L’Uomo Cervo del Carnevale di Castelnuovo e la rigenerazione della primavera

Secondo articolo dedicato al Carnevale di Castelnuovo al Volturno, sull’Appennino molisano, e alle figure principali della pantomima: “Gl’Cierv”, Martino e il Cacciatore.


di Massimiliano Palmesano

La ricerca nei territori del mondo magico delle Janare ci ha portati alla scoperta del rito dell’Uomo Cervo di Castelnuovo al Volturno [1], rito che si rinnova ogni anno l’ultima domenica di Carnevale e che porta con sé bisogni e credenze delle comunità agricolo-pastorali arcaiche dell’Appennino molisano. “Gl’Cierv” (Il Cervo) di Castelnuovo incarna, all’interno di quella che viene definita una “pantomima”, la ritualità e la spiritualità di un mondo extrastorico ed extratemporale: il rito, anzi, sta a rappresentare (e a invocare) l’eterno rinnovamento della natura, che dal freddo dei mesi invernali si accinge ad accogliere la primavera e il suo risveglio, o meglio ancora, il suo potere rigenerativo.


“Gl Cierv” tra ipotesi e “parenti illustri”

Indubbiamente il rito dell’Uomo Cervo comunica quanto appena detto ed esorcizza il prolungarsi del gelo invocando il Sole, di cui il cervo, entità maschile e cornuta, é un inequivocabile simbolo. Così anche come per la ciclica rigenerazione del suo palco di corna [2], che si rinnova ogni anno, quasi un archetipo del ciclo continuo delle stagioni e della ruota dell’anno, fenomeno che avrà sicuramente “affascinato” (nell’accezione magica del termine) la psiche e di conseguenza la visione spirituale e simbolica degli antichi europei.

È possibile anche che il rito possa avere delle connessioni più o meno verificabili con i festeggiamenti dei Lupercalia romani [3], ipotesi che a nostro avviso risulta tuttavia debole. Certamente i Lupercalia e “Gl’Cierv” hanno alla base lo stesso “sentimento spirituale”, le stesse paure da esorcizzare, gli stessi demoni da scacciare, si pongono quindi, sul piano mitogonico, su territori più che contigui. Ci sono delle isomorfie evidenti: a partire dal travestimento con pelli di capra e la corsa selvaggia e furente, il fatto che si rinnovano ciclicamente nel medesimo periodo dell’anno; è altresì probabile che le celebrazioni dei Lupercalia dei tempi remoti avessero ancora più similitudini con quelle dell’Uomo Cervo, ma questo non basta a stabilire connessioni dirette tra i due fenomeni. Non possiamo di certo stabilire con certezza se si tratti di un mito autoctono o sia arrivato da fuori, ma un dato è certo: la simbologia espressa nel rito dell’Uomo Cervo è antica, antichissima e ha “parenti” di grande prestigio: lo Stregone di Ariege, Atteone, Sarasvati che assume la forma di Rohit, Cernunno e decine di esseri e divinità cornute in giro per il globo.


“Gl’Cierv” mito teriomorfo

L’immagine più antica che possiamo trovare relativa a un vero e proprio uomo-cervo, è il cosiddetto Stregone di Ariege nelle Caverne des Trois Freres in Francia, che risale a circa 13000 anni prima dell’era cristiana [4]:

« Il dipinto raffigura un uomo rivestito di una pelle di cervo e col capo sormontato dalle corna ramificate del cervo. La pelle dell’animale ricopre tutto il corpo dell’uomo, ma le mani e i piedi sono stati dipinti come se si vedessero attraverso un tessuto trasparente; in tal modo si vuole suggerire a chi guarda il dipinto che vi è raffigurato un essere umano travestito. […] A quanto pare la cerimonia consiste in una danza che comporta movimenti dei piedi e delle mani. »

Margaret Murray ipotizza un travestimento, ma la scena, che rappresenta appunto una danza alla presenza di numerosi animali, suggerisce piuttosto un mito teriomorfo: lo Stregone è travestito, o si è temporaneamente mutato in cervo acquisendone tutte le caratteristiche magiche? È riscontrabile un teriomorfismo chiaro che pone la figura in netta relazione con il mondo animale, una vera e propria mutazione quindi: non un uomo travestito o anche un animale antropomorfo, bensì un Uomo Cervo.

