Il Polo, l’incorporeità, l’Androgine

Le tradizioni mitiche di tutto il mondo parlano di un’età dell’oro aurorale in cui l’Uomo viveva “in compagnia degli dèi”: ciò si può forse mettere in relazione con la creazione “a immagine e somiglianza di Dio” e alla tradizione dell’Androgine primordiale platonico, omologo dell’Adam Kadmon cabalistico?


di Michele Ruzzai
articolo originariamente pubblicato su EreticaMente

Nel precedente articolo L’Uomo eterno e i cicli cosmici avevamo avanzato l’ipotesi, con l’ausilio di alcuni dati di natura soprattutto ciclico/macrocosmica, che probabilmente l’età edenica non fu un momento statico ed immobile della storia umana; tale periodo, corrispondente nel mito indù al Satya (o Krita) Yuga, e durato ben quattro decimi di tutto il nostro Manvantara, dovette anzi evidenziare una certa discontinuità interna che ora cercheremo di indagare anche sulla base di qualche nota di carattere più prettamente antropologico. Se infatti ci soffermiamo sul tema della “condizione iniziale” dell’uomo dei tempi primordiali (che genericamente da tutti i popoli viene ricordata con estremo rimpianto: la cosiddetta «nostalgia delle origini», ben indagata da Mircea Eliade) crediamo sia possibile operare, analogamente al piano macrocosmico, una distinzione tra due diverse situazioni esistenziali, che invece molto spesso vengono confuse e sovrapposte tra loro.

Una fase è quella per la quale si ha ancora memoria di una relativa facilità nei contatti mantenuti tra l’uomo e le forze divine, con le quali, da un lato, si comunicava ad esempio scalando una montagna, salendo su un albero o su una liana per recarsi negli spazi celesti, mentre dall’altro erano gli stessi Numi che di frequente scendevano sulla terra ed incontravano gli uomini; è una situazione che però ad un certo punto dovette interrompersi, generalmente a causa di quella che Mircea Eliade definisce come «pecca rituale». A nostro avviso, tale fase sembrerebbe implicare, anche quando i collegamenti con il sovra-mondo erano integri, l’esistenza comunque di precisi riti ed azioni volte “tecnicamente” a mantenerli; quindi uomini e dei che, pur in contatto continuo, erano per certi versi già divisi – costituendo due entità diverse – dalla necessità dell’azione rituale che, contemporaneamente, statuiva anche una reciproca alterità. Questa è la fase nella quale presumibilmente regnava Saturno-Kronos, reggente “diurno” ed “incivilitore” per eccellenza, che a nostro avviso dovrebbe riguardare la seconda metà del Satya Yuga (cioè il secondo Grande Anno), ovvero il periodo posto tra 52.000 e 39.000 anni fa [cfr. A. Casella, Saturno, il Sole Nero dei primordi].

Ma vi fu anche un’altra fase, con ogni probabilità anteriore a quella di Saturno. Talora, infatti, emerge il ricordo indistinto di un momento di innocenza e di felicità, ma anche di libertà e di potenza, uno stato primordiale paragonabile, da un lato, ad una pienezza irradiante, da un altro, paradossalmente, a quello del “vuoto” che occupa il Centro della Ruota, “motore immobile” di aristotelica memoria: Polo spirituale ed impassibile non coinvolto nel movimento periferico, ma purtuttavia ad esso necessario. Oppure affiora in miti nei quali il limite tra umano e divino sembra ancora non essere ben marcato, o magari la convivenza è così stretta e costante fino ad arrivare quasi all’identificazione reciproca. È, questa, la prima fase, aurorale ed indifferenziata del nostro Manvantara – e quindi, a nostro avviso, relativa al primo Grande Anno – che oltretutto, dal punto di vista della Tradizione Romana, sembrerebbe essere simboleggiata non da Saturno (Kronos) ma dal dio Giano, il dio degli inizi, entità per certi versi notturna, enigmatica [cfr. M. Maculotti, Il dio primordiale e triplice: corrispondenze esoteriche ed iconografiche nelle tradizioni antiche].

