“Altiplano”: le doglie della Pachamama e dell’Anima Mundi

Il film di Brosens e Woodworth è molto più di un accorato appello alla conservazione delle risorse naturali del nostro pianeta: nel dramma di Saturnina convergono simbolismi e concezioni sacre del Nuovo e del Vecchio Mondo, che permettono di affrontare la questione su più livelli intimamente connessi fra loro.


di Marco Maculotti

Uscito nelle sale cinematografiche dieci anni fa, Altiplano dei due registi belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth, sebbene colpevolmente piuttosto ignorato a livello internazionale, può essere indicato senza remore come una delle pellicole più pregnanti degli ultimi decenni a livello simbolico ed esoterico riguardanti la drammatica questione dell’avvelenamento della terra e delle sue risorse naturali — tematica, come tutti sappiamo, al centro dell’attenzione globale al momento in cui ne scriviamo.

Basato su eventi reali che si verificarono nel 2008 nel villaggio andino di Choropampa (anche il destino dei due personaggi centrali, Saturnina e Ignacio, è stato ricavato da aneddoti e testimonianze dei campesinos locali e dei medici che si occuparono del caso), Altiplano riesce pienamente a proporre, coniugando simbolismi della tradizione andina (il concetto di huaca, la venerazione della Pachamama “mascherata” da Vergine Maria, l’escatologia millenaristica della «Terra Senza Male») e di quella occidentale (Maya come Anima Mundi, la funzione ambivalente ma trasformativa del Mercurio), una visione più ampia e “sottile” della problematica, che non si limita all’aspetto meramente materiale ed empirico della questione.

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Il personaggio principale è Saturnina, ragazza nativa del villaggio peruviano di Turubamba: nella sua figura esemplare converge il fato ineluttabile con tutta la sua violenza, elevandola al tempo stesso al ruolo di vittima e di carnefice, di santa e di dannata — protagonista che ricorda in parte quelle di altri due film ambientati sulle Ande: La teta asustada (Il canto di Paloma, 2009) e soprattutto Madeinusa (2006), entrambi della regista peruviana Claudia Llosa.

Centrale è, come si è detto, il tema del Sacro. Si potrebbe dire che l’intera vita della comunità peruviana sia basata su di esso, sebbene adattato per quanto possibile al culto dei colonizzatori. La Vergine, la cui statua viene immersa ritualmente nella laguna sagrada al termine del film, non è altri che una effige post-coloniale della Pacha Mama o della Santa Tierra, la personificazione della terra stessa nel suo aspetto materno, e quindi al tempo stesso benevolo e terrifico [1]: la Madre Terra ci dà la nascita e il sostentamento, ma è sempre suscettibile di riportarci nel suo grembo al momento da lei stabilito [2]:

« Se da un lato è invocata per i suoi poteri di fertilità, dall’altro è temuta, perché può divenire tanto pericolosa da causare malattie catturando l’anima delle sue vittime o producendo emanazioni che colpiscono il cuore. »

D’altronde, come sottolineò egregiamente il grande scrittore e poeta messicano Octavio Paz ne Il labirinto della solitudine, nell’Ispanoamerica odierna (in Perù come in Messico) la venerazione della Vergine-Madre Terra non si riduce, da un punto di vista antropologico, al solo ambito “tradizionale” [3]:

« La situazione è cambiata: non si tratta più di assicurare le messi, ma di trovare un grembo. La Vergine è la consolazione dei poveri, lo scudo dei deboli, il riparo degli oppressi. […] Il culto alla Vergine non solo riflette la condizione generale degli uomini, ma anche una situazione storica concreta, sia spirituale che materiale. »

Nel film in analisi in questa sede, a questo grembo ambivalente vengono attirati prima Ignacio e poi Saturnina, avvelenati da un misterioso fluido “sovrannaturale” (huaca, come vedremo) che fuoriesce dalle membra della Pachamama, complice naturalmente l’intervento deprecabile delle imprese estrattive dell’ “uomo bianco”. Ma il veleno è qui la stessa cosa del pharmakon degli antichi Greci: sostanza venefica e al tempo stesso, a un livello più elevato e “sottile”, guaritiva.

