Kasenian Réak: la danza del cavallo sundanese tra performance artistica e possessione cerimoniale (I)

Luigi Monteanni ha trascorso un anno in Indonesia per studiare il Kasenian Réak, la tradizionale danza del cavallo sundanese, durante la quale i partecipanti al rituale vengono posseduti dagli spiriti. Quello che vi proponiamo in due puntate è un corposo estratto dalla sua tesi di laurea magistrale nata da questa esperienza.


testo di Luigi Monteanni
foto di Marco Maculotti

Nusantara è un termine che in antico giavanese indica letteralmente la parola “arcipelago”. Anticamente questo termine è stato utilizzato da malesi e indonesiani per indicare la parte squisitamente marittima del sud-est asiatico. Quale altro termine a primo colpo d’occhio può in effetti meglio descrivere la nazione indonesiana e le sue più di 17.000 isole? Su queste 17.000 superfici composte tanto di giungle quanto di metropoli, deserti, campi e vulcani, più di trecento diversi popoli parlanti circa 700 differenti linguaggi hanno goduto della propria insularità e contemporanea vicinanza con altre etnie, in un processo che di primo acchito sembra sempre aver consentito tanto la conservazione delle forme tradizionali quanto un estremo dinamismo delle stesse, che ha potuto fare dell’estrema mobilità dei popoli che abitano l’Indonesia, lo strumento principale per la creazione continua di nuove forme d’arte. L’unicità e spettacolarità delle arti hanno sempre rappresentato non solo un leimotiv delle brochure delle agenzie di viaggio, ma anche una fondamentale parte della vita politica, religiosa ed esistenziale di ognuno di questi gruppi etnici.

Nella fattispecie, Nusantara, dopo essere stata parte delle cosiddette “Indie orientali” per mano degli olandesi, diventa Indonesia nel 1945, alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Resosi indipendente, l’arcipelago affronta sette presidenti, i quali terranno sempre uno stretto, a volte sin troppo stretto, rapporto con le arti e le diverse culture, principale arma di legittimazione identitaria davanti ad un mondo che fino ad allora aveva solo visto colonie, selvaggi, rotte commerciali fruttuose e milioni di persone sparpagliate su quasi due milioni di metri quadri divisi tra terra e mare. Da allora l’idea di un’arte pura e puramente tradizionale infesta, complici le politiche estere, le menti dei turisti, mentre alle periferie la moderna e la semplice quotidianità di alcune di queste arti rimane nascosta.

In agosto 2017, prendevo un aereo per Jakarta, Giava ovest, diretto verso Bandung: capitale della terra di Priangan e roccaforte dell’etnia sundanese; stavo andando a vedere per la prima volta una piccola e locale nuova variante di una performance musicale e cerimonia di possessione chiamata jaranan: la danza del cavalloIl fenomeno, nato probabilmente attorno all’ottavo secolo come danza propiziatoria in cui i cacciatori chiedevano agli spiriti animali di possederli e assisterli nella caccia, altro non indica che una performance coreografata in cui ragazzi maschi con dei cavallini di bambù cadono in trance, posseduti da spiritelli di basso rango e coordinati da un pawang, figura che, come avremo modo di vedere, è vicina a quella dello sciamano. Diffusasi da Giava est, la danza è poi risultata in varie versioni della sua forma radicale; Il réak, o la danza sundanese del cavallo, ne è l’equivalente di Giava ovest. Il réak, che ha avuto origine, secondo le ricerche, non più di cento anni fa, non sembra essere solo una delle versioni meno antiche della danza, ma anche, almeno per mia esperienza, quella più estrema.

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Tutte le foto di questo reportage sono da considerarsi di proprietà di AXIS mundi.

Geertz (1976) ha già mostrato come a Giava le arti possano essere divise in alus (raffinate, aggraziate) e kasar (grezzo, rozzo). Il réak, con la sua performance che fa del caos l’elemento centrale di interesse e intrattenimento, può essere senza dubbio posto nella seconda categoria. […] Il réak è solitamente uno spettacolo mattutino che nella sua forma classica ha una durata di pressappoco otto ore (9 – 17). Sebbene la performance inizi ufficialmente alle nove circa, alcuni membri del gruppo si ritrovano sempre almeno un paio di ore prima per recarsi al luogo dove si terrà l’hajat – di solito uno spazio vuoto e inutilizzato tra la fitta rete di case nei villaggi – e preparare le offerte agli spiriti dei Karuhun, l’amplificazione e gli strumenti. […]