Inizieremo quindi ad esporre alcune considerazioni attorno al primo Grande Anno del nostro Manvantara, relativo all’arco di tempo che, come dicevamo, all’incirca intercorse tra 65.000 e 52.000 anni fa. Possiamo già dire che, se appare piuttosto nebulosa la questione di quale tipo di uomo/divinità possa essere considerato il soggetto centrale di questo periodo (concetto che affronteremo più sotto), sembrano invece definite con maggior dettaglio le caratteristiche cosmologiche del “luogo” ad esso collegato. Infatti, quello che vi corrisponde nella tradizione cristiana – ovvero, il Paradiso Terrestre – non è situato in un “altrove” metafisico, ma, come Frithjof Schuon ci ricorda, si trova nella stessa dimensione corruttibile che occupiamo noi stessi; ed in un’ottica di impostazione “boreale”, quale è la nostra, non ci sembra intanto azzardato proporre un primo parallelo tra la vasta terra di Eden, descritta nella Bibbia come un’immensa ed arida steppa (all’interno della quale Dio pianta un giardino circoscritto), e la tundra nordica meno ospitale. Per restare alla tradizione biblica, è la dimora di Yahweh stesso a trovarsi su un monte «all’estremo limite del settentrione», mentre nella cultura indiana (induista e buddista) il supremo dio Varuna (ovvero Urano, reggente divino anteriore a Kronos nella Tradizione Ellenica) dimora sulla sommità del monte Sumeru, che si erge in mezzo ad una foresta incantevole. Il Sumeru è il centro della terra paradisiaca primordiale, Ilavrita (già accennata nel primo articolo) e la residenza della divinità è candida, come bianca, completamente, è descritta la stessa altissima montagna, che nella tradizione indiana viene anche denominata Meru.

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Mandala del Monte Meru.

È probabile che le descrizioni della foresta, o del giardino piantato da Dio, possano avere un carattere simbolico, come pure l’aspetto candido indicato per le montagne settentrionali o anche il fatto che tradizionalmente il punto collegato all’idea di centralità sia anch’esso di colore bianco (almeno visto dall’esterno ed in quanto origine della manifestazione cosmica); non ci sentiremmo però nemmeno di escludere, ad un livello più basso ed immediato, anche una certa relazione di questa caratteristica cromatica con il bianco dei ghiacci polari. L’idea di centralità assoluta rimanda, quindi, non soltanto ad una terra genericamente posta a latitudini molto elevate, ma a quella ancor più precisamente definita dallo stesso Polo, raffigurato come «chiodo del mondo» da certe popolazioni siberiane, o dagli stessi Etruschi immaginato come il fulcro del pianeta e ritenuto quindi sede degli dèi. È evidente che a ciò si ricollega Guénon, quando ricorda il particolare punto geografico dal quale nei tempi primordiali si poteva vedere il sole fare il giro completo dell’orizzonte senza tramontare – citando anche Omero, che parla della Tula iperborea posta là «dove sono le rivoluzioni del sole» – o quando segnala che è sempre il simbolismo polare ad essere anteriore a quello genericamente solare [cfr. A. Casella, Simbolismo stellare e simbolismo solare].

Ma quale tipo di coscienza può aver avuto l’Essere posto al centro di un Cosmo così strutturato? Per quanto possiamo sforzarci di immaginare, forse fu una coscienza che non implicava nemmeno la separazione soggetto-oggetto o quella Io-Dio; verso una divinità, cioè, che come Evola spesso sottolinea, viene oggi quasi sempre “teisticamente” concepita del tutto esterna a sé. Ma una coscienza di questo tipo, così lontana da quella odierna, non può non richiamare anche l’idea, come dicevamo, di un Uomo radicalmente diverso da quello attuale. Non è un caso, infatti, che il Mito parli spesso di “Immortali” che un tempo soggiornavano al Centro del mondo, mentre Mircea Eliade rileva ovunque tradizioni secondo le quali l’Uomo sarebbe divenuto mortale solo da un certo momento in poi della sua storia.

