Bada Valley: i megaliti “xenomorfi” nella giungla

Abbiamo visitato l’isola del Sulawesi, nell’arcipelago indonesiano, e ci siamo avventurati nella foresta pluviale di Lore Lindu alla ricerca dei misteriosi Patung, sculture megalitiche di aspetto solo in parte antropomorfo che costituiscono per gli archeologi (ma anche per gli autoctoni) un vero e proprio enigma. Tenendo conto delle varie ipotesi riguardanti i culti degli antenati, quelli della fertilità e supposti sacrifici umani, cercheremo di connetterle fra di loro in un quadro il più coerente possibile.


di Marco Maculotti

Ci sono siti archeologici sul nostro pianeta che, sebbene fino a pochi decenni fa fossero piuttosto complicati da raggiungere, al giorno d’oggi sono facilmente visitabili con un confortevole ed oneroso pacchetto-viaggio. Uno di questi è la cittadella di Machu Picchu, già abbandonata al tempo degli Inca, che sorge su un’altura quattromila metri sopra il livello del mare; l’ubicazione inaccessibile del sito rende palese il carattere di centro sacramentale del complesso megalitico in epoca preincaica. Eppure, al giorno d’oggi Machu Picchu si può raggiungere agevolmente in treno o in pullman, a patto di essere disposti a spendere una cifra esorbitante e di abdicare al sacro piacere del ‘pellegrinaggio’ che dovrebbe almeno un minimo accompagnare questo tipo di archeoturismo.

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Un Patung della Bada Valley visto da dietro. Tutte le foto di questo reportage sono di proprietà dell’Autore.

Un discorso completamente diverso devesi fare per il sito megalitico della Bada Valley, ubicato nel Sulawesi centrale (Sulawesi Tenggara), nell’arcipelago indonesiano, a cui è dedicato questo reportage. Per raggiungerlo da Palu occorrono quattro ore di strada per arrivare nella regione del Kulawi meridionale, quindi da lì servono altre cinque ore per attraversare in moto da cross la fitta giungla che circonda la vallata dei megaliti, rendendo il sito in questione una meta ambita solo da una piccola nicchia di persone, per lo più appassionati di archeologia misteriosa e storia esoterica della razza umana, tra cui ovviamente si annovera qualche sostenitore dell’ipotesi degli «Antichi Astronauti» [1].

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Bisogna dunque dire preventivamente addio per qualche giorno ad ogni sorta di comfort se si vuole visitare in prima persona gli inesplicabili Patung, sculture megalitiche di aspetto (più o meno) antropomorfo, disordinatamente disseminate nella piana di Bada, all’interno del Parco Nazionale di Lore Lindu. Arrivarci ci è stato possibile solo ingaggiando un abile motociclista soprannominato Valentino in virtù della sua passione sfrenata per il suo ‘omologo’ italiano Rossi (con gli adesivi del quale ha peraltro tappezzato la sua officina), il cui aspetto e piglio suggerivano la sensazione di trovarsi di fronte una specie di Tomas Milian indonesiano.

La giungla che inghiotte buona parte del Lore Lindu (e che circonda la valle dei megaliti in maniera inestricabile per chiunque sia sprovvisto di una moto adeguata) è caratterizzata da una conformazione geologica irregolare. Le stradine cementate che si imboccano in prima battuta partendo dai piccoli villaggi del Kulawi meridionale lasciano ben presto il posto a sentieri impossibili da percorrere con una moto ordinaria, che spesso sboccano in viuzze non più larghe di una spanna, in mezzo alla nuda giungla, le quali a loro volta non di rado si tramutano in rigagnoli di acqua piovana, in virtù della elevata quantità di precipitazioni che contraddistingue l’area. Più avanti, nei brevi tratti in cui la folta vegetazione non avvolge l’occhio, i tornanti costeggiano i picchi collinari: allora è possibile vedere, dopo ore di viaggio, le prime coltivazioni nella giungla, risaie e soprattutto piantagioni di caffè e cacao, ma anche di chiodi di garofano (utilizzati in Indonesia per la produzione delle caratteristiche sigarette kretek).