Un essere del tutto simile a “Gl’Cierv” di Castelnuovo, che, all’interno di uno spazio rituale magico, smette temporaneamente di essere uomo, per assurgere a simbolo del furore del cervo e dell’inverno che sta per cessare, un essere mitico intriso delle prerogative più profonde del ciclico processo di rigenerazione della natura. La pratica di cucire al momento l’abito di pelli addosso a chi interpretava l’Uomo Cervo in uso fino agli anni ’60 del ‘900, tramanda una forma di ritualità ancestrale e magica, in cui non si cerca di infondere nell’uomo il potere dell’animale, bensì si pone un procedimento di tipo magico atto alla creazione di un essere altro: si cerca di stabilire in questo modo un collegamento materiale e palpabile con l’imperituro mondo del mito. È in questo tipo di miti teriomorfi che va ricercata la radice più antica e vera del rito de “Gl’Cierv” di Castelnuovo, in forme di religiosità arcaiche e con profonde connotazioni sciamaniche: l’Uomo Cervo, durante la sua trance, abita entrambe le dimensioni, quella della piazzetta di Castelnuovo e quella del mondo degli spiriti e delle magiche forze della natura, le fa incontrare in un frame fuori dal tempo e fuori dallo spazio, nulla più e nulla meno di quello che tramandano le tradizioni sciamaniche di ogni luogo e tempo.

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Così scrive Eveline Lot-Falck, in un passaggio pregnante per il nostro caso [5]:

« Nell’età del mito, che i popoli del Nord-Est chiamano il tempo del Grande Corvo, gli uomini erano capaci di trasformarsi in animali da vivi. Trasformazione è un termine improprio. In realtà, benché vi sia passaggio da un mondo all’altro, tra uomini e animali non c’è distinzione. La frase: “Essi divennero demoni della foresta o del mare o ‘uomini’ delle montagne”, frequente nei racconti dei ghiliachi, non implica l’idea di metamorfosi, ma quella di un passaggio nel mondo degli esseri soprannaturali. Più precisamente, vi è coesistenza di forme. L’essere si proietta simultaneamente nei due mondi, qui nel suo aspetto antropomorfo, lì in quello zoomorfo. Nessuna delle due personalità precede l’altra: sono entrambe autentiche e simultanee. »

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Martino

“Gl’Cierv” rito di caccia

Mito teriomorfo, dunque, ma non solo. Altrettanto antica all’interno del mito dell’Uomo Cervo, è la compresenza inequivocabile del rito di caccia, altra prerogativa che rafforza l’ipotesi di una radice arcaica de “Gl’Cierv” di Castelnuovo. In particolare tale tipo di ritualità è incarnata dagli altri due personaggi che prendono parte alla pantomima fin dai tempi più remoti: Martino e il Cacciatore.

Su Martino è necessario soffermarci: è lui infatti che riesce, in seguito a una vera e propria danza rituale, a imbrigliare il cervo con la sua corda, in una scena carica di significati magico-simbolici. In primis il colore: Martino è completamente bianco, candido, colore della luce e delle forze della primavera ventura che riescono, dopo una cruenta lotta, a legare il cervo; la corda e il cappio sono altri elementi di forte valenza magica che rimandano ad alcune particolari pratiche sciamaniche e alla cosiddetta magia dei nodi e dei legamenti. Il cappello bianco e a punta completa la figura, quasi una candela, la cui luce illumina il buio inverno della piazzetta di Castelnuovo; ma la cosa più interessante è la connessione, indicata da molti studi, di Martino con la figura di Pulcinella.

Anzi, Martino viene addirittura indicato come il “Pulcinella molisano”, e l’accostamento non è per nulla improbabile. Pulcinella infatti ha un antenato altrettanto illustre di quelli dell’Uomo Cervo ed è il Kikirrus della commedia Atellana, forma teatrale in cui veniva utilizzata la lingua osca improvvisando su dei canovacci per lo più licenziosi. Kikirrus, il gallo (ancora oggi in Campania una particolare specie di galletti sono chiamati chicchinielli, con evidente omofonia), è l’unica maschera teriomorfa (torna il teriomorfismo) della commedia Atellana e la stessa etimologia del termine Pulcinella, ci riporta al pulcino, cioè a un piccolo gallo.

Ora, il gallo non solo è simbolo del grano e delle messi, ma è soprattutto uno dei più potenti archetipi del mattino, matui in osco, forma da cui è con tutta probabilità derivato il teonimo Matuta: la Mater Matuta venerata dalle genti di lingua osca era la dea del mattino, delle nascite, ma soprattutto della rinascita e dell’eterna ciclica rigenerazione tenebre/luce. Proprio per questa sua connotazione il gallo è un simbolo antichissimo, una reminescenza viva di forme di cultualità pre-indoeuropee legate alla figura della cosiddetta Grande Madre: la stessa Mater Matuta fa parte di quel tipo di reminescenza mitica e cultuale, e il gallo lo ritroviamo, simbolo di ricchezza e prosperità, su numerose monete campane, soprattutto da Cales e Suessa.