Già infatti ricordavamo come, nel mondo greco, Platone segnalava che «un tempo la nostra natura non era affatto identica a quella che possediamo ora, ma di tutt’altro genere» e per Esiodo la razza dell’Età dell’Oro, sorprendentemente longeva, «viveva come dèi»; al mito di una felice umanità primordiale si sovrappose quello del mitico popolo degli Iperborei, che per Perecide appartenne alla razza dei Titani, mentre Erodoto li definiva «uomini trasparenti». Nella cosmologia indotibetana, come ricorda Titus Burckhardt, l’uomo venne inizialmente creato con un corpo fluido, mutabile e trasparente, mentre in altri miti appare luminoso e sonoro, anticamente volava sopra la terra e solo in un secondo tempo discese in basso, divenendo opaco. In Cina Li-Tze accennò a «uomini trascendenti» e dalle «ossa deboli», mentre anche nella gnosi islamica l’orientalista Henry Corbin sottolinea la presenza del tema del paradiso iperboreo, nella quale viene significativamente chiamato «Terra delle anime».

Molti sono quindi gli accenni al fatto che la corporeità dell’Uomo primordiale di inizio Manvantara fosse diversa da quella attuale – cosa peraltro sottolineata da tutti i principali autori tradizionalisti – in quanto non ancora “materializzatosi” definitivamente e quindi  impossibile da rinvenire oggi sotto forma di resti fossili. L’elemento fondamentale, cioè, è che il corpo venne assunto solo più tardi, come ricorda Julius Evola il quale, citando Plotino ed Agrippa, evidenzia l’audacia dimostrata dall’Uomo nell’assumere una veste materiale, momento a partire dal quale, tuttavia, egli purtroppo iniziò a soggiacere alla paura, cadendo da una precedente fase di libertà e di potenza. Ma è possibile cercare di ricostruire, almeno a grandi linee, i percorsi che portarono l’Uomo dalla sua prima nascita a questo risultato finale? È certamente un interrogativo non privo di difficoltà, che per quanto possibile cercheremo di approcciare facendo un rapido excursus tra gli accenni, a nostro avviso più significativi, presenti nelle varie tradizioni.

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Elohim Creating Adam 1795-c. 1805 by William Blake 1757-1827
William Blake, “Elohim creating Adam”, circa 1800.

Iniziando dalla quella cristiana, molte delle considerazioni che proporremo prenderanno ovviamente spunto, direttamente o indirettamente, dal libro della Genesi, nel quale, com’è noto, la creazione dell’Uomo viene narrata in due modalità diverse, una volta nel primo, ed un’altra nel secondo capitolo. Nel primo, l’atto creativo viene effettuato direttamente e «ad immagine e somiglianza di Dio», mentre, nel secondo, ciò si attua in modo apparentemente meno immediato, ovvero plasmandolo con polvere del suolo ed insufflandovi l’alito di vita. Al di là del significato di questa doppia narrazione, sul quale torneremo più avanti, è il concetto di “immagine divina” che a nostro avviso può rappresentare un utile punto di inizio per alcune considerazioni, soprattutto in rapporto al tema della corporeità del primo Uomo. Tra le varie riflessioni antropologiche dei principali pensatori di matrice cristiana, ci sembra infatti particolarmente significativa l’idea, elaborata già dagli “alessandrini” (Clemente Alessadrino, Origene, S. Atanasio, ecc…) che l’Uomo – Adamo – fosse stato generato «ad immagine di Dio» non nella sua parte corporea e mortale, ma in quella spirituale ed immortale, definita in greco come “Nous”. Anche Gregorio di Nissa seguì una linea analoga, distinguendo due diversi momenti creativi: uno appunto «ad immagine di Dio», unitario e relativo all’«uomo intelligibile» – da cui l’analogia di questo stato con quello angelico – ed un altro sessualmente diversificato nei corpi ed attinente all’«uomo sensibile», creatura passionale ed irrazionale.

