso nel corso della sua vita sarà improntato a uno scetticismo ironico e profondo, che lo farà essere in bilico tra l’una e l’altra fazione, un anarchico forse ante litteram. Ciò che ci interessa, nel presente di questo articolo, è il suo interesse per le scienze occulte e per la vicinanza agli alchimisti e per quella tale idea che lo ha portato a costruire quello strano bosco tanto diverso dai giardini di quei tempi. Tutti gli studiosi sembrano essere unanimi nell’indicarlo come l’unico ideatore del progetto che realizzerà in due tempi, il primo tra il 1561 e il 1564 e con un secondo e più complesso ciclo negli anni successivi comprendente le creazioni più grottesche e spettacolari. D’altra parte l’Orsini era figlio curioso della sua epoca e nelle sue missioni diplomatiche o nelle visitazioni presso la corte papale avrà avuto modo di conoscere rinomati artisti come Michelangelo, Vasari, Caravaggio ecc. e le più insigni menti dell’epoca: alchimisti, scienziati, filosofi nonché le macchine teatrali e i giardini esoterici nelle dimore signorili, da cui  prenderà spunto per il suo bosco. La stessa moglie, con cui condivideva evidentemente gli stessi interessi intellettivi, nel 1555 erigerà una tra le realizzazioni più antiche di Bomarzo ovvero la casa pendente, e lo farà nello stesso tempo che l’Orsini era prigioniero di guerra.

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L’elefante sormontato da una torre.

Dopo il grande vaso, più oltre troviamo l’elefante sormontato da una torre [10] espressamente designata all’uso militare. L’elefante, vera macchina da guerra, viene qui celebrato nella scena in cui guidato dal suo “mahout” cattura un legionario romano. La spiegazione che viene suggerita è quella che Ligorio e l’Orsini vollero rappresentare i trionfi e le disfatte di Roma, mentre la cattura del legionario farebbe pensare alle vittorie di Annibale, il più pericoloso nemico di Roma. Tuttavia tale interpretazione ci sembra essere in qualche molto più politica. In effetti, se poniamo attenzione, i merli sulla torre da guerra sulla groppa dell’elefante sono merli ghibellini, e qui, giacché tutto l’impianto bomarzese è un grande enigma, tentiamo una lettura per allusione. La cronaca storica ci dice, e lo abbiamo già ricordato, come l’Orsini fosse piuttosto irrequieto dal punto di vista di fedeltà al papa, da cui si era in qualche modo allontanato in particolare dopo la strage del 1557 perpetuata da Papa Paolo IV contro il paese di Montefortino e dall’eccessiva esteriorità e mondanità della corte papale della quale dirà essere ipocrita. Propendiamo quindi per un significato sottilmente critico dove l’Orsini sembra censurare l’inadeguatezza della romanità in favore di una idea ghibellina. Il legionario potrebbe essere quindi il simbolo della romanità papale mentre l’elefante rappresenterebbe oltre a diverse qualità, il potere regale.

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Il drago attaccato dalle tre bestie.

Proseguendo il nostro percorso, quasi a metà strada troviamo la statua del drago attaccato da tre belve: un cane, un leone e un lupo. Ci pare abbastanza logico fare un paragone di queste con le tre fiere che sbarrarono il passo a Dante nella Divina Commedia ovvero una lonza, un leone ed un lupo: lussuria, superbia e cupidigia. I paragoni tuttavia non finiscono qui perché se la Divina Commedia è un percorso per salire “al dilettoso monte” attraverso le pene dell’inferno per giungere alla liberazione, anche Bomarzo deve essere considerato un percorso attraverso esperienze sapienziali delle scienze misteriche verso la conoscenza. Nell’iconografia simbolica di cui si servono tutte le forme tradizionali, un posto tra i più preminenti, nelle loro diverse interpretazioni positive e negative è conquistato dalla famiglia dei rettili. Essi sono rappresentati sia come serpenti sia come draghi, che dai miti di un passato leggendario si sono perpetuati nei testi sacri innestandosi anche nel folklore popolare come interpreti nelle favole e nelle fiabe.

