Morire come un dio: lo strano caso del capitano Cook

L’omicidio rituale del capitano James Cook da parte dei nativi hawaiiani è stato al centro, negli anni Novanta, di una polemica “postmodernista” tra un sociologo dello Sri Lanka, Gananath Obeyesekere, e l’emerito professore statunitense Marshall Sahlins, famoso antropologo del Pacifico e dell’età della pietra.


di Stefano Malatesta
pubblicato su la Repubblica, 16 marzo 1997

 

L’uomo bianco che viene preso per un dio dai nativi (sarà più corretto mettere il termine nella stretta sorveglianza delle virgolette?) è una costante dei libri e dei film di avventura e dei testi di antropologia e di storia delle scoperte. Nell’Uomo che volle diventare re, il racconto di Kipling, un simpatico, megalomane bricconcello vittoriano è accolto come una divinità, reincarnazione di Alessandro Magno, dai cafiri dell’Hindukush e crede di diventare ricco fino al momento in cui tutto precipita. Le storie del Pacifico ci dicono che il grande capitano Cook, quando arrivò alle Hawaii con la “Resolution” e la “Discovery”, durante il suo terzo e ultimo viaggio, venne festeggiato come il dio Lono. Per non parlare di Hérnan Cortés, che Montezuma credeva fosse un dio azteco mandato a castigarlo e a chiudere un ciclo, secondo quanto raccontano gli stessi poeti nahuatl.

Ma sono credibili queste interpretazioni del pensiero selvaggio? O non sono dei miti, da sempre inflitti alle popolazioni indigene e ricamati dagli studiosi occidentali, che mascherano il loro connaturato imperialismo e senso di superiorità dietro teorie solo in apparenza scientifiche e obiettive? E gli hawaiiani (i cafiri, i messicani), sono stati così poco intelligenti, così privi di senso comune e pratico e di razionalità, da lasciarsi abbindolare? Da non capire che quei marinai puzzolenti e carnalmente affamati di donne, così diversi da loro, non erano di natura divina?

Intorno a queste domande non secondarie, da qualche anno si è aperta una furente polemica che, partita da Lono, dalle credenze degli hawaiiani, e da come venne ucciso Cook e perché, ha finito per mettere in discussione tutto il rapporto tra antropologia e nativi e la stessa antropologia come scienza. I due protagonisti dello scontro sono un sociologo dello Sri Lanka, Gananath Obeyesekere, che in quanto “nativo” anche lui, sentendosi solidale con tutti i nativi e credendo di avere una visione privilegiata del pensiero hawaiiano (presumibilmente, quello che accomuna cingalesi e hawaiiani deriva invece dalle influenze culturali dell’Occidente), nel 1992 ha scritto un libro, The Apotheosis of Captain Cook, attaccando la pretesa degli occidentali, visti come agenti dell’imperialismo, d’interpretare una storia non loro. E l’emerito professore Marshall Sahlins, americano, famoso antropologo del Pacifico e dell’età della pietra.

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Nathaniel Dance-Holland, ritratto del capitano James Cook, 1775

Chiamato in prima persona a rispondere di svariate malefatte, Sahlins ha risposto con un saggio uscito in questi giorni per Donzelli: Capitan Cook, per esempio (pagg. 287, lire 38.000). Non si capiscono bene i veri termini della polemica se non facendo riferimento ad una ventata postmodernista, chiamiamola così, che ha investito l’antropologia negli ultimi dieci anni. Come spiega Francesca Giusti nella presentazione del libro, questa nuova visione critica, poi abbastanza diversificata, si basa grosso modo sulla convinzione che la storia dell’antropologia non possa essere studiata separatamente dalla storia del colonialismo (la categoria interpretativa adatta sarebbe il conflitto, perché si tratta, in sostanza, di vicende di ferro e di fuoco). E che vadano recuperate tutte le componenti autobiografiche e soggettive, annullate da una pretesa di oggettività del sapere cosidetto scientifico.

Ora la ricerca antropologica al servizio dell’imperialismo c’è sempre stata. I primi, sensibili osservatori delle culture primitive appartenevano quasi tutti a paesi colonialisti: molti avevano in mente, come fine ultimo, la conversione dei nativi ad una religione considerata superiore e spesso erano pagati dai governi perché una conoscenza approfondita delle popolazioni soggette significava un controllo più sicuro. Ma tutto questo non ha significato che i loro lavori non fossero validi per definizione.

Anni fa capitai tra i Bassari, una popolazione che vive all’interno del Senegal, accompagnato da uno strano personaggio, un italiano ex cacciatore di frodo, diventato pittore a Dakar, che parlava la loro lingua. Nel villaggio incontrammo un’antropologa francese del Musée de l’Homme di Parigi che batteva quelle parti da trent’anni e che veniva ancora chiamata “l’etrangère“. L’italiano, in perfetta confidenza con gli uomini e soprattutto con le donne Bassari, mi disse ridendo che i locali si seccavano per tutte quelle domande che l’antropologa faceva e che per togliersela di torno s’inventavano sul momento delle storie. Avevano un fiuto straordinario per adattare i loro racconti alle aspettative della francese.