Infine, anche il nome, Martino, risulta essere un chiarissimo riferimento al dio Marte e «originariamente, Marte non era il dio della guerra bensì della vegetazione. A Marte infatti si rivolgeva il contadino, pregando per la prosperità del suo grano e delle sue vigne, dei suoi alberi da frutto e dei suoi boschi» [6]. Un ulteriore elemento, dunque, che vede in Martino un protettore della natura primaverile e portatore di luce.

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Ma torniamo al rito di caccia e soprattutto alla figura del cacciatore che, oggi con un fucile, nei tempi remoti forse con una lancia o con arco e frecce, riesce ad uccidere il Cervo e la Cerva, salvo poi, assumendo una prerogativa del tutto sciamanica (ed utilizzando una tecnica del tutto sciamanica), avvicinarsi ai due animali che giacciono esanimi a terra, soffiare loro nelle orecchie e ridargli magicamente la vita. La scena non avrebbe bisogno di commenti: il rituale ancestrale, magico e sciamanico esce fuori in tutta la sua potenza, il soffio vitale — e intriso di potenza magica — è un elemento che richiama a tempi remoti e a forme di profondo rispetto tra l’uomo e l’animale, la stessa forma di “premura” che troviamo nella figura del cacciatore il quale, dopo aver in un certo senso “domato” la furia dell’inverno incarnata dall’animale, tributa allo stesso una forma di rispetto massima, facendo scendere in campo le imperscrutabili forze della magia per farlo tornare in vita.

È in questo istante particolare della pantomima che avviene la celebrazione della rigenerazione, all’interno di un momento rituale in cui non è centrale soltanto la figura dell’Uomo Cervo ma tutto l’insieme della scena. Sempre mutuando un bellissimo passo di Eveline Lot-Falck [7]:

« Che cosa pensa l’uomo degli animali, questi esseri misteriosi accanto ai quali si trova a vivere? Li vede solo come una preda, un mezzo per garantirsi la sussistenza? Certamente no. Una simile concezione materialistica è affatto estranea alla mentalità primitiva, che si muove in un mondo intriso di religiosità, in cui niente è inanimato, in cui tutto, perfino le pietre, è dotato, se non di un’anima in senso stretto, perlomeno di vita. Il primitivo non fa classificazioni, non ordina esseri e cose in categorie. Nulla è mai acquisito, definitivo. Conformemente alla concezione ciclica del tempo, il passato è sempre attuale, il divenire è un eterno inizio. [..] In questo universo mutevole non sono ancora state erette barriere tra i regni animale, vegetale, persino minerale; non vi sono che aspetti differenti, apparenze cangianti. […] Tutto ciò che esiste vive, tutto ciò che vive è unito da forti legami di solidarietà. […] Presso i popoli cacciatori, come i siberiani, l’uomo si sente intimamente legato agli animali. Tra specie umana e specie animale non è questione di superiorità, non c’è alcuna differenza essenziale. Il cacciatore considera l’animale almeno come un suo pari. […] Nella sfera della magia, attribuisce all’animale un potere non inferiore al suo. D’altra parte, l’animale è superiore all’uomo sotto uno o più aspetti: per forza fisica, agilità, finezza dell’udito e dell’olfatto, tutte qualità apprezzate dal cacciatore. Questi attribuirà un valore ancora maggiore ai poteri spirituali associati a quelle doti fisiche. Al pari dell’uomo, l’animale possiede una o più anime e un linguaggio. Di più: spesso comprende il linguaggio umano, mentre il contrario è vero solo per gli sciamani. »

Questo lungo passaggio di Lot-Falck, seppur con un campo di indagine diverso, sembra parlarci dello stesso tipo di ritualità, ma soprattutto di spiritualità, che è alla base del rito de “Gl’Cierv”, proprio nel momento in cui c’è l’incontro/scontro e rigenerazione finale tra il cervo e il cacciatore. Questi tre personaggi: Uomo Cervo, Martino e Cacciatore sono, a parere unanime, la radice essenziale e più arcaica del rito de “Gl’Cierv”, gli elementi che lasciano più che aperte le congetture relative a una fondazione antichissima del rito.