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Nell’iconografia mitologica occidentale precristiana e cristiana i serpenti sono caratterizzati da una valenza malefica che incarna le potenze demoniache quando non il demonio stesso. Essi rivestono l’aspetto malefico e subdolo, esseri che l’immaginario popolare pone come abitanti di grotte, tuttavia essi appaiono con un ruolo particolare sia nell’arte decorativa sia nelle diverse espressioni dell’artigianato. Per quanto riguarda la tradizione cristiana ci basti ricordare le leggende agiografiche di San Michele e San Giorgio tra quelle più conosciute. Le più antiche leggende ci riportano tuttavia di un tempo ove il drago, in particolare, ha rivestito un ruolo diverso con una valenza opposta a quella che il cristianesimo gli attribuirà e che saranno assimilate dalle scienze alchemiche ed ermetiche. In tempi antecedenti al cristianesimo, in estremo Oriente, il drago era ed è ancor oggi nel folklore orientale, ben lungi dal rivestire tale aspetto negativo, essendo collegato al Verbo Creatore cioè a Dio stesso. Tale doppio aspetto, malefico e benefico, che abbiamo già incontrato altre volte per altri simboli, ci deve suggerire una doppia chiave di lettura che a volte occorre tenere presente in alternativa a ciò che ad un primo esame sembra apparire. Il drago esprime nelle scienze alchemiche l’idea della trasformazione, dell’evoluzione, della Grande Opera Alchemica applicata sia alla materia bruta sia all’Individuo [11]

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L’Orco.

Ciò che abbiamo pensato per il drago e le belve, ovvero la rappresentazione simbolica derivante da una reminiscenza dantesca, l’Orsini sembra averla avuta anche per il grande mascherone dell’orco sul quale, a differenza dell’epigrafe che si legge oggi («Ogni pensiero vola»), originariamente vi era inciso, come riporta un disegno del 1598 di Giovanni Guerra: «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate». Da un punto di vista iconografico tale mascherone deriva dalla mitologia italica ed era il sovrano del Regno degli Inferi e il divoratore di uomini insieme al suo mostruoso cane Cerbero. L’uso del termine “Orco” per designare un mostro divoratore di uomini è documentato in italiano fin dal XIII secolo. Tale personaggio appare nell’Orlando Furioso dell’Ariosto, il quale, evidentemente ispirandosi al Polifemo dell’Odissea, descrive un mostruoso gigante cieco. Detto ciò, ci pare che nella trovata dell’Orsini vi sia stata l’idea d’inserire nell’impianto generale del bosco un motivo ricorrente che è quello della dipartita, del passaggio oltre, quasi volesse esorcizzare ciò che aveva patito personalmente. Ed ecco allora che oltre la grande porta della morte troveremo anche Cerbero che rappresenta il passato, il presente e l’avvenire e che impedisce ai vivi di entrare e ai morti di uscire.

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Echidna…
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…e Arpia.

Un po’ più sotto il mascherone dell’orco si trovano, in un ameno spiazzo tappezzato di muschio e una di fronte all’altra, due figure mitologiche: una Echidna e  una ArpiaL’Echidna è una figura della mitologia greca sulla quale si sono innestate molte leggende tra cui la sua stessa origine. Nella discendenza mitologica vi sarebbe più di una somiglianza tra questa e le immagini che saranno usate nelle iconografie che appariranno sulle costruzioni religiose dei templi cristiani medioevali e non solo in pose bizzarre, fornite di un corpo la cui forma inferiore appare terminante con due estremità caudate che in molte ornamentazioni sono tenute divaricate con le mani. Le “sirene bicaudate” si rifanno all’idea ancestrale della Dea Madre che si manifestò in ambito protostorico, tali immagini attraverseranno tutte le ere sino al basso medioevo.