Ritornati nuovamente nell’intrico pluviale, di tanto in tanto è necessario guadare torrenti e veri e propri e, manovra ancora più complessa, affrontare solchi colmi di acqua piovana scavati direttamente nell’argilla dal passaggio delle moto dei precedenti visitatori, non di rado in salita. I sentieri sono inoltre lastricati in modo irregolare da rocce che emergono pericolosamente dal suolo argilloso, al punto che spesso, soprattutto durante le salite, è necessario per l’ospite scendere dal mezzo e proseguire a piedi per qualche decina di metri, mentre il guidatore si arrangia nelle manovre più improbabili, talvolta tentando di far avanzare il veicolo arginato con i movimenti più bruschi.

Attraversando la giungla vergine è impossibile non sentirsi in uno dei film di Werner Herzog musicato dai Popol Vuh, e non di rado si ha l’impressione di ricalcare le orme del Colonnello Fawcett o di altri esploratori semileggendari del passato. I versi di insetti e uccelli sono una vera e propria sinfonia cacofonica che in alcuni momenti, giungendo fino a un crescendo parossistico, dà l’idea di un concerto sovrannaturale, quasi demoniaco: allora il vento sembra smettere di soffiare e per qualche attimo sulla foresta cala un’atmosfera di immobilità assoluta, come se il tempo smettesse per un istante di seguire il suo regolare corso. Qui, l’uomo è solo con se stesso in mezzo alla natura più nuda e inospitale; qualunque minimo errore o disattenzione potrebbe essere potenzialmente fatale.

Tutta questa introduzione, sebbene forse non necessaria ai fini dell’inquadramento mitico e archeologico del sito megalitico della valle di Bada, è però utile a dare al lettore un’idea di quanto questo luogo sia arduo da raggiungere: non vi si avventuri dunque il turista sprovveduto, abituato alle comodità da agenzia viaggi e ossessionato dalla tabella di marcia. Il tempo e l’energia da spendere in questa impresa (nonché i ‘regolari’ contrattempi sempre da tenere in conto in queste contrade) non sono certo da sottovalutare, e tuttavia l’appassionato di archeologia misteriosa non si troverà certo deluso dalla ricognizione di questi territori che forse sono fra quelli, in tutto l’arcipelago indonesiano, ad essere stati meno toccati dalla globalizzazione.

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Venendo ora all’aspetto più prettamente archeologico del reportage, cosa si intende esattamente quando si parla del «sito megalitico» della Bada Valley? Più che di un sito vero e proprio, si dovrebbe parlare di un’area molto vasta (che si estende per decine se non per centinaia di chilometri a partire dal suo “epicentro”, che abbiamo visitato di persona) interessata dal ritrovamento da parte degli olandesi, all’inizio del ‘900 di decine e decine di sculture monolitiche perlopiù granitiche dall’aspetto parzialmente antropomorfo, denominate dai locali di idioma bataico (un dialetto della famiglia maleo-polinesiano) Patung o Watu, letteralmente «roccia, pietra», o Arca, «statua». Col passare dei decenni si comprese che l’area da prendere in considerazione era molto più ampia di quanto si pensasse inizialmente (le sculture sono state trovate anche nelle limitrofe valli di Napu e Besoa), al punto che ormai si parla dei megaliti della valle di Bada nell’ordine delle centinaia.

