“True Detective”: il Tempo Divoratore e l’Eterno Ritorno

In vista dell’uscita, prevista per il 14 gennaio, della terza stagione di “True Detective”, riproponiamo ai nostri Lettori il ciclo di articoli da noi curato per YAWP sugli elementi esoterici del fortunato serial televisivo.


di Marco Maculotti
articolo originariamente pubblicato su YAWP: Giornale di Letterature e Filosofie

 

« Colui che divora il tempo… i suoi indumenti sono un vento di impercettibili voci… gioite: la morte non è la fine. » (True Detective, episodio 7)

Nell’appuntamento precedente di questo ciclo [1] abbiamo analizzato la Weltanschauung di Rust Cohle rintracciando una serie di influenze letterarie e filosofiche che hanno presumibilmente ispirato Nic Pizzolatto per la genesi del personaggio. Ci prefiggiamo ora in questo terzo articolo della serie di disquisire sulla tematica del tempo che appare assolutamente centrale nel prima stagione di True Detective. Il nostro intento è — come il lettore che ha già avuto modo di leggere i precedenti contributi già saprà — sviscerare i temi della serie da un punto di vista tradizionalemitico. Vedremo come in questa sede tali strumenti interpretativi risulteranno pienamente soddisfacenti, in quanto diverse battute cardine della serie tv richiamano quasi alla lettera insegnamenti sapienzali e misterici delle civiltà arcaiche. Faremo riferimento soprattutto alla tradizione classica greca, a quella induista e all’opera dello storico delle religioni Mircea Eliade.

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“True Detective”, episodio 1.

La «trappola della vita» e la maledizione cronica

Tutte e otto le puntate che compongono la prima stagione di True Detective appaiono permeate da un’atmosfera di sinistra ineluttabilità. Il principale testimone di questa sorta di maledizione illusoria è naturalmente il protagonista Rust Cohle, che più di una volta ha l’occasione di tradurre in concetti le sue elucubrazioni pessimiste sul tema, rendendone partecipe — suo malgrado — il collega Marty Hart. Nella terza puntata Rust mette questa maledizione cronica in relazione a quella che egli definisce la «trappola della vita»:

« Tutti incappiamo in quello che io chiamo la “trappola della vita”. Questa profonda certezza che le cose saranno diverse, che ti trasferirai in un’altra città… e conoscerai persone che ti saranno amiche per il resto della tua vita, che ti innamorerai e sarai realizzato. Vaffanculo alla realizzazione e alla risoluzione. […] La realizzazione non si raggiunge, non fino all’ultimo istante. E la risoluzione. No… No. No. Niente finisce davvero. »

Fin dai suoi primi monologhi, si comprende subito come Rust sia quasi sopraffatto da questa sensazione che avverte come una vera maledizione — un anatema che pende come una spada di Damocle sull’umanità tutta, anche se sono pochi a rendersene conto davvero: e il caso del collega Marty è emblematico in questo senso [2]. La realizzazione e la risoluzione agli occhi di Rust non sono che chimere illusorie, e pure dannose. La struttura del tempo, simile a un gigantesco organismo-meccanismo fagocitante, non permette affatto che la coscienza giunga a una realizzazione, tantomeno a una risoluzione, dal momento che tutto è ciclico e le situazioni — soprattutto quelle drammatiche — torneranno a ripetersi per sempre, ciclo dopo ciclo. Così, al ritrovamento del cadavere di Dora Lange nell’episodio pilota, Rust commenta con testuali parole:

« Vedrai, succederà di nuovo. O è già successo in passato. O tutte e due. »

Questa amara consapevolezza riguardo l’esistenza di un meccanismo implacabile che si fonda sull’eterno ritorno dell’uguale [3] di nietzschiana memoria riemerge più volte nella serie, sia da parte di Cohle che di altri personaggi. Nella quinta puntata, in seguito alla localizzazione e all’eliminazione dei fratelli Ledoux, Rust afferma:

« Non voglio sapere più nulla. A questo mondo nulla può essere risolto. Qualcuno una volta mi disse che la vita è solo un circolo ripetitivo. Tutto ciò che abbiamo fatto o faremo, saremo costretti a ripeterlo ancora, ed ancora, ed ancora. E quel ragazzino e quella ragazzina saranno ancora in quella stanza, ancora e ancora e ancora. Per sempre. »