Da un punto di vista simbolico, al di là dell’aspetto lascivo, con la messa in evidenza della vulva, l’immagine sottintende la potenza simbolica della generazione (Venus Genitrix) attraverso la quale può prodursi la nascita ma altresì anche simbolicamente l’evoluzione realizzativa della condizione umana. Sotto quest’aspetto, la vulva rappresenterebbe la caverna primordiale, il ”luogo delle origini”, tempio sacro di divinità femminili in cui la donna, nel doppio aspetto distruttivo-generativo, sovrintendeva ai riti di passaggio. Processo questo di un divenire che era rappresentato dalla morte al mondo attraverso la simbolica sepoltura e la rinascita dall’utero-tempio della Grande Madre alla nuova vita, dove l’uomo/donna trovava il luogo di ricapitolazione e di risoluzione al fine di rinnovare se stesso attraverso una nuova nascita [12]. Dall’altra parte, di fronte alla sirena, la statua di una arpia: corpo squamoso, ali membranose di pipistrello, artigli. Divinità della mitologia greca; ne sono ricordate due o tre, secondo l’autore: Aello, “bufera”, Ocipete, “colei che vola rapida”. In altri autori è citata anche Celeno “l’oscura”. Rapiscono e trasportano nell’Ade le anime dei morti e talvolta i viventi. L’immagine che è data è di una gratuita crudeltà nello strappare agli affetti i propri cari.

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Le Erme.

Verso il fondo del parco troviamo le Erme, una sorta di pilastri quadrangolari alla cui sommità è scolpito un volto barbuto. Nell’antica Grecia le Erme erano rappresentazioni simboliche della dimora di un dio, in particolare di Hermes, furono identificati anche come betili ed erano venerate anche in Attica e in Medio Oriente, furono esportate, in seguito, nella religione e nel pantheon romano. Venivano usate come protezioni apotropaiche delle vie e delle soglie ma anche come simbolo di fecondità. Fra quelle di Bomarzo alcune rispettano la caratteristica originale delle Erme: sono bifronti, dove il doppio volto è rivolto uno al passato e l’altro al futuro. In epoca romana l’Hermes verrà assimilato all’immagine di Giano, che sarà culto prettamente romano la cui venerazione si rifarebbe ad un periodo arcaico, tanto da essere considerato il padre degli dei.  Giano è legato alle iniziazioni; oltre a questo è stato accomunato alla funzione di protezione delle porte e dei passaggi.

A Bomarzo esistono anche Erme con quattro facce che rappresenterebbero verosimilmente le quattro età della vita similmente le quattro età della manifestazione così come sono state elaborate da Ovidio: l’età dell’oro, l’età dell’argento, l’età del bronzo e l’età del ferro. Fra le sette Erme che sorvegliano il luogo dove sono state poste sono state riconosciute anche le immagini delle Ore, custodi dell’Olimpo e legate alle stagioni. Comunque sia letta la loro funzione, pare chiaro che le immagini si riferiscono all’uso del tempo in generale e a quello dell’uomo in particolare. Non possiamo sapere se nella risistemazione, avvenuta nella seconda metà del ventesimo secolo, le Erme furono disposte in maniera da rispecchiare la posizione originale pensata dall’Orsini, dove una certa sequenza avrebbe forse potuto suggerire in qualche maniera un tempo qualificato per l’uomo, compreso quello della sua morte. Comunque, ancora una volta, se si tratta di Hermes la sua funzione era quella di psicopompo, ovvero di accompagnare il morto a trovare il passaggio verso la terra dei morti.

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Erme a quattro facce.

