Fernando Pessoa tra politica e profezia

La recente ripubblicazione di “Politica e profezia. Appunti e frammenti. 1910-1935” per le edizioni Bietti riapre la discussione sulla peculiare concezione politica del poeta portoghese, uno dei più significativi del “secolo breve”.


di Luca Siniscalco

 

Il caso Pessoa torna alla ribalta – filosofica e editoriale. Succede a quasi vent’anni dall’accesa discussione che incendiò i più prestigiosi quotidiani italiani, e che vide gli agitatori culturali impegnati nella comprensione del Pessoa politico ed esoterico contrapporsi ai soloni del poeticamente corretto, tutti tesi a normalizzare la figura plurale del genio portoghese disinnescando la bomba ideale sottesa alla sua opera. È un ritorno dovuto alla meritoria operazione culturale della casa editrice milanese Bietti, cui si deve la recente ripubblicazione di Politica e profezia. Appunti e frammenti. 1910-1935, una silloge di passi pessoani curata dal lusitanista Brunello N. De Cusatis, cimentatosi, oltre che in una sistematica revisione del lavoro, in un’ampia introduzione alla seconda edizione del volume.

È proprio qui che il caso Pessoa viene riaperto e discusso a partire da un serrato confronto con un articolo di Antonio Tabucchi, apparso sul «Corriere della Sera» nel maggio 2001. De Cusatis mostra con efficacia l’inanità dei tentativi di taluni esegeti volti a minimizzare o screditare, quasi fossero semplici proiezioni del gioco degli eteronimi pessoani, le affermazioni politiche dell’autore. Convincente è la sua tesi: dagli appunti e frammenti dello scrittore portoghese è possibile ricavare una Weltanschauung politica chiara e coerente, d’impronta schiettamente conservatrice e antidemocratica, le cui fluttuazioni nell’esposizione rispondono più a una logica di realismo politico e di sana comprensione degli scenari contingenti che a una contraddizione in termini assoluti.

Con il cattedratico spagnolo Raúl Morodo si può così asserire che la prospettiva politica pessoana è animata da alcune costanti fondamentali: «Individualismo, nazionalismo, anticattolicesimo»; d’altro canto «il suo monarchismo magico e nostalgico (governo di uno solo) farà sì che s’identifichi con le dittature militari, ma conservatrici (socialmente) e tolleranti (religione); e il suo Stato Nuovo peculiare, un sistema individualista quasi puro (Stato minimo), opposto alla divinizzazione statale e a ogni coazione partigiana». In ultima analisi, «Pessoa era un anarchico utopistico di destra».

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Pessoa, quindi, come teorico di un modello politico oggi auspicabile? Non è tanto questa l’intenzione delle nostre brevi note – né dell’edizione critica Bietti. La direzione ermeneutica qui proposta è piuttosto duplice: da un lato, e questo interessa primariamente i pessoani, siano essi studiosi o semplici appassionati, è volta a meglio comprendere, senza pregiudizi e con rigore filologico, la posizione politica di un gigante della cultura del Novecento, la cui opera non può essere ridotta a mero lirismo escapista, quando è semmai un complesso caleidoscopio, entro cui lo sguardo poetico risulta inscindibile da quello filosofico, politico, sociologico, economico, esoterico, astrologico persino; dall’altro lato, e ciò interessa ogni attento interprete del mondo che ci circonda, si intende mostrare come le acute osservazioni di Pessoa individuino alcuni nuclei tematici e metodologici che, opponendosi a certe sclerotizzazioni liberaldemocratiche e politicamente corrette, chiariscono come un pensiero dissidente possa essere a ragione difeso con argomenti acuti e pugnaci. Argomenti che, letti a distanza di un secolo, continuano a esercitare un magnetismo attrattivo, rivelando una narrazione altra e ulteriore rispetto ai paradigmi mainstream.