Ai Karuhun viene offerto da mangiare invitandoli attraverso fragranze, odori e prodotti di vario tipo, i quali possono essere anche personali e personalizzati. Come segnalato anche da Wessing (2016: 11), le offerte vengono consumate dagli antenati, che si nutrono del rasa, (l’essenza [103]) delle cose. […] Conclusa questa prima fase, dopo un discorso opzionale da parte del pimpinan volto a ringraziare e fare gli auguri alla famiglia che ha organizzato l’hajat e al festeggiato o festeggiati, lo spettacolo vero e proprio può iniziare. Dopo un’occhiata comune i performer formano un cerchio nell’area designata, che sarà dedicato all’esibizione e che serve a dividere gruppo e pubblico.

I percussionisti cominciano a far risuonare i dogdog, spezzando il silenzio con i loro pattern ritmici e iniziando così il primo dogcing, kirata [104] (acronimo sundanese) per dogdog cicing, letteralmente dogdog sul posto. Questa parte, di una durata media che può andare da mezz’ora a un’ora, è pensata per essere un’introduzione allo spettacolo (awal), quasi un’overture. Essa serve a proseguire ciò che il rituale del sasajen ha iniziato e a dare una prima dimostrazione di quello che accadrà durante il resto del réak. La tarompet si accoda alle percussioni iniziando a intonare una delle canzoni del repertorio; di solito uno dei cinque pezzi specificamente utilizzati per invitare i Karuhun a prendere parte allo spettacolo. In poco tempo la folla si raduna attorno al piccolo e polveroso fazzoletto di terra.

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Mentre la musica occupa prepotentemente l’aria, il pimpinan o il ma’alim si sposta al centro dello stage e inizia a danzare per onorare gli antenati e le persone accorse a vedere lo spettacolo. La danza è relativamente semplice e non ha una vera e propria struttura: i gesti, provenienti da un repertorio di movimenti fisso e vagamente ispirato alle mosse del pencak silat [105], si susseguono in un concatenamento completamente improvvisato secondo il gusto dell’individuo. Alla fine di questa breve danza le possessioni possono già avere luogo. A questo punto infatti si verificano in ordine libero la danza di Bangbarongan e i primi adorcismi. Di norma la danza del Barong dovrebbe avvenire prima rispetto agli adorcismi; la verità è che nella pratica i due accadimenti sono assolutamente intercambiabili e dopo l’inizio della musica il ma’alim può praticare gli adorcismi tanto quanto far stendere il costume del Barong a terra per iniziarne la danza.


La danza del Barong

Partiamo col descrivere la danza del Barong: Bangbarongan – letteralmente la rappresentazione del Barong – è il costume di un personaggio antropomorfo di origine mitica molto diffuso tra Giava e Bali, ma anche nel resto del sud-est asiatico, le cui rappresentazioni potrebbero essere esistenti sin dai tempi più antichi (Beatty 2003) le cui orgini sono ancora largamente ignote. Esso è genericamente descritto come un drago, anche se in realtà può apparire nelle forme di vari altri animali: Il cinghiale, la tigre, il bufalo, il serpente (a volte assimilato al drago) e il leone [106].

Questa figura mitologica è presente nelle sue molteplici forme presso la maggior parte delle declinazioni della danza del cavallo. Nel caso specifico di kasenian réak, Bangbarongan ne è ritenuto per oscuri motivi un’icona [107]; cosa che si può evincere anche dalla sua costante presenza in loghi di gruppi e volantini di festival dedicati al genere. Il costume del Barong è composto da due parti create separatamente e poi unite: un sacco di goni (simile alla juta) scucito al fondo o alternativamente del kaen (stoffa), in cui ci si infila per indossare il costume, e una testa scolpita dal legno di hoe e poi dipinta di rosso [108].

A sua volta, la testa viene lavorata ottenendo due pezzi separati: la mascella inferiore e la parte superiore della testa. Queste due componenti vengono poi assemblate tramite un’impugnatura interna. Infilando nel costume una delle due mani fino alla testa i performer possono muovere le fauci del Barong facendole schioccare rumorosamente e donando al personaggio una sembianza di vita più intensa. Il sacco di goni (poi incollato alla base della testa) e la testa del Barong possono liberamente essere modellati e decorati in vari modi, utilizzando accessori e colori aggiuntivi di vario tipo. […] Sebbene i gruppi possano ordinare un Bangbarongan da un artigiano [109], molti di essi si vantano di avere un membro interno al gruppo che se ne occupa personalmente.