Uno degli elementi che si è quasi completamente perso a Bomarzo, nel corso dei secoli per diverse ragioni, non ultima una risistemazione non coerente, è quello dell’acqua che invece sarebbe stata presente in grande quantità nelle numerose realizzazioni del Ligorio. Nel simbolismo ermetico, l’acqua divenne elemento archetipale e sostegno creativo di tutta la vita: umana, vegetale, animale. Elemento simbolico con una precisa caratura metafisica e elemento determinante e vitale per l’uomo e per la vita in generale, il suo simbolismo rappresentò, con bastevole sufficienza, la materia indifferenziata da cui scaturì il tutto. Essa ha rappresentato e continua a rappresentare, attraverso le sue simboliche e trasparenti profondità, un mondo misterico e fantastico in cui realtà, immaginazione e metafisica s’intrecciano in una condizione la cui essenza fluida e lenta sembra acquisire valenze superiori al di fuori del tempo e dello spazio. Evoca il ricordo ancestrale dell’ovattato grembo materno ed è l’immagine del silenzio primordiale su cui ha aleggiato il Logos.

Di questo sia l’Orsini che il Ligorio erano coscienti, e proprio il Ligorio farà dell’acqua l’elemento fondante e simbolico di tutto l’impianto del suo principale capolavoro, ovvero Villa d’Este. L’acqua sarà l’elemento che nel Medioevo sarà preso come mito della fonte della giovinezza che costituirà un topos letterario dei bestiari e dei romanzi cortesi. Come le acque primordiali diedero vita all’intero cosmo, così ogni acqua sorgiva porta in sé il germe della vita e della salubrità con la capacità di pulire, dissolvere, purificare, sacralizzare. Se nell’età primeva la fonte divenne luogo sacro e misterico, a cui tutti gli animali del creato si abbeveravano compreso l’uomo, grazie alle discrete ombre che si aggiravano tra le foglie ed ai mormorii dell’acque, quei luoghi si popolarono delle presenze misteriche di ninfe e naiadi, dando alle fonti stesse uno spirito nativo loro custode nonché leggende e storie. Anche gli specchi d’acqua di Bomarzo, le fontane, i ruscelli acquistarono un che di magico e misterico attraverso un racconto che la pietra delle sculture ci suggerisce.

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La Venus Genitrix.

Tra le tante costruzioni in cui l’acqua era elemento fondamentale, la Venere induce ad alcune considerazioni. Originariamente era in una grotta, oggi scomparsa, della quale rimane solo uno dei mascheroni di Giove Ammone. L’acqua zampillava dal suo ombelico inondandola. La Venere simbolicamente porta con sé il significato di bellezza e armonia ovvero della divina proporzione. La bellezza (in quanto armonia) nel Rinascimento si applicherà in ogni disciplina: essa è la sapienza, e noi diremmo, con il filosofo Eraclito, che rappresenta la legge generale del cosmo e l’armonia alla quale obbediscono sia il mondo naturale che l’uomo. Concetto che si estenderà nell’arte, nell’architettura, nelle scienze. L’idea eraclitea si manterrà quindi nel Rinascimento e s’inserirà nel contesto della scienza moderna. Keplero riprenderà la teoria dell’armonia delle sfere e della musica che permarranno e verranno applicati negli studi e nelle opere di Leonardo e Dürer. La Venere dell’acqua nell’interpretazione popolare si carica dell’aspetto materno e quello di nutrimento, in questo caso come nutrimento intellettivo. Tale aspetto è stato usato come allegoria nella scienza alchemica. In alchimia l’acqua è chiamata Acqua divina o Permanens. L’acqua divina secondo gli alchimisti si trova nella materia come Anima Mundi e tale proposizione collima con l’idea di matrice universale. È il latte dei filosofi o latte della vergine, il mercurio degli alchimisti [13].