Quale antica civiltà li avesse scolpiti e disseminati in quel territorio dimenticato da dio era un vero mistero per gli archeologi e gli accademici, e nemmeno le ricerche antropologiche ed etnologiche in loco diedero alcun risultato: degli enigmatici Patung non esisteva alcuna memoria scritta e gli unici vaghi accenni erano veicolati dalla tradizione orale folklorica. In The Megalithic Culture of Indonesia (1918), W.J. Perry, citando gli studi di A.C. Kruyt, tentò di dimostrare come i megaliti del Sulawesi fossero il prodotto di una civiltà ben diversa dalle tribù native che trovarono gli esploratori europei: una sorta di colonizzazione avvenuta secoli se non millenni fa, che portò nel Sulawesi centrale sia il megalitismo che la coltivazione del riso e le pratiche di irrigazione [2]. Gli autoctoni interpellati, dal canto loro, non seppero dare informazioni utili ai fini della soluzione del mistero, limitandosi ad affermare di non essere in grado di fare il nome delle genti che ne furono gli artefici, giacché i loro stessi avi li trovarono già disseminati in tal guisa quando si insediarono nella vallata in mezzo alla giungla; sembra dunque lecito pensare a una civiltà ignota che colonizzò l’area secoli, se non addirittura millenni, prima degli attuali abitanti.

Alcune testimonianze sembrano connettere le enigmatiche sculture di pietra a pratiche cerimoniali in voga da tempo immemorabile ascrivibili all’alveo dei cosiddetti «culti degli Antenati», e in aggiunta a culti della fertilità, in special modo del riso (numerosi Patung sono effettivamente ubicati nel bel mezzo delle risaie, sebbene altri si trovino sulle collinette o nei boschetti alla periferia della vallata). Si è persino menzionata l’ipotesi di supposti sacrifici umani di fronte alle statue, ipotesi avvalorata secondo alcuni dal fatto che dietro le Arca poste in posizione verticale sono spesso visibili rocce di forma ovale singolarmente lisce, che avrebbero quindi (si ritiene) costituito una sorta di altare per le offerte sacrificali nei confronti del “demone”. In aggiunta, si fa addirittura menzione di alcune credenze secondo le quali i Patung avrebbero il potere sovrannaturale di scomparire nottetempo e di apparire magicamente in posti differenti da quelli in cui erano ubicati: una diceria, questa, che si ritrova in altre parti del mondo, dalle nostre Alpi alle isole britanniche, come avremo modo di sottolineare nel proseguo del reportage.

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Ora, si noti innanzitutto che, sebbene ambigue e apparentemente slegate tra di loro, tali ipotesi denotano un substrato comune: in tutto il Sud-Est asiatico si può rintracciare un ambito mitico-folklorico che ha a che fare con gli Antenati, la Roccia e la Fertilità dei campi (e in particolar modo delle risaie). Roland B. Dixon riporta la credenza diffusa nel Sulawesi settentrionale che i primi esseri mitici siano scaturiti dalla frantumazione di una roccia caduta dal cielo [3]; credenza che si ritrova anche i fra i Tonga e i Samoani della Polinesia e in Melanesia. Ma soprattutto, si ritiene che gli spiriti degli Antenati, avi defunti e divenuti numi tutelari dei rispettivi nuclei clanico-familiari, abbiano il potere di influire sui raccolti: conferendone di abbondanti se riveriti nel modo dettato dalla tradizione, distruggendoli se tali misure rituali non sono state prese in maniera doverosa (di questo avremo modo di parlare diffusamente in futuro, trattando il tema delle usanze funerarie nel Sulawesi meridionale e nell’isola di Sumba, nel Nusa Tunggara orientale).

Ciò che qui va rilevato è che l’usanza di lasciare (o immettere) blocchi megalitici nei campi coltivati ai fini di favorire un raccolto migliore non si trova solo in Indonesia, ma anche in altre parti del Pacifico: per esempio nella Nuova Caledonia e nell’Isola Rossell (estremità orientale della Nuova Guinea), dove le pietre poste al limite dei campi «hanno una specie di doppia esistenza… in un altro luogo è un essere umano o per meglio dire lo spirito di un dio»; così pure nelle Nuove Ebridi, dove grossi blocchi di pietra «sono riguardati come le forme corporali degli antenati» [4]E, addirittura, credenze simili si ritrovano tuttora in paesi notoriamente monoteistici (che hanno tuttavia mantenuto certi residui arcaici), come in Galles (Lewis Spence attestò che quando i contadini gallesi tentano di rimuovere le standing stones dai propri campi, improvvise tempeste interrompono la loro opera [5]), o come in Marocco, dove Louis Charpentier negli anni ’70, imbattutosi in un terreno disseminato di massi, domandò al proprietario perché non li sgombrasse [6]:

« Mi guardò come se Allah mi avesse negato ogni lume d’intelletto… Non sapevo, dunque, che quando Allah mandava l’acqua, quella del Cielo e quella della Luna (la rugiada) erano le pietre a custodirla, e che senza pietre il suo campo sarebbe stato arido come la strada? »

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Abbiamo anche menzionato l’ipotesi dell’esistenza, in un passato remoto, di sacrifici umani ai Patung. Effettivamente, studiando le tradizioni di molti popoli “primitivi”, parrebbe che inizialmente si sacrificassero vittime umane per propiziarsi il raccolto; l’interramento dei megaliti si configurerebbe allora, forse, come una pratica sostitutiva più recente. D’altronde, gli studi etnografici sull’area indonesiana ci danno delle conferme in questa direzione; W.J. Perry, ad esempio, registrò la storicità della consuetudine dei sacrifici umani celebrati in onore della «Madre del Riso» (Rice-Mother) [7] fra i Toraja del Sulawesi, oltre che presso i Batta della Sumatra, i Kupang di Timor, le popolazioni indigene della Sumba occidentale e certe tribù del Borneo [8].

Ma, particolare ancora più importante ai fini del nostro reportage, egli riporta anche tradizioni orali di sacrifici umani per onorare determinate «pietre sacre» collazionate proprio nel Sulawesi centrale, precisamente dove è ubicata la Bada Valley. Viene inoltre testimoniato che le tribù Toraja di quest’area consideravano di primaria importanza la «caccia alla teste» (head-hunting), che ponevano in connessione con l’agricoltura: il possesso di almeno una testa da sotterrare nella risaia, al momento della semina, era considerata necessaria per ottenere un buon raccolto [9]. La necessità, sentita da molte culture “primitive” (ma non solo), di compiere ritualmente uno o più sacrifici umani per favorire la crescita del raccolto è stata sviscerata, senza limitazioni geografiche, da sir. James Frazer nella sua opera più corposa, The Golden Bough (1922), da cui, a titolo di esempio, riportiamo nelle note (per non appesantire troppo la nostra relazione) alcune testimonianze di queste consuetudini rituali dell’area americana [10], africana e del Sud-Est asiatico [11].

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Ciò detto, un altro appunto che ci preme sottolineare riguarda il fatto che nelle tradizioni folklorico-leggendarie delle aree più disparate (si potrebbe fare ad esempio l’esempio dell’area andina, in passato ampiamente discussa sulle nostre pagine [12]) il termine solitamente tradotto come «Antenati» esotericamente non stia semplicemente ad indicare gli avi defunti, collegandosi piuttosto all’idea di una civiltà pre-umana, precedente alla nostra e ormai scomparsa. Gli «Ante-nati» (coloro che sono «nati prima») denotano in questo senso gli antidiluviani, quelli «dell’età prima della nostra», una stirpe dimenticata nella storia del mondo ufficialmente accettata dagli accademici ma ancora ben viva nelle tradizioni folkloriche.

Queste ultime narrano la loro improvvisa scomparsa adducendo all’azione catastrofica di qualche antico cataclisma, diluviale o di altri tipi (ad es. una «pioggia di fuoco» dal cielo). Si tratta perlopiù di personaggi mitici e titanici che si contraddistinguono ora come eroi culturali e civilizzatori, ora come giganti maledetti dalle forze divine in virtù di una «pecca rituale» che il più delle volte ha a che fare con abitudini sregolate, di stampo morale, sessuale e alimentare (è noto il topos del gigante cannibale, sin dal Polifemo della tradizione omerica).