Il costume del Barong viene adagiato al suolo con le fauci aperte e appoggiate a terra perpendicolarmente al terreno. Ci si cura che il sacco sia ben disteso senza increspature di sorta, dopodiché l’eventuale coda viene appoggiata sul dorso, puntando verso la testa. Il danzatore del Barong, che di solito è sempre lo stesso, si avvicina al centro dello stage infilandosi in bocca una doppia ancia di bambù; questa è il mezzo con cui in seguito il performer produce il tipico squittio di Bangbarongan, tramite il quale egli comunica con il pubblico, emette suoni ritmici per accompagnare la musica e chiede le offerte passando tra gli spettatori mentre lo show va avanti (Duit! Duit!). Le donazioni vengono infilate dalle persone direttamente nelle fauci aperte del Barong.

Quando il performer è ormai pronto per entrare nel costume e alcuni membri del gruppo sono in posizione per agevolarne l’entrata, la tensione si fa percepibile [110]. Il ma’alim apre una delle due mani fissando il vuoto tra performer e Bangbarongan. Essa comincia a tremare e l’uomo inizia a recitare delle preghiere sundanesi, dei jampe-jampe. Uno spirito viene fatto entrare nel costume tramite invito o alternativamente venendo “preso”, qualora non sia un Karuhun ma un jurig jarian. Il tremore è dovuto all’energia che l’individuo raccoglie e reindirizza verso Bangbarongan. Commentando su come venga determinato lo spirito ad entrare nel costume R del gruppo Kalamenta [111] dice:

« Dipende dal suo Karuhun. Non possiamo scegliere. [Esita] Sì, potrebbe essere, ma nel mio gruppo può dipendere dallo spirito che arriva e che viene testato [all’interno del costume]. Quando il Bangbarongan è costruito non sappiamo ancora che spirito sia [al suo interno], ma quando qualcuno performa dentro di esso allora si può capire che cos’ha il costume. »

Durante questa procedura il ma’alim fa cenno all’ensemble di aumentare il ritmo della musica con la mano libera, raddoppiando il tempo al seguito del suono basso e possente del bedug e quello martellante del tilingtit, raggiungendo così il climax. Questa variazione di velocità avviene ogni volta che uno spirito viene fatto entrare in un corpo. Mentre la musica raggiunge il suo picco, il performer entra nel costume in una posizione carponi conosciuta come asup kana kodokong [112], aiutato da alcuni membri e/o dal ma’alim. Una volta indossato il costume, il performer comincia a muoversi con esso.

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La danza del Barong è sempre uno dei momenti più entusiasmanti dello spettacolo. Un performer esperto riesce a muoversi con totale armonia e fluidità, coordinando le proprie movenze insieme al costume, rendendolo un prolungamento del proprio corpo e facendolo apparire vivo. I gesti ritmici, che anche qui possono emulare delle combinazioni di mosse di pencak silat, coinvolgono l’intero corpo del danzatore, permettendo di ottenere delle pose in cui la figura e fisicità umane vengono totalmente tramutate in quelle di un essere altro. Se non fosse per le gambe sempre visibili dallo stinco in giù – spesso calzanti dei normalissimi jeans ma sempre rigorosamente a piedi nudi – saremmo sicuri di osservare un essere mitico. […]

La prima parte della danza si conclude solitamente con la possessione del performer. Egli, preso dallo spirito fatto entrare all’inizio nel costume dal ma’alim, cade a terra in preda alle convulsioni [113]. Se e quando ciò accade, alcuni assistenti tirano prontamente fuori l’individuo da Bangbarongan, il quale abitualmente si rifiuta tenendo con forza la maniglia interna alle mascelle. Quest’ultimo particolare è dovuto al fatto che lo spirito non vuole lasciare il costume; per tale motivo in seguito spingerà più volte il posseduto a tentare di rientrarvici. Compito degli assistenti sarà al contrario quello di impedirglielo.