E non è un caso che tale farmaco sia materialmente da individuarsi nel mercurio, che gli Alchimisti consideravano l’elemento primordiale con cui ogni altro metallo risultava formato, perché contenente in sé tutti i diversi aspetti e qualità della materia: veicolo di collegamento fra cielo e terra, assimilato anche all’etere filosofico, cioè la sostanza con cui si riteneva intessuta l’Anima del mondo che permeava l’intero universo. C’è molto più che mera ignoranza da parte di Saturnina e di Ignacio nel considerare il mercurio una sostanza sacra o, per meglio dire, usando la corretta terminologia quechua, huaca: la loro visione del mondo, ancora profondamente incentrata, nonostante il trauma collettivo subito dalla conquista spagnola in poi, sull’adorazione animistica delle forze naturali, in tutti i suoi aspetti non-duali e non-dicotomici, è alla base stessa della loro mancanza di tatto nel maneggiare senza protezione alcuna una sostanza così notoriamente letale. D’altronde, diverse popolazioni amerindie sono storicamente ricorse all’assunzione di mercurio puro (asogue) a scopi catartici e purificativi [4], nonché sacrificali.

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La concezione di huaca, infatti, va ben oltre la visione del divino come “buono e misericordioso”, presupponendo piuttosto un elemento di straordinarietà nel bene o nel male: esattamente ciò che gli antichi Romani definivano monstrum, nella triplice accezione di “prodigio, portento, miracolo”, “evento straordinario, cosa incredibile” e “nefandezza, atrocità, atto mostruoso”. Huaca sono infatti luoghi naturali, quali montagne, sorgenti e laghi, che si ritengono abitati dagli spiriti del  mondo naturale e degli Antenati; huaca sono i templi e gli idoli che contengono e le spoglie degli avi defunti; ma huaca sono anche e soprattutto tutte le forme inusitate o mostruose con cui si manifestava l’ordine cosmico: massi caratterizzati da forme particolare o animali di aspetto non conforme agli standard abituali. In definitiva, è considerato huaca tutto ciò che veicola una connotazione extra-ordinaria, proibita (taboo), in una maniera che a noi occidentali potrebbe ricordare la concezione del Sacro come Mysterium Tremendum e “totalmente Altro” del filosofo tedesco Rudolf Otto.

Gli antichi peruviani ritenevano che tali aberrazioni stessero ad indicare la volontà, della forza superiore che reggeva il creato, di rivelare tramite la monstruosità di tali forme una verità non visibile con i soli occhi fisici (e che infatti gli oculisti occidentali, fra cui Max, non possono curare), insita nel mondo spirituale, nell’Anima Mundi stessa, al di là della sciarada cronica degli avvenimenti della vita quotidiana (il nome stesso della protagonista, Saturnina, è connesso archetipicamente con il carattere fatale di Saturno/Kronos inteso come Chronos, il tempo, considerato nella sua accezione spietata ed ineluttabile).

In questo senso, la fuoriuscita di mercurio dalle profondità del grembo della Pacha Mama non può che rivelare una malattia diffusa a livello animico e collettivo, e non solo a livello meramente materiale (l’inquinamento della terra): e questa malattia si diffonde senza soluzione di continuità in tutto il mondo, incurante dei confini geopolitici, dal Medio Oriente alle Ande peruviane. Non si tratta solo, abbiamo detto, dell’inquinamento delle risorse naturali, che semmai del Male vero e proprio che sta dietro è una ierofania in termini palpabili («La superficie è definita dall’interno», dice Orlando, il restauratore cieco): dietro i cambiamenti della realtà materiale e sperimentabile con i cinque sensi si insidia un male ben più terrificante, un male che affligge come un cancro l’umanità intera, nel gioco illusorio della dicotomia “vittima/carnefice”, e forse l’intera coscienza cosmica considerata nella sua struttura più profonda.