Nell’area del Sulawesi le credenze locali sembrano propendere più per la seconda eventualità: pretendono infatti che le statue siano ciò che rimane di una stirpe maledetta che abitò l’area in tempi antichissimi, i cui membri furono alfine tramutati in pietra per i loro misfatti (la «pecca rituale» di cui sopra, una sorta di hybris nei confronti delle potenze superne), condannati a dimorare nei Patung, nella solitudine profonda della giungla, per l’eternità. Anche qui non si può che sottolineare la pressoché assoluta concordanza con varie tradizioni, tra cui quella andina, secondo la quale i giganti di un’èra passata furono trasformati in pietra dal dio Viracocha per il loro comportamento abominevole; ma leggende simili si trovano un po’ ovunque, dalle Alpi all’area mongolo-siberiana, fin giù in Australia.

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A titolo di esempio, un confronto con la tradizione britannica qui cade a pennello. Lewis Spence attestò che in alcune parte dell’arcipelago britannico le standing stones sono considerate «effigi» o «statue» di persone defunte, spesso sepolte al di sotto di esse. In Irlanda e nelle Highlands meridionali scozzesi sono chiamate Faer Breagach, vale a dire «uomini falsi». Nell’isola di Lewis si tramanda che questi monoliti siano uomini tramutati in pietra da qualche incantesimo, e le denominano egualmente «uomini falsi» (Fir Chreig). In più, come accennato in precedenza con riguardo al sito archeologico in analisi in questa sede, anche per quanto riguarda l’area geografica britannica si ritiene che alcune di queste standing stones possano spostarsi a mezzanotte, e addirittura danzare in certe speciali occasioni [13].

Nell’ambito delle tradizioni mitiche della Bada Valley alcuni tra i Patung più noti hanno addirittura nomi e leggende a loro associati. Quello denominato Tokala’ea era secondo il folklore locale uno stupratore, e i segni profondi che si possono vedere nella roccia altro non sono che le coltellate che gli vennero inflitte prima della definitiva trasformazione in roccia. Un’altra Arca, chiamata Tadulako, è detta essere stato un individuo rispettato in tutta la contrada… prima di rubare con l’inganno il raccolto dalle risaie dei suoi vicini.

Il Palindo, con i suoi quattro metri e mezzo di altezza, è il Patung più maestoso e impressionante della Bada Valley. Lo stile che lo contraddistingue è il medesimo delle altre sculture umanoidi del sito, ma qui risalta soprattutto la piattezza assoluta del volto, simile a quello di un barbagianni, che lo distacca sensibilmente da una mera rappresentazione antropomorfa stricto sensu. Il ciclopico blocco litico in cui è stato intagliato, per di più — per aumentare ulteriormente l’enigma che fa scervellare da oltre un secolo gli archeologi  proviene da un tipo di roccia che non è presente nella valle: chi lo abbia portato in loco, come e in quale epoca rappresenta un vero e proprio mistero che apre sconvolgenti spiragli verso le ipotesi più ardite, quali per esempio quelle proprie della cosiddetta corrente del «Realismo Fantastico» di Pauwels e Bergier [14].

La datazione dei megaliti è d’altronde incerta, non avendo le ipotesi degli esperti per ora condotto a qualsivoglia risposta definitiva. Alcuni parlano di un’età di mille anni, altri di 3.400, altri ancora di almeno 5.000. C’è chi li mette in relazione con la cultura megalitica rintracciabile a macchia di leopardo nel Laos, in Cambogia, nelle Filippine e in tutta l’Indonesia (Timor, Sulawesi, Sumba, Giava, Sumatra, ecc.). I Patung antropomorfi più ‘caratteristici’, di cui si sono trovati diversi esemplari morfologicamente simili, ricordano però anche statue antropomorfe di culture distanti nello spazio e nel tempo, come quelle delle Isole Marchesi nel Pacifico e ancora di più quella precolombiana di San Agustín, nell’odierna Colombia. I più fanno notare, in maniera più scontata, la loro somiglianza con i Muai dell’Isola di Pasqua, di origine e utilizzo altrettanto enigmatico.