A seconda della determinazione e forza dello spirito possono servire dalle due alle cinque persone per liberare il posseduto dal costume e impedirgli di accedervi nuovamente. Quando il performer è stato finalmente staccato da Bangbarongan egli presenta i tipici tratti della trance da possessione del réak (kasurupan): a terra, con occhi vuoti e sbarrati, egli comincia ad agire secondo il comportamento dello spirito che il corpo contiene [114]. In seguito al posseduto sarà di nuovo permesso di entrare nel costume, qualora lo spirito lo richieda. Egli seguirà l’arak-arakan esibendosi e chiedendo offerte fino alla fine della parata [115].


Possessione, adorcismo ed esorcismo

Avendole sopra introdotte, possiamo ora cominciare a parlare delle caratteristiche proprie della possessione. Per fare questo iniziamo ad addentrarci nel secondo avvenimento avente luogo prima o durante la danza del Barong: i primi adorcismi. Per adorcismo, termine da poco coniato e utilizzato all’interno degli studi antropologici e religiosi, si intende la pratica uguale e opposta all’esorcismo.

Se quest’ultimo termine deriva infatti dal tardo latino exorcismus e, ancora prima, dal greco ἐξορκισμός (derivato da ἐξορκίζω), significando lo «Scongiuro mediante il quale la persona investita di un potere sacro si dichiara capace, in forza di questo suo potere o dell’invocazione di un essere soprannaturale, di scacciare una potenza avversa o malefica, con parole (formule), azioni (gesti) e oggetti» [116], nell’adorcismo l’officiante – in questo caso il ma’alim – invece che causare l’uscita di un’entità da un corpo ad essa soggetto, attua l’operazione contraria, invitando, mediante preghiere, oggetti e vari medium, uno spirito ad entrare in esso. L’adozione di un termine specifico per tale tipo di procedura viene scelta per sottolineare la natura indipendente della pratica, nonché la sua struttura analoga e opposta a quella dell’esorcismo.

Per questa seconda procedura il ma’alim è ancora una volta al centro dello stage, pronto a chiamare i primi spiriti. Chiunque nel gruppo si senta pronto (rata-rata anu kasurupan), si avvicina all’uomo. Il ma’alim fa un cenno ai musicisti, i quali attenti alle indicazioni dell’uomo raddoppiano il tempo. Il ma’alim, con una mano avvolta intorno al collo del performer e con l’altra semiaperta sulla sua nuca, gli sussurra all’orecchio dei mantra del potere in sundanese antico (ajian-ajian), il cui contenuto mi è ancora oscuro per i motivi già chiariti. Il corpo del performer diventa progressivamente teso e al contempo paradossalmente più rilassato, abbandonato alla pratica del ma’alim. Quando questa è completata, l’officiante libera l’uomo dalla presa.

Il posseduto si esibisce in acrobazie e movimenti di vario tipo a seconda dello spirito che egli ospita, le quali costituiscono la principale attrattiva dello spettacolo insieme al Bangbarongan e alla musica. In questa prima serie di adorcismi, in media e a seconda dei gruppi, dai due ai cinque performer possono venire posseduti. In ogni momento si possono poi verificare possessioni ulteriori, indipendenti dalla volontà dei ma’alim. Per prima cosa gli spiriti possessori, qualora siano dei Karuhun, sono a loro volta capaci di eseguire adorcismi su altri individui, trasferendo (nepakeun) lo spirito in essi.

In seconda posizione, il contatto fisico e visivo con i posseduti o con gli oggetti con i quali questi ultimi hanno interagito e la musica possono generare possessioni negli spettatori, senza alcun preavviso. Riguardo queste eventualità ibu M di Dangiang Mitra Pasundan [117] ci spiega:

« Sì… Funziona così: [fa finta di essere lo spirito] se vado per la prima volta in un posto e porto un amico, vorrà venire. Quindi tocco qualcuno in modo che anche l’amico possa venire con me. Siccome c’è l’invito moltissimi spiriti vorranno venire. »

Le entità invitate al réak, proprio come nel jaran kepang descritto da Mauricio (2002: 61), vedono i corpi come un’occasione concreta di partecipare in modo fisico all’evento a cui sono stati invitati, ritrovando così il piacere perduto di muoversi sul piano corporeo.