E, nella settima puntata:

« La mia vita è stata un circolo di violenza e degradazione, fin da quando ero piccolo. È ora di chiuderlo. »

Questi lampi di disillusione — e al tempo stesso di illuminazioneQuando avevo quelle visioni la maggior parte delle volte pensavo di essere matto, ma c’erano altre volte in cui pensavo di riuscire a svelare la realtà segreta dell’universo», afferma Rust nell’ep. 2) — hanno condotto Cohle a sviluppare una propria teoria filosofica sulla natura del tempo e della vita e coscienza umana in relazione ad esso. Così, ad esempio, nella quinta puntata egli vaticina:

« Nell’eternità dove il tempo non esiste niente può crescere, niente può divenire, niente cambia. Quindi la morte ha creato il tempo per far crescere le cose che lei ucciderà e ognuno poi rinasce ma sempre nella stessa vita in cui si è vissuti in precedenza. Nessuno è in grado di ricordare la propria vita, nessuno può cambiare la propria vita e questo è il terribile segreto della vita stessa. Siamo in trappola come in un incubo dal quale continuiamo a svegliarci. […] La nostra vita si ripropone ciclicamente come dei kart su una pista… »

Similmente, sebbene con un linguaggio ben più semplificato e potremmo dire ‘popolare’, Marty esterna sconsolato la propria frustrazione e impotenza nei confronti degli accadimenti della sua vita (ep. 7):

« Padre Tempo fa di noi ciò che vuole. »

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Aion all’interno del cerchio dello zodiaco

Il Dio del Tempo, il circolo, la morte

« (Lui è) tutto intorno a noi. Prima della nostra nascita e dopo la nostra morte. » (True Detective, episodio 8)

Devesi a questo punto sottolineare come in True Detective questa forza mostruosa, onnipotente e tutt’altro che misericordiosa che si manifesta attraverso lo scorrere del tempo sia in piena linea con la tradizione arcaica. Si rende necessario dunque un excursus.

Il carattere circolare del tempo, ben ravvisabile nei dialoghi della serie che abbiamo citato, era cosa ben nota agli antichi. Il dio del tempo più antico nell’antica Grecia fu Okeanos, la cui etimologia Paula Philipsson [4] fa derivare dal sanscrito ačâyâna, «il circondante». Okeanos si presentava come il fiume cosmico che circondava la terra come un anello e includeva anche l’universo sotto forma di un corso d’acqua circolare o di un serpente che si mangia la coda (Ouroboros) e che porta sulla schiena lo zodiaco [5]. Secondo Omero Okeanos è l’origine di tutti gli dèi e, anzi, di tutte le cose. Di ogni cosa è la sorgente. «Genesi di ogni cosa e di ogni fenomeno che in sé racchiude, non ha, nel suo cerchio chiuso, né principio né fine: tali concetti anzi perdono in lui ogni validità» [6]. Il simbolo dell’anello da cui il mondo si immaginava circondato esprime al tempo stesso l’idea di fluidità e quella di costrizione: e quindi la situazione della coscienza umana all’interno di questo universo veniva avvertita come una situazione di fluidità (relativa libertà) nella costrizione (Kronos, ma anche il Fato). E d’altronde, non è un caso se gli Orfici consideravano Ananke (la Necessità) la paredra di Kronos.

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Successivamente a Okeanos, infatti, la funzione di dio del tempo venne attribuita a Kronos. Nei Saturnalia di Macrobio si legge: «Poiché il tempo è una misura fissa, esso è derivato dalle rivoluzioni del cielo. Il tempo inizia là, e a partire da quel momento si ritiene che esso sia nato da Kronos». Naturalmente, con la “nascita” del tempo (mondo del divenire) viene in esistenza anche la morte, che gli è strettamente connessa. Così Saturno-Kronos venne sempre rappresentato con una falce in mano, con la quale miete le proprie vittime. Tale immagine rimarrà in voga anche nel Medioevo nell’archetipo della Morte come «Grande Mietitrice». Tempo e Morte, dunque, appaiono così strettamente connessi da potersi considerare indivisibili — due aspetti e funzioni del sinistro dio Kronos [7].