Un altro dei megaliti più singolari della valle di Bada è il così nominato Baula, letteralmente «Bufalo», chiamato anche «il Sarcofago». Della lunghezza di oltre tre metri, esso si contraddistingue dagli altri per la sua caratteristica di svilupparsi in orizzontale anziché in verticale, nonché per il fatto che la sua superficie sia puntellata da solchi spiraliformi, circolari e lineari che sembrano ricordare l’arte petroglifica del Paleolitico eurasiatico, ma anche e soprattutto gli altrettanto misteriosi petroglifi amazzonici (il più noto esempio dei quali è dato dalla gargantuesca Pedra Pintada). Qui va sottolineato come il bufalo, nella tradizione del Sulawesi di cui il popolo Toraja è tutt’oggi il massimo rappresentante, e più in generale dell’arcipelago indonesiano (per es. nell’isola di Sumba) appare connesso all’ambito rituale della fertilità e ancora di più al culto degli avi defunti, con simbolismo tombale-funerario annesso (come detto, ne parleremo in futuro).

Eppure, talvolta viene da pensare che i nomi affibiati ai megaliti della valle di Bada ora dagli archeologici occidentali, ora dagli autoctoni, siano stati dati troppo arbitrariamente: il caso di Baula è paradigmatico in questo senso. Ben lungi dall’assomigliare a un bufalo, sia nella forma del tutto ovale, sia soprattutto nei lineamenti ‘facciali’ antropomorfi, lo sconcertante essere ritratto nel megalite pare più essere imparentato con le specie ittiche (non è da escludere che ricoprisse una funzione cerimoniale in connessione con le «acque sotterranee», cui si riconosceva il potere di rendere copiosi i raccolti di riso). Impossibile comunque per il sottoscritto, nel trovarmelo improvvisamente davanti nel bel mezzo delle risaie allagate, non avvertire nel profondo l’impressione di essere al cospetto di un idolo di Dagon, divinità acquatica e abissale del terrifico pantheon lovecraftiano [15], ispirata all’omonimo dio della fertilità mesopotamico-cananita.

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Un ulteriore fatto singolare che ha messo in crisi gli archeologi è la totale assenza di attrezzi per lavorare la pietra e di resti di insediamenti antichi in tutta la vallata. Da qui l’ipotesi (ancora più inaccettabile per gli accademici) che la lavorazione dei megaliti sia avvenuta in un altro luogo, e che questi siano stati poi trasportati nella valle di Bada solo in un secondo momento, da misteriosi coloni che non si preoccuparono neppure di stanziarsi continuativamente nell’area. Sebbene per i Patung più minuti si possa forse formulare un’ipotesi di tal guisa, davanti alle statue più grandi non si può che escludere una spiegazione simile, per non parlare poi del gargantuesco Palindo di oltre quattro metri di altezza!

Peraltro, giungendo alla valle attraverso la giungla, si può constatare come i massi granitici da cui possono essere state ricavate le sculture, disseminati nell’intrico pluviale e sovente ubicati presso fiumiciattoli e torrenti, si incontrino a partire da almeno quarantacinque minuti di viaggio (in motocross) dalla valle stessa; il che equivale a un periodo di tempo molto più lungo a piedi, giacché naturalmente si suppone che i misteriosi coloni non usassero mezzi di locomozione. Questo particolare, in aggiunta al carattere assolutamente impervio dei sentieri da imboccare per giungere in loco, rende l’ipotesi di tale «trasporto miracoloso» più problematica che altro. È curioso anche come alcuni di questi massi disseminati nella giungla di Lore Lindu presentino delle incavature che, sebbene possano essere considerate di origine naturale, talvolta danno l’idea, sotto particolari condizioni di luce, di presentare caratteristiche in comune con i Patung eretti nella valle. 

Purtroppo, gli autoctoni non hanno saputo fornirmi spiegazioni di alcun tipo: sarebbe stato senz’altro utile imparare l’idioma bahasa indonesiano, dal momento che fra tutti i locali incontrati solo uno, proprietario dell’unica ‘loggia turistica’ della valle, conosceva l’inglese. A suo parere, non si può azzardare datazione alcuna per gli enigmatici megaliti, aggiungendo che, per quanto gli riguarda, possono risalire anche a 100.000 anni fa! Sostiene che non vi è nulla di simile nell’intera Sulawesi e azzarda che, se dovesse operare una comparazione con qualche altra cultura, gli verrebbero in mente le civiltà precolombiane del Messico e del Sudamerica.