Analogamente, anche per Jakob Böhme, Adamo nacque con due corpi, dei quali uno fu quello dell’angelo (il corpo celeste) e l’altro, almeno virtualmente, corrispose a quello dell’uomo terrestre, che però si manifestò solo in un secondo momento; ed è evidente che il corpo terrestre può concepirsi solo nella dualità dei sessi. Nello stesso solco si situano fondamentalmente anche pensatori quali Meister Eckhart, Giovanni Scoto Eriugena, Onorio di Ratisbona, mentre, in ambito non prettamente cristiano, ci sembra interessante ricordare anche similari concezioni mandaiche che accennano all’immagine archetipica dell’uomo, corrispondente ad un «Adamo celeste» che precedette di millenni la plasmazione dell’«Adamo terreno». In effetti va sottolineato che la facoltà di intelligere, ovvero di «cogliere dall’interno senza mediazioni», corrisponde al sopra citato elemento noetico, ed è la parte più elevata del composto umano: è qui che risiede eminentemente la dignità dell’Uomo ed è precisamente in questo “luogo” che egli si identifica a Dio.

Quindi, in definitiva, quando si parla di creazione dell’Uomo «ad immagine e somiglianza di Dio» non ci si riferisce ancora, almeno secondo una parte importante dei pensatori di matrice cristiana, ad un Essere corporeo e grossolanamente materiale, ma al suo superiore principio spirituale. Questo Adamo del primo capitolo del Genesi, che cristallizza in sé un’immagine divina, svolge quindi un ruolo direttamente celeste, ed infatti è stato osservato che può essere identificato all’Uranos della tradizione greca e a Yahweh di quella ebraica; ma anche al Giano dei Latini, vista la sua funzione di Axis mundi (dagli evidenti rimandi polari) e di fonte originaria del genere umano successivo. Anche in Leopold Ziegler, l’Uomo primordiale in pratica corrisponde a Dio stesso, analogamente a Jakob Böhme che vede in lui la manifestazione diretta del Creatore e nella quale Adamo di fatto contemplava la sua stessa luce.

Un ulteriore tratto essenziale di questo primo Adamo, già accennato tra le righe, è quello della sua androginia, enunciato nel famoso passaggio biblico «maschio e femmina li creò». Per Platone l’Essere originario era di forma sferica e nel Simposio ne parla come di un’entità che, avente in sé sia il maschio-Sole che la femmina-Terra, era posto sotto l’intermedia tutela della Luna. Origene e Gregorio di Nissa individuarono nell’Adam Qadmon della Cabbala ebraica l’essere la cui androginìa viene successivamente persa a causa della separazione di Eva (altro concetto sul quale torneremo più avanti). In perfetta analogia, nei testi tradizionali indù si cita la casta primordiale Hamsa, corrispondente all’Uomo ancora integro e solo successivamente polarizzatosi nei due sessi. È però chiaro che tale bisessualità primordiale deve essere interpretata in chiave metafisica ed immateriale, non banalmente organico-corporea, come esplicitamente sottolineato da Frithjof Schuon.

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Anche per Mircea Eliade quello dell’Androgine fu lo stato dell’indifferenziazione primordiale, antecedente all’individualizzazione umana ed alla separazione di Eva da Adamo, il che, in effetti, può ben conciliarsi con il tipo di coscienza, “non distintiva”, che più sopra ipotizzavamo per l’Essere degli inizi. Lo studioso rumeno segnala anche come, significativamente, fino nelle mitologie australiane si ritrovi l’idea, in fondo identica a quella platonica, dell’uomo primordiale di forma sferica, come sferica era la forma del totem ancestrale “Kuruna” dal quale questi provenne.

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Raffigurazione cabalistica dell’Adam Kadmon.