Ma ho anche conosciuto numerosi altri antropologi che avevano fatto un lavoro splendido: tutto dipendeva dalle loro capacità interpretative, dalla loro pazienza, e dall’amore che si vedeva trasparire verso i soggetti studiati. Le obiezioni dell’antropologia postmodernista sono serie, ma certamente non nuove: si può dire che abbiano accompagnato da sempre, sotterraneamente o in superficie, la ricerca sul campo.

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Johann Zoffany, “The death of Captain James Cook”

Nel caso in questione questa causa importante è stata difesa da un avvocato inetto, che si è andato a scegliere un terreno su cui non aveva sufficiente competenza. Il libro di Sahlins è nello stesso tempo una risposta devastante, un bellissimo saggio di antropologia, fin troppo tecnico (per il furore di distruggere il suo avversario anche nei minimi dettagli). E una rivendicazione della legittimità dei nativi d’interpretare i fenomeni come relazione tra cosmologia e storia, in senso genericamente mitico, e della capacità degli studiosi occidentali di comprendere culture anche molto diverse dalla loro. Il realismo borghese basato sul buon senso, se preso come concetto storiografico valido ovunque, è una violenza che si fa contro altre epoche e altri costumi.

La fine del 1778 alle Hawaii coincideva con la festa del Makahiki, l’annuale rinascita della natura, rappresentata come un dramma cosmico primordiale, che prevedeva ad un certo punto l’arrivo di Lono, dio esiliato in quanto re deposto. Quando le navi di Cook comparvero nella baia di Kealakekua, gli hawaiiani gli tributarono l’accoglienza più imponente e festosa mai accordata ad un navigatore europeo, come concordano tutti gli storici. «Ci ancorammo su fondali di sabbia nera, tra un numero sterminato di canoe i cui occupanti cantavano e manifestavano la loro gioia», dice il diario di bordo.

La spiaggia era sommersa di folla, le canoe erano cariche di maialini, frutti dell’albero del pane e di tutti i prodotti dell’isola. Una volta a bordo, la gente continuava a cantare, a ballare, urlando, battendo le mani e salendo e scendendo in continuazione dalle navi e le donne, come riferirà poi il medico di bordo, sembravano particolarmente ansiose di congiungersi con i marinai. Una simile dimensione epifanica poteva essere spiegata solo con l’arrivo di un dio.

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John Webber, “The Death of Captain Cook”, 1784

Cook ripartì il 3 febbraio, quando il Makahiki era appena terminato. Sfortunatamente una tempesta abbatté l’albero di trinchetto della “Resolution” e gli inglesi furono costretti a rientrare per le riparazioni nella baia di Kealakekua. Stavolta ad accoglierli c’erano poche centinaia di persone, dall’aria perplessa e non molto festosa. Cominciarono i furti, sempre più numerosi e i capi erano molto insistenti nel chiedere il motivo del loro ritorno e la storia della rottura del trinchetto non li convinceva. Obeyesekere ha interpretato il mutato atteggiamento, che porterà all’uccisione di Cook, con la brutalità dei marinai, con l’infrazione di un tabù costituito da una palizzata sacra che gli inglesi avrebbero bruciato. E con l’insofferenza, diventata ostilità, per le continue richieste di viveri da parte di Cook, che avevano provocato la fine delle scorte degli hawaiiani (ma in realtà nell’isola funzionava il più esteso e produttivo sistema agricolo del Pacifico).

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Comunque il problema non era né empirico, né pratico, come spiega molto bene Sahlins: era cosmologico. I polinesiani avevano uno strano rapporto di sottomissione e opposizione con il divino. Lono era invitato nell’ambito umano per concedere la vita e veniva poi bandito, in modo che l’umanità potesse impossessarsi dei benefici divini. Un suo ritorno subito dopo la partenza era sinistro, perché poteva significare che voleva riprendersi il potere che aveva ceduto al re.

La decisione di Cook di catturare il re Kalani’opu’u per ottenere la restituzione di una lancia rubata fu catastrofica e interpretata in queste senso, producendo nell’immagine del capitano una metamorfosi: da essere degno di venerazione a nemico. Gli hawaiiani furono costretti ad ucciderlo. Ma 48 ore dopo la sua morte, due sacerdoti addetti al culto di Lono raggiunsero di notte la “Resolution” e offersero piangendo agli inglesi un pezzo di carne, la parte alta della coscia di Cook.

Il saggio di Sahlins, attraverso infinite prove ben argomentate, non lascia dubbi sul fatto che questa sia la giusta interpretazione della uccisione del più grande esploratore del Pacifico (oltretutto gli hawaiiani non erano i soli a vedere gli europei del “primo contatto” come esseri soprannaturali). È paradossale che Obeyesekere, nella sua pretesa difesa dei nativi, capovolga gli abituali pregiudizi, attribuendo a loro tutta la razionalità che gli occidentali considerano la più alta forma di pensiero, mentre dota gli europei, antropologi compresi, di un atteggiamento irrazionale, che ha lo scopo di riproporre il disprezzato mito, in quanto di genere nativo. Non accorgendosi di riproporre, negando agli hawaiiani la loro visione delle cose, l’egemonia imperialistica mascherata da resistenza dei popoli subalterni.


 

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