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Mappa dei Patung e degli altri megaliti presenti nella Bada Valley, in un arco di 30 km.

La mappa che vedete qui sopra è stata disegnata da lui e da sua moglie, veri appassionati del mistero dei Patung: in seguito a numerose ricognizioni, essi hanno proceduto a segnare i punti in cui sono state rinvenute le statue antropomorfe e altre costruzioni megalitiche (kalamba, dolmen, ecc.).  Fra tutti quelli individuati, durante la mia gita della durata di due giorni, personalmente ho avuto modo di visitare solo quelli ubicati nella Bada Valley vera e propria (si può notare dalla mappa come alcuni megaliti distino dall’epicentro anche 30 km). Nondimeno, questa mappa è di estremo interesse poiché dalla sua consultazione si può notare come la disposizione dei Patung nella Bada Valley (vale a dire quelli visitati dallo scrivente) sembri seguire pedissequamente e specularmente la disposizione delle stelle della costellazione dell’Orsa Minore. Mistero ulteriore che si aggiunge a quelli già esposti.

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Un ultimo enigma, con cui terminiamo il nostro reportage, riguarda quelle opere ugualmente megalitiche disseminate nella Bada Valley (e valli limitrofe, menzionate sopra), cui i nativi danno il nome di kalamba. Si tratta di grosse urne di pietra circolari, scavate direttamente nella roccia, il cui diametro va dal metro a oltre 3 metri; di alcune sono stati ritrovati anche i “coperchi”. Alcuni archeologi hanno ipotizzato che si tratti di vasche utilizzate dai membri della classe aristocratica dell’antica civiltà (ma di quale civiltà si tratta non lo sanno dire) per le abluzioni. A parere dello scrivente, potrebbero piuttosto essere viste come contenitori per la raccolta di acqua piovana ai fini di una funzione sacrale, avente a che fare con la fertilità delle risaie: come ai Patung si delegava il compito di incanalare le «acque sotterranee», alle kalamba con tutta probabilità si assegnava quello di raccogliere quelle superne.

La kalamba da me visionata, ubicata all’interno di un terreno privato di agricoltori locali, nelle vicinanze del Patung denominato Oba («Scimmia»), si presentava di dimensioni ridotte. Tuttavia ne esistono altre, disseminate nelle valli limitrofe, decisamente più grandi nonché finemente decorate, a volte con bassorilievi di volti antropomorfi nel medesimo stile dei Patung; anche i rispettivi “coperchi” [16] sono abbelliti dalle stesse decorazioni in rilevo (una rapida ricerca su un motore di ricerca qualsiasi può facilmente sopperire alla mancanza di immagini di prima mano, non avendoli io potuti visitare di persona). Presa visione delle decorazioni dei kalamba più distanti dall’epicentro della valle di Bada, non si può in alcun modo negare che gli uni come gli altri siano opera della stessa ignota civiltà, né si può mettere in dubbio l’utilizzo rituale congiunto degli uni e degli altri. Di quale civiltà si tratti, come si è detto, e in quale epoca essi servivano alle pratiche rituali, rimangono le incognite più grandi.

M.M.

P.S. — I ringraziamenti per la realizzazione di questo reportage vanno a Gigi, con cui ho girato il Sulawesi (nonché buona parte dell’arcipelago indonesiano), a Valentino per la corsa e l’avventura e a Thio per l’aiuto logistico.

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L’Autore presso la Bada Valley.