Per altro al fondo del piazzale dei vasi assiso in una vasca, in cui ormai vi è solo muschio, appare Nettuno, il dio del mare, che tiene in mano un cucciolo di delfino (vedi foto di copertina). Per la verità l’immagine che appare ai nostri occhi è diversa dalle immagini gloriose e mitiche a cui siamo stati abituati dalla statuistica rinascimentale, anzi sembra un Nettuno che abbia perso il suo regale vigore, quasi abbattuto. Di quale cruccio è adombrato? Ha un significato, il delfino su cui si appoggia e quello più grande con la bocca aperta alla sua destra? Forse è il caso di fare una lettura abbinata a ciò è che vicino al piazzale dei vasi dove si profila la figura di Cerere la quale come dea materna è incoronata da un paniere con agavi il cui significato è quello della sicurezza del simbolo tangibile di un amore vero e sicuro, fino alla morte.

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Possiamo azzardare, come d’altra parte abbiamo già fatto, di vedere alcune immagini delle statue come le figure sotto traccia dell’Orsini e di sua moglie Giulia. Nel gruppo, oltre a Cerere vi sono cinque fanciulli che gli si aggrappano al suo dorso, forse per ricordare i numerosi figli che Giulia diede all’Orsini? Il delfino è una figura centrale di molte mitologie e religioni antiche, non è una divinità in senso proprio, poiché non giudica gli uomini, ma si limita a proteggerli e accompagnarli verso il mondo ultraterreno. Le numerose leggende e i racconti degli antichi storici (Plinio, Eliano, Erodoto) ci raccontano della socievolezza e della continua vicinanza all’uomo, tanto da rappresentarlo sul suo dorso nell’accompagnarlo verso le “Isole dei Beati” al confine del mondo. Tale venerazione si spinge a identificarlo come emblema del mare. Incontriamo il delfino nella tradizione egizia come attributo di Iside: protettrice dei defunti, capace di risuscitarli; incarna il principio femminile, fonte celeste della fecondità e della trasformazione, protettrice inoltre dei naviganti. Ancora una volta è enfatizzato il passaggio oltre la dimensione umana e forse nella speranza, da parte dell’Orsini, di un ricongiungimento con la moglie.

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Cerere.

Al termine del nostro viaggio, accompagnati dall’Orsini, ci appare sulla parte alta del territorio boschivo, vicino al recinto esterno, il tempio che si dice venne eretto per raccogliere le spoglie mortali dell’adorata moglie Giulia Farnese. Anche in questa costruzione, a mo’ di tempio classico ma che riprende forme di diversi stili, è strutturata tutta una serie di simbolismi ed è l’unica costruzione in stile classico che si contrappone alle stranezze del resto del bosco. Intanto nel pronao troviamo una sorta di foresta di colonne che sembra sproporzionata rispetto alla cella. Il loro numero, a seconda di come vengono contate, varia da otto, quelle libere, a sedici, comprendendo quelle accorpate alla cella. Da un punto di vista simbolico tuttavia, la cella ottagonale sembra suggerirne otto, numero usato nei battisteri come simbolo di resurrezione.

Tutta la costruzione sembra sia legata all’ottava casa astrologica che riguarda i distacchi, le perdite e la nostra capacità di rigenerazione. Essa è orientata astrologicamente. Questo aspetto ci viene suggerito da un disegno del pittore Giovanni Guerra, nel quale viene evidenziato come originariamente il basamento del tempietto era decorato da dodici medaglioni araldici e da dodici segni zodiacali mentre il tamburo della cupola ha quattro oculi orientati verso i punti cardinali. Nell’arte cristiana, l’interpretazione simbolica del numero otto, ha come base le parole di Sant’Ambrogio:

« …era giusto che l’aula del Sacro Battistero avesse otto lati, perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte. »

L’otto è dunque, nello stesso tempo, il simbolo della resurrezione del Cristo e della promessa di risurrezione dell’uomo trasfigurato dalla grazia. Ma è anche il numero dell’equilibrio cosmico.