Egualmente, in un’altra tradizione indoeuropea come quella persiano-iranica, il dio del tempo Zrvan veniva considerato la causa della decadenza e della morte ed era a volte addirittura identificato con Ahriman, il principio del male. Tuttavia, i suoi adoratori lo vedevano come la scaturigine sia di Ahura Mazdā, il principio del bene nel dualismo persiano, che del suo antagonista Ahriman: egli era dunque considerato «un dio al di là della circonferenza cosmica e del tempo che conosciamo, cosa che induce chiaramente a pensare a una divinità sovra-cosmica» [8]. In altre parole, dietro alla ‘maschera’ illusoria del tempo ci sarebbe l’eternità, immaginata come una dimensione a-temporale in cui non sussistono polarità né divisioni di alcuna sorta. E in cui, va da sé, non esiste neppure il continuum spazio-temporale che contraddistingue quello che gli ermetisti definiscono «mondo sublunare».

Kronos e Aion si presentavano, nella tradizione ellenica, come due manifestazioni della medesima forza numinosa o, più correttamente, Aion si configurava come la manifestazione pre-temporale e a-temporale di Kronos, precedente alla partizione originaria tra spazio e tempo, spirito e materia, luce e oscurità. Se, infatti, Aion rappresentava il tempo infinito (originariamente non-separato dallo spazio), Kronos era invece il tempo finito, ciclico ed inesorabile, portatore di morte e distruzione: il continuum spazio-temporale che contraddistingue il mondo del divenire in cui l’umanità trascorre la propria esistenza. Così scrive Marie-Louise Von Franz, allieva di Jung [9]:

« Aion è un essere eterno, la sfera celeste delle stelle fisse, che si riteneva fossero eterne, non soggette alla sofferenza e al cambiamento. Esso si muove in un cerchio eterno. Solo sotto la luna incomincia ad esistere il mondo di Crono, la futile, transeunte ‘sublunare’ sfera della decadenza. »

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Immagini tratte dall’episodio 7 della prima stagione di “True Detective”.

L’anelito all’eternità

Confrontiamo adesso queste dottrine tradizionali che abbiamo menzionato con le esternazioni filosofico-esistenzialiste di Rust Cohle. Nella quinta puntata egli esclama:

« In questo universo noi gestiamo il tempo in maniera lineare, in avanti… ma al di fuori del nostro spazio-tempo, da una prospettiva che sarebbe quadrimensionale, il tempo non esisterebbe… e da quella posizione, se potessimo raggiungerla, vedremmo che il nostro spazio-tempo è come appiattito, come una singola scultura la cui materia è in sovrapposizione ad ogni luogo che abbia mai occupato. […] Tutto quello che è al di fuori della nostra dimensione è eternità. L’eternità ci osserva dall’alto. Ora per noi è una sfera, ma per loro è un cerchio. »

A questa trappola della vita, a questo incubo cronico, Rust contrappone dunque la dimensione dell’eternità (la quarta dimensione), vaticinando su come verrebbe percepito l’inganno del continuum spazio-tempo dalla posizione assiale, immutabile e a-temporale da una dimensione altra e più elevata, «se potessimo raggiungerla».

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L’ossessione di Rust — e, in misura minore, degli altri personaggi della serie — per l’implacabilità dello scorrere del tempo, per il riproporsi nell’esistenza umana di determinate situazioni, per l’impossibilità di sottrarsi al proprio destino, sono invero le stesse ansie dell’uomo antico che, imprigionato nel flusso di Kronos, sognava, ascoltando le narrazioni mitiche, il ritorno della propria anima a una dimensione paradisiaca e pre-temporale, sottratta al fluire del divenire, in cui non esistono cause e effetti ma solo un’eternità a-temporale: il regno di Aion. Questa è religione, ma è anche scienza.

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Peter Paul Rubens, “Saturno divora un figlio”, 1636-1638.