Bibliografia relativa al presente articolo:

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  • Ezio Albrile – Siamo tutti figli di Adamo ? – in: Vie della Tradizione n. 99, luglio-settembre 1995
  • Titus Burckhardt – Scienza moderna e saggezza tradizionale – Borla – 1968
  •  Henry Corbin – Corpo spirituale e Terra celeste – Adelphi – 1986
  • Nuccio D’Anna – Il Dio Giano – SeaR Edizioni – 1992
  • Nuccio D’Anna – Il gioco cosmico – Rusconi – 1999
  • Nuccio D’Anna – René Guénon e le forme della Tradizione – Il Cerchio – 1989
  • Renato Del Ponte – Dei e Miti italici – ECIG – 1999
  • Mircea Eliade – Il mito della reintegrazione – Jaca Book – 2002
  • Mircea Eliade – Immagini e Simboli – TEA – 1993
  • Mircea Eliade – La nostalgia delle origini – Morcelliana – 2000
  • Mircea Eliade – Mito e realtà – Borla – 1993
  • Julius Evola – La Tradizione ermetica – Edizioni Mediterranee – 1996
  • Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988
  • A. Faivre / F. Tristan (a cura) – Androgino – ECIG – 1986
  • Kurt Flasch – Eva e Adamo. Metamorfosi di un mito – Il Mulino – 2007
  • Vito Genua – Antropogenesi e nozione di doppia creazione dell’uomo in Origene – in: Pan, vol. 23 – 2005
  • Gaston Georgel – Le quattro età dell’umanità – Il Cerchio – 1982
  • Mario Girardi – L’uomo immagine somigliante di Dio (Gen.1,26-27) nell’esegesi dei Cappadoci – in: Vetera Christianorum – fasc. 2 – 2001
  • Joscelyn Godwin – Il mito polare – Edizioni Mediterranee – 1993
  • René Guénon – Forme tradizionali e cicli cosmici – Edizioni Mediterranee – 1987
  • René Guénon – Il simbolismo della Croce – Luni Editrice – 1999
  • René Guénon – Simboli della scienza sacra – Adelphi – 1990
  • René Guénon – Studi sull’induismo – Luni Editrice – 1996
  • Giovanni Iammarrone – L’uomo immagine di Dio. Riflessioni su una spiritualità dell’immagine – in: Teresianum, A. 46, fasc. 2 – 1995
  • Annabella Lampugnani – Il ciclo nel pensiero greco fino ad Aristotele. Evoluzione storica di un’idea e sue implicazioni teoretiche – La nuova Italia editrice – 1968
  • Martin Lings – Antiche fedi e moderne superstizioni – Il leone verde – 2002
  • Jean Mabire – Thule. Il sole ritrovato degli Iperborei – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007
  • Gianluca Marletta – Il neospiritualismo. L’altra faccia della modernità – Il Cerchio – 2006
  • Mario Enzo Migliori – Recensione a Renato Del Ponte. La città degli Dèi: la tradizione di Roma e la sua continuità – in: Arthos n.10, nuova serie, anno 2002
  • Meister Eckhart – Commento alla Genesi (a cura di Marco Vannini) – Marietti – 1989
  • Onorio di Ratisbona – Cos’è l’Uomo – Il leone verde – 1998
  • Mario Polia – Imperium – Il Cerchio – 2001
  • Frithjof Schuon – Dal divino all’umano – Edizioni Mediterranee – 1993
  • Frithjof Schuon – L’esoterismo come principio e come via – Edizioni Mediterranee – 1997
  • Frithjof Schuon – Le stazioni della saggezza – Edizioni Mediterranee – Anno non indicato
  • Frithjof Schuon – Sguardi sui mondi antichi – Edizioni Mediterranee – 1996
  • Giuseppe Schiavone – L’Androgino tra realtà e mito – Bastogi – 1997
  • Carlo Splendore – Teocosmogonia secondo la Gnosi – in: Vie della Tradizione n. 124, ottobre-dicembre 2001
  • Luca Valentini – Eros e la distruzione della diade – in: Vie della Tradizione n. 148, gennaio-aprile 2008
  • Jean Marc Vivenza – Dizionario guénoniano – Edizioni Arkeios – 2007

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