Qui ci fermiamo: ciò che rimane fra il verde del bosco, come ulteriori suggestioni, ha il gusto di un contorno ulteriore ma sostanzialmente ripetitivo, poiché l’Orsini e il Ligorio non hanno fatto mancare nulla. Ciò che abbiamo visto e considerato nelle malie di un’opera così misterica secondo noi va letta e vissuta avendo una chiave intellettiva per la sua comprensione, ovvero attraverso un linguaggio simbolico. Il suggerimento di Orsini è questo: forzare i nostri condizionamenti al fine di divenire consapevoli della nostra vita e del nostro ultimo approdo, e a tal scopo fornirci di una chiave d’interpretazione simbolica al di là di ogni suggestione meramente individuale. Sarà Michael Majer, famoso alchimista, contemporaneo dell’Orsini a suggerirci, nella XXVII tavola dell’Atalanta Fugiens che accoglie il sapiente sul portale del giardino ermetico, il giusto atteggiamento e la saggezza necessaria con la frase.

« Chi tenta di entrare nel Rosario dei Filosofi senza chiave è pari a un uomo che vuol camminare senza piedi. »

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Note:

[1] Sembra che la decisione di lasciare la carriera militare fu incoraggiata dalla crudeltà dalla reazione di papa Paolo IV nella vicenda del tradimento della popolazione del paese di Montefortino durante la “guerra d’Italia” del 1556-57 che oppose il pontefice al vice regno spagnolo di Napoli. Gli abitanti erano passati, insieme con il signore locale, appartenente alla famiglia Colonna dalla parte degli spagnoli, uccidendo in un agguato cento fanti appartenenti proprio al reparto al comando di Vicino. La vendetta del Papa fu violenta. Paolo IV ordinò al comandante della cavalleria Giulio Orsini di espugnare e distruggere il borgo e giustiziare tutti gli abitanti, rei di tradimento.

[2] Villa Palagonia dell’architetto domenicano: Tommaso Maria Napoli la realizzò nel 1715.  Superba ed eccentrica villa già nel Settecento, fu visitata da illustri viaggiatori, che la considerarono come il luogo «più originale che esiste al mondo e famoso in tutta Europa». La sua costruzione ebbe inizio nel 1715 per volere di Don Ferdinando Gravina e Crujllas, V principe di Palagonia.

[3] Non senza ironia l’Orsini chiama balordi chi visita e nulla capisce del suo bosco, sfidando Alessandro Farnese e la sua erudizione a visitarlo (Lettera del 22 aprile 1561).

[4] È chiaro che si trattava, ma ancor oggi in questo breve saggio si tratta, di un percorso comunque intellettivo con una forte componente simbolico-letteraria che derivava dai racconti  mitologici tipica dei cenacoli del ‘500. Nella componente ispiratrice delle statue vi si trovano tracce di opere del Canzoniere di Francesco Petrarca, dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. L’abbondante letteratura critica in cui cercheremo di districarci, con riferimento all’impianto bomarzese sia artistica che storica, sembrerebbe essere piuttosto avara di una visione simbolica e metafisica, nonostante i precedenti  di interesse dell’Orsini per le scienze alchemiche e i riferimenti come abbiamo già ricordato all’opera di Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia Poliphili nonché ai poemi Amadigi e Floridante di Bernardo Tasso.

[5] La casa ha una inclinazione di 10 gradi che fa perdere ogni schema di riferimento mandando in tilt il processo neuronale di equilibrio del labirinto vestibolare. Questi tipi di fenomeni sono stati studiati quattro secoli dopo dallo  psicologo Bruce Bridgeman e da un certo D. B. Vogt.

[6] L’Orsini sarà molto critico nell’aspetto mondano della corte papale. Nella copiosa raccolta di lettere che intratterrà con Jean Drouet, chierico e medico originario della Savoia residente a Roma, vengono trattate, con stile singolare per l’epistolografia del tempo, questioni filosofiche, letterarie, mediche, i suoi rapporti con le donne e, soprattutto i pregi della vita ritirata dal mondo della ricchezza e del potere, rappresentato da Roma e dalla corte pontificia, per Orsini simbolo di ipocrisia.