Note:

[1] Cfr. M. MARTINI, Non è terrestre (e non pretende di esserlo), su AXIS mundi

[2] Cit. in W.J. PERRY, The Children of the Sun. A Study in the Early History of Civilization, Methuen & Co., London 1923, p. 89

[3] R.B. DIXON, The Mythology of All Races. Vol. IX, Marshall Jones Company, Boston 1916, p. 158

[4] E. LEONARDI, Le origini dell’uomo, Il Corbaccio, Milano 1937, p. 358

[5] L. SPENCE, British Fairy Origins, Watts & Co., London 1946, p. 182

[6] L. CHARPENTIER, I giganti e il mistero delle origini, Edizioni L’Età dell’Acquario/Lindau, Torino 2007, p. 192

[7] Sulla «Madre del Riso», cfr. J. FRAZER, Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1973, pp. 657 ss., dove l’antropologo inglese ne attesta la venerazione fra i Toraja del Sulawesi (ai tempi denominato Celebes): «[…] i Toradja del Celebes centrale che osservano anch’essi alla mietitura l’usanza della madre del riso, la considerano come la madre effettiva di tutto il raccolto e la conservano quindi con grande cura affinché in sua assenza l’accumulata provvista di riso non si disperda e sparisca» [p. 660]

[8] W.J. PERRY, op. cit., p. 228

[9] Ivi, pp. 229-230

[10] «Gli Indiani di Guayaquil, nell’Ecuador, solevano sacrificare sangue umano e cuori umani quando seminavano i campi. Gli abitanti di Cariar (ora Cuenca nell’Ecuador) solevano sacrificare ogni anno alla mietitura cento fanciulli. I re di Quito, gli Incas del Perù e per lungo tempo gli Spagnoli non riuscirono a sopprimere questo sanguinoso rito. In una festa messicana della mietitura, quando si aprivano al sole i primi frutti della stagione si metteva un delinquente tra due immensi pietroni bilanciati uno incontro all’altro e lo si schiacciava facendolo cadere insieme ai pietroni. Si seppellivano i suoi resti e si faceva una danza e una festa. Questo sacrificio si chiamava “l’incontro delle pietre”. […] I Pauni sacrificavano ogni anno, a primavera, una vittima umana, quando seminavano i campi. […] Credevano che un’omissione di questo sacrificio sarebbe stata seguita dalla perdita totale del raccolto del granturco, dei fagioli e delle zucche» [J. FRAZER, op. cit., p. 682]

[11] «Una regina dell’Africa orientale soleva sacrificare nel mese di marzo un uomo o una donna. Questi venivano uccisi con vanghe e zappe e i loro corpi sepolti in mezzo a un campo dissodato di recente. A Lagos nella Guinea era uso impalare ogni anno una fanciulla viva, poco dopo l’equinozio di primavera, per assicurarsi dei buoni raccolti. […] I Marimo, una tribù bechuana, sacrificano un essere umano pei loro raccolti. Le vittima scelta è generalmente un uomo basso e grasso. Egli vien preso con la forza o ubriacato e portato ai campi dove è ucciso fra il grano per servire, come dicono, da “seme”. Il suo sangue coagulato al sole è bruciato insieme all’osso frontale con la pelle attaccata e il cervello; le ceneri vengono sparse sul terreno per fertilizzarlo. […] I Bagobo di Mindanao, una delle isole Filippine, offrono un sacrificio umano prima di seminare il riso. […] Gli indigeni del Bontoc, nell’interno di Luzon, un’altra delle Filippine, sono degli appassionati cacciatori di teste. La principale stagione per andare a caccia di teste è il tempo della semina e della maturazione del riso. Per far venir bene il raccolto ogni podere deve procurarsi almeno una testa umana alla piantagione e un’altra alla semina» [J. FRAZER, op. cit., p. 684]

[12] Cfr. M. MACULOTTI, Umanità antidiluviane, giganti, “gentili”, su AXIS mundi

[13] L. SPENCE, op. cit., p. 181

[14] Cfr. L. PAUWELS & J. BERGIER, Il mattino dei maghi, Oscar Mondadori, Milano 1960

[15] Cfr. A. SCARABELLI, Bestie, uomini o dèi: i culti alieni di H. P. Lovecraft, su AXIS mundi

[16] I caratteristici “coperchi” dei kalamba si possono visionare a p. 39 di T. STEIMER-HERBET, Indonesian Megaliths. A forgotten cultural heritage, Archaeopress Archaeology, Oxford 2018


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