Il «Tempo-che-tutto-divora»

E qui ritorniamo al simbolismo di Saturno-Kronos nella sua funzione di dio del tempo fagocitatore. Egli era, come tutti sanno, il dio che divora i propri figli. Egualmente, nell’India vedica, di Yama, dio della morte e re del dharma, si affermava: «In verità Yama è la morte. Egli si accinge a divorare tutto» [10]. Tali massime sapienziali e iniziatiche erano naturalmente collegate alla concezione, che si riscontra in numerose scuole indiane, del cosmo intero come «sacrificato e sacrificante», «divorato e divoratore».

L’esposizione più illuminante di tale dottrina si ritrova nella Scuola Śivaista. Uno dei principali appellativi di Śiva è Kāla Rudra, «il tempo-che-tutto-divora». Secondo la sapienza śivaita, tutto ciò che nasce deve morire: il principio della vita è dunque associato al tempo, ossia al principio della morte; in altri termini, dal momento che la vita si alimenta con la  morte, il dio creatore è anche il dio distruttore [11]. In ciò, il principio e la fine del cerchio coincidono. Si aggiunga, inoltre, che kāla, oltre che «tempo», significa anche «nero, oscurato, macchiato». Secondo l’esegesi di Mircea Eliade [12], «il tempo è nero perché duro, irrazionale, senza pietà. Chi vive sotto il dominio del tempo è soggetto a sofferenze di ogni specie e la sua liberazione consiste anzitutto nell’abolizione del tempo, nell’evadere dal mutamento universale».

Questa possibilità di un’evasione dal divenire — che è al tempo stesso una uscita dal tempo e una liberazione è avvertita come conseguenza della funzione escatologica che la visione di Śiva che, attraverso gli yuga e i kalpa, danzando freneticamente, continuamente distrugge e ricrea daccapo il cosmo, imprimeva nella coscienza del meditante. Riassume al meglio questa questione Eliade [13], secondo il quale la contemplazione del panorama cosmico formato da cicli che si ripetono all’infinito «terrorizza l’uomo e lo forza a convincersi che deve ricominciare miliardi di volte questa stessa esistenza evanescente e sopportare senza fine le stesse sofferenze, e questo ha per effetto di esacerbare la sua volontà di evasione, cioè di spingerlo a trascendere definitivamente la sua condizione di “esistente”». Ed è esattamente l’esperienza che Rust Cohle vivrà nel finale di stagione, dopo essere stato ferito quasi fatalmente da Childress [14]. Ed è anche lo stato a cui anela quest’ultimo, quando nella puntata finale vaticina:

«La mia ascensione mi libererà dall’eterno ripetersi. Sono prossimo alla fine. Certe mattine intravedo già il piano infernale.»

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Mircea Eliade (1907-1986).

Il «terrore del tempo» e la reintegrazione

Potremmo dire con Mircea Eliade che l’angoscia esistenziale che permea il serial televisivo di Nic Pizzolatto sia strettamente connessa alla coscienza della storicità: nel mondo moderno, caratterizzato dal fenomeno della cosiddetta «morte di Dio» e quindi dalla perdita di una concezione sacrale del mondo e dell’esistenza umana, l’assolutizzazione della storicità conduce l’uomo, ormai privato irrimediabilmente di ogni appiglio superiore, a identificarsi completamente con il divenire, e in ultimo luogo con il non-senso abissale di questa esperienza.  Sono questi temi peraltro già ricorrenti, come nota lo storico delle religioni romeno, nella tradizione indù e precisamente nell’equazione «Storia/Divenire = Māyā/Illusione = Angoscia/Terrore». A questo proposito, egli rilevò [15]:

« Affermando che l’uomo è “incatenato” dall’illusione, le filosofie indù vogliono significare che ogni esistenza è in sé essenzialmente una rottura, perché è una separazione dall’assoluto. Quando lo Yoga o il buddismo dicono che tutto è sofferenza, tutto è passeggero, anticipano il senso del “Sein und Zeit” di Heidegger, affermano cioè che la temporalità di ogni esistenza umana genera fatalmente l’angoscia e il dolore. […] L’angoscia sorge dalla scoperta tragica che l’uomo è un essere votato alla morte, nato dal nulla e in cammino verso il nulla. »