Questa ambivalenza del Sacro, percepito al tempo stesso come fonte monstruosa di disfacimento e di distruzione e come agente rinnovatore e purificatore, è tipica dell’intero Sudamerica precolombiano. Paradigmatica e, a nostro parere, illuminante nell’analisi di Altiplano è la concezione degli indios Chamacoco o Ishir, stanziati tra il Paraguay e il Brasile, che tendono ad omologare il sacro con l’impuro (ci si riferisce ad esso come wozósh, «potere insolito»), perché ritengono che il potere cagioni quasi sempre la sventura e l’impurità. Di più: come spiega Edgardo Cordeu, gli Ishir paragonano l’esperienza del sacro all’azione di un veleno, oltre ad evidenziarne il carattere insolito, ignoto e pericoloso (ioníak) [5]:

« Il suo correlato empirico e lessicale è il veleno; al pari di questo, la sua manifestazione è imprevedibile, i suoi effetti folgoranti, le conseguenze abitualmente nefaste. Il fulmine, il bruciore, la putrefazione, le sensazioni di intensità intollerabile e, in generale, ciò che è inconsueto, sono alcune delle sue immagini immediate. Pertanto, la rivelazione del wozósh scinde dinamicamente la realtà in due sfere empiricamente e concettualmente distinte, inquadrate senza troppe distorsioni nelle categorie di “profano” e di “sacro”. Restano dunque da parte tutti i fenomeni attinenti al normale ambito dell’esperienza, che non provocano timore né inquietudine e che in generale si qualificano come ié wotish («senza potere»). All’estremo opposto, invece, si collocano gli esseri e gli eventi che condividono il tratto dello ioníak; cioé, un tipo particolare di pericolo numinoso legato all’ignoto, che scatena nei soggetti una sensazione di djéjrro, o paura. […] E perciò, le risposte possibili di fronte a una sua manifestazione sono o l’interdizione o la purificazione. »

L’ambiguità concettuale del «potere insolito» wozósh ben si comprende tenendo conto del fatto che basta apporvi un óm (wozósh óm) per ottenere l’idea di «potere insolito attraente e benefico», «associato alla frescura, al buon odore, all’umidità e, in generale, alla Vita»: ribaltando l’aspetto nefasto del termine singolarmente preso, esso assurge a indicare «la causa efficiente che manifesta nella fecondità e nei processi di rinnovamento, siano essi animali, vegetali, astronomici, sociologici o rituali». Questo perché «così come la decomposizione […] porta alla scomparsa dell’identità e della forma […], il correlato pratico del wozósh óm è una rinascita o un rinnovamento dell’essere» [6].

Né si deve dimenticare che Mercurio, mitologicamente parlando, era ritenuto figlio della dea Maia, antica dea greco-romana della fecondità e del risveglio della natura in primavera: ecco dunque il “figlio” fuoriuscire dalla Santa Tierra/Maia/Maria, portando sì lo sconvolgimento all’interno della comunità nativa (e non solo), ma anche conducendo le coscienze (in particolar modo quella di Grace, reduce dal lutto del marito, e di Nilo, fratello di Saturnina) a un piano più elevato di comprensione. Così come è significativo ricordare che a Maia veniva offerto ritualmente un maiale (che dalla dea prende appunto il nome): e in una delle prime scene del film si menziona la consuetudine/necessità di sacrificare un maiale, in vista dell’imminente matrimonio fra Saturnina ed Ignacio.