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Mamuralia, mosaico romano

“Gl’Cierv” capro espiatorio e Morte del Carnevale

È su questo nocciolo ancestrale che si è poi man mano costruito nel tempo il mito così come lo conosciamo oggi, è a partire da questo tipo di pratiche e di forme di ritualità, che gli esseri umani praticano da tempi immemori, da questa spiritualità che è profondamente diversa dal concetto di spiritualità dell’uomo contemporaneo, che ha preso piede la lunghissima storia dell’Uomo Cervo. A questo nocciolo, dicevamo, si sono poi “attaccate” nel tempo altre forme di ritualità, altri elementi cultuali, a volte sincretizzandosi, altre volte celandosi, e permettendo, grazie a questi fenomeni di mimesi cultuale, di far resistere il rito dagli attacchi portati dalla “de-paganizzazione” [8] avvenuta a partire dall’era cristiana, su tutti i miti relativi al capro espiatorio e alla cosiddetta Morte del Carnevale.

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Il cosiddetto capro espiatorio è una pratica cultuale, anch’essa antichissima che serviva in un certo qual modo ad esorcizzare e scacciare via le energie negative dall’interno del cerchio comunitario, celebrato di solito in periodi di passaggio come la fine dell’inverno, proprio come nel nostro caso, e proprio come nel caso di un antico capro espiatorio dell’antica Roma e cioè la figura di Mamurio Veturio [9]:

« Ogni anno, il 14 marzo, un uomo vestito di pelli veniva condotto per le strade di Roma, percosso con lunghe pertiche bianche, e cacciato dall’Urbe. Lo si chiamava Mamurio Veturio, cioè, “il vecchio Marte”; e, poiché la cerimonia aveva luogo il giorno precedente al primo plenilunio dell’antico anno romano (che iniziava il primo marzo), l’uomo coperto di pelli doveva rappresentare il Marte dell’anno precedente, scacciato all’inizio di quello nuovo. »

Ancora una volta, quindi, una stretta relazione con quella che è la cultualità espressa nel rito dell’Uomo Cervo, il travestimento con le pelli, la cacciata simbolica per la relativa rinascita, il riferimento a Marte come nume della vegetazione primaverile — tutti elementi che indicano nel Cervo di Castelnuovo un potentissimo simbolo, che è quindi insieme capro espiatorio e simbolo di rigenerazione. Proprio rispetto alla concezione spirituale che sta alla base della tradizione del capro espiatorio è possibile ipotizzare un innesto in epoca molto più recente della cosiddetta Morte del Carnevale: in definitiva questa esigenza spirituale collettiva espressa nel rito sarebbe riuscita a sopravvivere innestando all’interno della cerimonia antica, quella che è una vera e propria Morte del Carnevale, simile a quelle che avvengono in tutta Europa [10]. Non a caso il rito de “Gl’Cierv” si rinnova ogni ultima domenica di Carnevale.

L’eterno grido de “Gl’Cierv”

Il Cervo ancestrale, lo sciamano dei tempi remoti “parente” di quello della grotta di Ariege, il rito magico di caccia e di esorcizzazione del capro espiatorio, si sono evidentemente ammantati, per sopravvivere, della celebrazione carnevalesca e di questa Morte del Carnevale con connotazioni più popolari ma ugualmente evocative. Questa proposta di una possibile traiettoria evolutiva del rito lascia il campo a doverosi e ulteriori approfondimenti, ma appunto traccia una possibile strada diacronica per una più completa decifrazione del rito de “Gl’Cierv” di Castelnuovo.

Restano ancora tante considerazioni da fare. L’Uomo Cervo, attraverso queste lenti interpretative, ci si presenta spoglio di ogni mantello, ancorato ad un tempo arcaico senza storia, vivo nei mondi del mito e per nulla scalfito dalla modernità, pronto a incarnare, in ultima analisi, un puro e primigenio simbolo della eterna e ciclica rigenerazione della natura: una vera e propria celebrazione di questo aspetto rigenerativo e magico, che fa incontrare sullo stesso piano la furia dell’inverno, le potenze ancestrali e caotiche della natura, i riti più antichi dei popoli cacciatori e il soffio magico sciamanico, che connette l’uomo al tutto che lo circonda, gli ridona ciclicamente il suo ruolo, lo pone parte e partecipe della magia eterna della rigenerazione.


Note:

[1] Cfr. Massimiliano Palmesano, La magia delle Mainarde: sulle tracce delle Janare e dell’Uomo Cervo, su AXIS mundi
[3] Cfr. Ascanio M. Altieri, Lupercalia: le celebrazioni catartiche della Februa, su AXIS mundi
[4] Margaret A. Murray, Il Dio delle Streghe, Ubaldini Editore
[5] Eveline Lot-Falck, I riti di caccia dei popoli siberiani, Adelphi
[6] James Frazer, Il Ramo d’Oro, Newton Compton
[7] Eveline Lot-Falck, Ibidem
[9] James Frazer, Ibidem
[10] Cfr. Alberto Massaiu, Le lontane origini del Carnevale sardo, su AXIS mundi

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