E ancora [16]:

« Siamo angosciati perché abbiamo appena scoperto che siamo, non mortali nel senso astratto del sillogismo, ma morenti, sul punto di morire, in quanto implacabilmente divorati dal tempo. »

Non tanto il fatto di vivere nel mondo del divenire, quanto piuttosto quello di esserne divorati, a causa della mancanza di un appiglio superiore a cui potersi ‘aggrappare’, rappresenta la ragione di questa angoscia moderna, perfettamente messa in scena da Pizzolatto per il tramite del personaggio principale del suo serial. Ciò deve essere letto insieme a quanto Eliade affermò altrove [17]:

« Il Tempo ciclico diventa terrificante quando cessa di essere un mezzo per arrivare alla reintegrazione di una situazione primordiale, e per ritrovare la presenza misteriosa degli dèi: è come un circolo chiuso su se stesso, che si ripete all’infinito. »

Ed è proprio tale «reintegrazione di una situazione primordiale», questo trascendimento definitivo della condizione di esistente nel mondo del divenire, suddetta evasione dal «circolo chiuso su se stesso» che rappresenta il tempo e l’esistenza umana che sperimenta Rust Cohle nell’episodio conclusivo della serie quando, in condizione comatosa, ascende al regno a-temporale e sottratto al flusso del divenire di Aion, dove avviene l’incontro con la figlioletta prematuramente deceduta. Ma di questo avremo modo di parlare prossimamente.

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Note:

[1] Marco Maculotti, “True Detective”: la Weltanschauung di Rust Cohle, AXIS mundi.

[2] Nel quinto episodio egli afferma: «Questa sensazione che la vita ti sia scivolata tra le dita come se il futuro fosse alle tue spalle come se fosse sempre stato alle tue spalle…». Anche Marty dunque, sebbene solo saltuariamente, riesce a intuire il ruolo beffardo e implacabile del tempo con riferimento ai fatti della sua vita.

[3] Cfr. Marco Maculotti, La dottrina dell’Eterno Ritorno dell’uguale: da Beroso ad Eliade, AXIS mundi.

[4] Paula Philipsson, Origini e forme del mito greco, ed. Boringhieri, Torino, 1983, p. 257.

[5] Marie-Louise von Franz, L’esperienza del tempo, ed. TEADUE, Milano, 1997, p. 10.

[6] Paula Philipsson, op. cit. pp. 257 ss.

[7] Cfr. Marco Maculotti, Tempo ciclico e tempo lineare: Kronos/Shiva, il «Tempo che tutto divora», AXIS mundi.

[8] Joscelyn Godwin, Il mito polare, ed. Mediterranee, Roma, 2001, p. 197.

[9] Marie-Louise Von Franz, op. cit., p. 38.

[10] Jaiminīya-Brāhamana, I, 28.

[11] Per questa ragione Shiva ha anche un aspetto terrificante (Bhairava) e viene chiamato con epiteti oscuri (Rudra, Il «Signore della Lacrime»; Mahākāla, Il «Tempo del Tempo», il «Gran Distruttore»): in questa veste, lo si venera soprattutto sotto l’aspetto dell’energia che manifesta: Kālī (da kāla, «tempo») la dea terribile dalla pelle nera. Per questo motivo, Kālī/Durgā venne eretta a «Signora del Tempo» e dei destini umani, in quanto rappresentante soprattutto l’aspetto distruttivo di Śiva, il «Divoratore del Tempo».

[12] Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni. Cfr. anche Mircea Eliade, “Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità”, in Immagini e simboli, ed. Jaca Book, Milano, 2015, pp. 55 ss.

[13] Mircea Eliade, Il mito dell’Eterno Ritorno, ed. Borla, Bologna, 1975, p. 152.

[14] Marco Maculotti, “True Detective”: Childress, Pan e il Wilder Mann, AXIS mundi.

[15] Mircea Eliade, “Il simbolismo religioso e la valorizzazione dell’angoscia”, in Miti, sogni e misteri p. 49.

[16] Ibidem, p. 50.

[17] Mircea Eliade, Il sacro e il profano, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 71.


 

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