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Qualche esempio? L’importanza della tradizione, dato che «il grande male dei moderni è […] l’esserci allontanati dal passato senza esserci ancora adattati al futuro»; la centralità politica del retaggio culturale, essendo che, contra Marx, è la sovrastruttura, qui, a determinare la struttura, e non viceversa; la rilevanza, ad essa collegata, della conoscenza e comprensione del genius loci di una civiltà per configurarne il ruolo politico negli scenari internazionali; la possibilità – o, meglio, necessità – di leggere i fenomeni politici come fenomeni religiosi, secondo una felice intuizione che nel Novecento attraversò i più disparati autori, emergendo tanto nel Pensiero di Tradizione quanto nel dibattito sulla teologia politica:

« Nella vita delle società non vi sono altro, in fondo, che fenomeni religiosi. La Rivoluzione francese fu un fenomeno religioso. »

Con queste premesse, Pessoa considera le vicende della politica portoghese nel difficile ventennio che intercorre fra il 1910 e il 1935. Sono anni di trasformazione: dalla Monarchia Costituzionale alla Repubblica Parlamentare, dalla “Repubblica Nuova” di Sidónio Pais all’Estado Novo di Salazar – il quale, è bene ricordarlo, suscitò l’ammirazione di numerosi intellettuali, non da ultimo Mircea Eliade.

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Nel corso degli anni, non muta l’assioma di fondo della mitopoiesi politica di Pessoa, che immagina un Portogallo grande, rinato e imperiale, all’interno di un’Europa fondata su quattro pilastri: «La Cultura Greca, l’Ordinamento Romano, la Morale Cristiana e la Politica Inglese»; un Portogallo ispirato a un aristocraticismo pagano, nietzscheano, liberale e individualista, in quanto difensore del singolo di fronte alle masse plebee (in questo è evidente l’affinità di Pessoa con altri grandi conservatori del Secolo Breve, quali Borges e Gómez Dávila), inscritto nel piano escatologico del profetismo lusitano.

«Realizziamo nella nostra anima l’avvento di don Sebastiano», auspica Pessoa, riferendosi a Sebastiano I di Aviz, monarca protagonista del messianismo portoghese. «Realizziamolo come dev’essere fatto, seguendo le orme della Germania e portando l’opera più oltre – opera pagana, opera anti-umanitaria, opera di trascendenza ed elevazione attraverso quella crudeltà verso noi stessi che lo spirito di Nietzsche, in un momento di lucidità, vide essere la base di tutto il sentimento dell’impero».

È, in fondo, il Quinto Impero il vero protagonista della prosa politica pessoana. Coi suoi schemi, la sua simbologia, i suoi ritmi. All’italico mito di Roma, Pessoa sostituisce “nazionalisticamente” il mito lusitano:

« Non abbiamo bisogno dei sette colli di Roma: anche qui, a Lisbona, abbiamo sette colli. Edifichiamo su questi la nostra Chiesa. »

È il ritorno del Re, del Velato, quello che Pessoa attende e invoca. È questa la vera ragione della sua preferenza per la monarchia assoluta: al comando non vi può essere che l’Uno – esoterico e spirituale prim’ancora che politico. È alla luce di questa grande mitografia, che pure assurge a sismografia del reale ben più efficace di tante strampalate e concettose dottrine moderne, che i frammenti pessoani acquisiscono il loro pieno significato.

« Finalmente viene il Velato. È questo il nome di Osiride, le cui membra disperse – le diverse religioni – saranno allora rinite, estinta la Chiesa di Roma, nella vera Chiesa Cattolica, nella religione, infine, universale. »


3 commenti su “Fernando Pessoa tra politica e profezia

  1. Molto interessante. Il mio sforzo pluriennale, culminato nella pubblicazione recente su Leopardi, il Nietzsche italiano, e in futuro sul recupero della storia ciclica, di matrice orientale e poi stoica, si lega intimamente agli sforzi dei grandi antimoderni del Novecento: Spengler, Ortega y Gassett, Pessoa, Borges, Eliade….

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