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Ma Mercurio era anche il dio psicopompo, che accompagna l’anima nell’Altro Mondo, che non è solo il mondo dei morti ma anche quello degli spiriti: l’Anima Mundi, per l’appunto. L’ascesa tutt’altro che inconsapevole di Ignacio, che scala la montagna sacra per poter ottenere la mitica “acqua della Vita”, è un magnifico esempio a tale proposito di riadattamento cinematografico di mitologemi antichissimi. Il suo decesso, causato appunto dall’ingestione della sostanza mercuriale, sarà la causa di una vera e propria rivoluzione all’interno del suo villaggio, mettendo così in moto un processo fatale ed ineluttabile che porterà alla morte (e alla “deificazione”) di Saturnina, epifania “verginale” della stessa Anima Mundi, oltre che a quella di Max.

“Deificazione” di Saturnina, abbiamo detto, e ciò è da intendersi nel bene e nel male, coerentemente con il concetto di huaca da noi esplicato: Saturnina diventa huaca sia nella veste di martire che, al tempo stesso, in quella di carnefice quasi involontaria, essendo stata la sua mano guidata da una forza di volontà più elevata, potremmo dire “animico-collettiva”. Estremamente significativa, a questo riguardo, è la sequenza del suo funerale, durante il quale i suoi compaesani, mascherati da angeli e da diavoli, se ne contendono a dadi l’anima nell’Altro Mondo.

Noi crediamo, inoltre, che si debba analizzare la poetica apocalittica di Altiplano tenendo conto dei cosiddetti movimenti escatologici sudamericani che (pur esistendo anche prima della conquista e colonizzazione ispanico-cristiana) soprattutto dal 1500 fecero breccia in molte comunità di nativi, sia andini che amazzonici. Suddetti movimenti religiosi si fondavano sulla percezione di un’apocalisse imminente: i “profeti” invitavano i propri seguaci ad abbandonare le occupazioni quotidiane e i culti dei colonizzatori, e a unirsi a loro in un pellegrinaggio alla ricerca della mitica «Terra Senza Male» all’interno della quale, per mezzo della danza estatica, sarebbero rinati purificati, in un mondo paradisiaco egualmente epurato dai mali e dalle ingiustizie. Si credeva che, nel corso del viaggio, «i corpi dei devoti sarebbero stati trasformati in sostanze immortali» [7].

Si potrebbe dire che, attraverso tali movimenti escatologici, i “profeti” dimostrarono ai propri seguaci che «si può comprendere il significato della storia solo afferrando la natura ultima e catastrofica della condizione umana» [8]. Quasi tutti questi movimenti, «per quanto speranzosi, passano inevitabilmente attraverso il caos del fuoco, dell’oscurità, del diluvio, del rumore, del disordine morale o di qualche altra esperienza decostruttiva di distruzione della forma» [9]. «Limiti e confini, esperiti proprio nel momento del loro superamento, chiarificano il fine dello spazio e del tempo così come delle esistenze che in essi si svolgono», ragion per cui «l’esperienza simbolica, in tutte le sue espressioni, è diretta verso la fine. La fine dell’essere immaginabile diviene l’espressione definitiva del destino umano» [10]. In questo senso, le escatologie sudamericane di questo tipo (andine come amazzoniche), scrive Lawrence Sullivan [11]:

« […] ci aiutano a comprendere meglio la prossimità del paradiso e dell’apocalisse. Entrambe sono visioni di una stessa realtà, e cioè la condizione finale del cosmo. […] Si potrebbe dire che in paradiso e nell’apocalisse la vita religiosa realizza la propria fine e la propria integrità, raggiungendo il senso di interezza richiesto per valutare il significato della stessa vita simbolica. […] i protagonisti religiosi colgono il significato della vita in questo mondo afferrandolo da entrambe le estremità: creazione e distruzione finale. […] L’inevitabilità della fine del mondo non elimina l’incertezza sul suo significato e sulle sue conseguenze. La visione escatologica, piuttosto, fornisce un fulcro all’ambivalenza religiosa e permette alla comunità di riflettere sulla natura finita dell’esistenza e sulle proprie relazioni con essa. »