[7] Sul Kalāmukha indù, cfr. MACULOTTI, Marco: Tempo ciclico e tempo lineare: Kronos/Shiva, il «Tempo che tutto divora»; su AXIS mundi.

[8] Il mito vuole che Ercole, una volta terminate le sue fatiche, per effetto di una veste avvelenata, per il grande dolore si lasciasse bruciare su una pira sul monte Eta.

[9] Il significato del guscio della tartaruga deriva proprio dal suo particolare disegno. Le 13 scaglie più grandi sono le 13 lune piene dell’anno. Le 28 scaglie cornee piccole, sul perimetro, sono i 28 giorni secondo il calendario lunare.

[10] La torre applicata sulla groppa dell’elefante si chiama Howdah, deriva dalla parola indi “haudā” e si trattava di  una vera e propria struttura turrita in legno atta a proteggere arcieri e lanciatori di giavellotto.

[11] Il serpente nell’iconografia cristiana viene riportato come immagine simbolica del Cristo. Su alcuni calici del XIII secolo è riportato: Serpens  Christum notat in crucem passum (Il serpente indica il Cristo che ha sofferto sulla croce).

[12] La femmina ha dunque rappresentato, all’alba dell’umanità, per le proprie capacità procreatrici, la celebrante dei misteri della natura, diventando la sacra vestale di quest’ultima. Se, ci trasportiamo nel Paleolitico, all’incirca 40.000-35.000 anni fa, nel continente europeo, possiamo trovare testimonianze iconografiche molto interessanti all’interno di grotte che appaiono decisamente dedicate. A questo proposito, sono significative le immagini che si trovano nella grotta di Abri Cellier risalente al periodo Aurignaziano (47.000-35.000 anni fa) scolpite su di una parete. Ovvero il simbolo principe, la porta, l’ostio manifestativo: la vulva. Nel corso dei millenni tale immagine muterà, senza perdere la caratura simbolica, in più forme; dalle figure abbondanti femminili preistoriche, alle rappresentazioni della Mater Matuta romana o la sheela na gig medioevale. Cfr. MACULOTTI, Marco: Il simbolismo della Spirale: la Via Lattea, la conchiglia, la “rinascita”; su AXIS mundi.

[13] Il concetto alchemico della nutrice apparve nell’Aurora Consurgens alla fine XIV secolo. Si tratta di un inno alla Sophia costellato di passi dal Cantico dei cantici di Salomone. In alcuni dipinti la conoscenza è una vergine dal cui seno succhiano i filosofi. La Sophia mette fine alla notte dell’ignoranza e alla distruttiva putrefazione della materia, nutrendo i filosofi col suo “latte verginale”.


Bibliografia:

  • Discorsi di M. Francesco de’ Vieri detto il Verino Secondo, delle maravigliose opere di Pratolino e d’Amore In Firenze, Appresso Giorgio Marescotti, 1587
  • BALTRUSAITIS Jurgis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Milano: Adelphi, 2002
  • BURCKHARDT Titus, L’Arte Sacra in Oriente e in Occidente. L’estetica del Sacro, Milano: Rusconi, 1976
  • CHARBONNEAU Lassay Louis, Il bestiario del Cristo.
  • COLONNA  Francesco, Hypnerotomachia Poliphili.     
  • COOMARASWAMY Ananda K., Il grande brivido.
  • EUSEBIO M. Roberto, L’eterno femminino, riv. L’eterno Ulisse, anno 5° n°18.
  • EUSEBIO M. RobertoL’oceano universale.    
  • FAGIOLO Marcello, Architettura e Massoneria. L’esoterismo della costruzione, Roma: Gangemi, 2006
  • GUÉNON René, Simboli della scienza sacra
  • IMPELLUSO Lucia, La natura e i suoi simboli. Piante, fiori e animali, Milano: Electa, 2003
  • ROOB Alexander, Alchimia e Mistica, Colonia: Taschen, 2007

 

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