In questo senso (l’osservazione di Sullivan si connette alla perfezione, in questa sede, con il destino di Saturnina e di Ignacio) [12]:

« Le ordalie subite da coloro che sopravvivono alla fine del mondo conferiscono loro un destino eroico. La fine del mondo diviene un test, un’esperienza iniziatica che porta a un nuovo tipo di esistenza. Gli umani che sopravvivono alla fine del tempo sono trasformati dall’esperienza e vivono come esseri sovrannaturali, immortali e antenati primordiali. Sono liberati dai cicli di impoverimento, dalle costrizioni del peso corporeo e dai cicli dell’attività quotidiana. »

A questo proposito, non si può mancare di rilevare come, sia nella scena del “passaggio oltre” di Ignacio che in quella speculare di Saturnina, gli spiriti degli Antenati escano letteralmente dal terreno della Santa Tierra, per condurre le anime dei due trapassati nell’Altro Mondo, che come detto non è solo quello dei morti ma anche quello degli spiriti immortali. E le anime degli Antenati sacrificati nei secoli per l’amore della Pacha Mama significativamente sono viste scorrere, sotto forma di immagini, nei flussi del fiume che scende dalla vetta della montagna sacra: è nell’elemento acqueo, tradizionalmente connesso all’Anima Mundi, che essi scorrono alfine senza più preoccupazioni tangibili, all’interno di un circolo eterno di beatitudine atemporale. 

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Una morte che è dunque più una rinascita che un decesso, su un piano ontologicamente superiore e immune alle dicotomie del mondo della materia: una catabasi che è anche una ascensione. Così, alla fine, con la trasformazione del mercurio liquido in mercurio igneo, le nozze alchemiche tra il Sole e la Luna (Ignacio e Saturnina) avvengono non sul piano cronico e materiale, bensì su quello superiore e “sottile” dell’Anima Mundi: sola ed unica ierogamia in grado di dare vita all’oro filosofale (in contrapposizione con il “meschino” oro materiale estratto sull’altopiano dalle imprese occidentali), e di risanare così la corruzione della materia e delle spire sempre stringenti di Kronos. Come afferma il restauratore cieco in una delle sequenze topiche della pellicola, l’immagine è restaurata, e con essa la speranza.


Note:

[1] Alcuni studiosi riportano una distinzione ulteriore, esistente nella tradizione inca, tra la terra coltivata dove vivevano le persone, chiamate Camac Pacha («colui/colei/coloro che anima/animano la terra») e la terra incolta, fuori dai villaggi, denominata Pacha Mama (Madre Terra) [ZUIDEMA, R. Tom: “La religione inca e le sue radici nel contesto centroadino”, in A.A.V.V.: Culture e religioni indigene in America centrale e meridionale, a cura di SULLIVAN, Lawrence E., Jaca Book – Massimo, Trattato di Antropologia del Sacro vol. 6, Milano 1997, p. 226]

[2] OSSIO, Juan M.: “Vita religiosa degli indigeni peruviani contemporanei”, in A.A.V.V.: Culture e religioni indigene in America centrale e meridionale, op. cit., p. 192

[3] PAZ, Octavio: Il labirinto della solitudine, SE, Milano 2013, p. 68

[4] SIMMONS, Marc: La cattiva medicina. Magia nera nel sudovest americano, Xenia, Milano 1998, p. 177

[5] CORDEU, Edgardo Jorge: “La religione degli indios Chamacoco o Ishir”, in A.A.V.V.: Culture e religioni indigene in America centrale e meridionale, op. cit. p. 234

[6] Ivi, p. 235

[7] SULLIVAN, Lawrence E.: “Il mondo e la sua fine: cosmologie ed escatologie degli indigeni sudamericani”, in A.A.V.V.: Culture e religioni indigene in America centrale e meridionale, op. cit., p. 176

[8] Ivi, p. 172

[9] Ivi, p. 182

[10] Ibidem

[11] Ivi, p. 178

[12] Ivi, p. 183


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