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In generale, per i fenomeni di possessione all’interno del réak, sono da tenere presente almeno tre fattori determinanti: il ruolo della volontà, lo ngélmu degli individui e l’eventualità di avere una mente vuota (leumpeuh yuni). Per quanto riguarda la volontà, ho visto più volte degli spiriti chiedere o ordinare ad un individuo di prestarsi all’adorcismo e vederselo rifiutare. Le scuse potevano essere di vario tipo, incluse la stanchezza e la forma fisica non perfetta del rifiutante. Per quanto riguarda invece gli ultimi due fattori, essi dipendono dalla preparazione spirituale e mentale di un individuo e dal conseguente accumulo di ngélmu. Tradotto dai vocabolari e utilizzato dal linguaggio comune nell’accezione di “scienza”, in realtà l’ilmu (bahasa indonesia del sundanese ngélmu), in linea con quello che dice Geertz (1976: 88) può essere inteso come un certo tipo di conoscenza astratta o di abilità sovrumana [118]. Per alcuni il termine ricopre specificamente il significato di: “potere magico sostantivo” [119]. Esso assume inoltre anche il più ampio significato di sapere come potere accumulato.

Cosa è possibile fare con l’ilmu dipende dall’ilmu stesso: sebbene quelle che abbiamo delineato sono le sue caratteristiche generali, alcuni tipi di ilmu sono specifici per comunicare con l’invisibile o per sapere dove alcuni oggetti sono nello spazio senza vederli (ibidem). Nel caso specifico del réak, se ben allenate, le proprie facoltà possono, attraverso l’assorbimento di potere proveniente dalla saggezza e sapienza spirituale acquisite, fungere da meccanismo di controllo delle energie e quindi di gestione della propria passività rispetto alle entità. Queste stesse facoltà possono impedire che la nostra mente si svuoti, lasciandoci alla mercé degli spiriti. Sognare ad occhi aperti (ngalamun) con la testa vuota (kosong) permette infatti l’entrata di questi ultimi senza bisogno di pratiche adorcistiche o mantra.

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(fine I parte — continua alla II parte)


Note:

[103] Sebbene la parola rasa venga utilizzata in indonesiano per indicare il sapore, in ambito rituale essa prende l’accezione di essenza. Dopotutto è bene ricordare che di per sé quello di rasa è un termine proveniente dal sanscrito e concettualmente molto denso, su cui si sono spesi fiumi di inchiostro. Per una tematizzazione interessante del concetto di rasa nell’induismo, leggere almeno Hindu Images and Their Worship with Special Reference to Vaisnavism: A Philosophical-Theological Inquiry (Lipner 2017).

[104] I kirata sono quelli che Zimmer (1999) ha definito un’arte etnolessicologica. Essi consistono nell’attribuire ogni sillaba di una parola ad un’altra parola in modo da formare una frase compiuta che ne spieghi il senso più ampio (Spiller 2004). Anche se di solito queste etimologie sono dimostrabilmente false, nonché diverse da individuo a individuo, l’operazione del kirata, a metà tra gioco di parole e autoctona ricerca etimologica, è uno dei modi con cui ad alcuni termini particolarmente complessi viene attribuito un significato e che permette di dare uno sguardo all’interno dell’insieme di idee che gravitano attorno a una parola.

[105] Per essere precisi esiste una differenza tra pencak silat e pencak. Mentre la prima è la vera e propria arte marziale, la seconda è la danza ispirata alle sue mosse e combinazioni.

[106] A Bali possiamo anche trovare dei costumi del Barong dalle sembianze umane dal nome di Barong Landung, i quali si esibiscono in coppia. Per una descrizione del Barong Landung leggere l’articolo di Volker Gottowik: Transnational, Translocal, Transcultural: Some Remarks on the Relations between Hindu-Balinese and Ethnic Chinese in Bali (2010).

[107] Dico oscuri semplicemente perché i miei interlocutori, pur avendomi sempre detto che esso è l’icona, non sono mai riusciti a spiegarmi chiaramente il perché.

[108] Alternativamente si può dipingere anche di nero. Questa ultima colorazione è molto più rara.

[109] Purtroppo non mi è stato possibile conoscere il costo medio di un Barong.

[110] Qualche volta ho visto addirittura qualche persona pregare prima di entrarvici.

[111] Kang R. Intervista del 13/1/2018.

[112] Il significato letterale è sconosciuto sia a me che ai miei interlocutori.

[113] Un modo per intendere il processo potrebbe essere che lo spirito entra inizialmente nel costume e successivamente passa dal costume all’individuo che lo danza. Purtroppo la mia è solo un’ipotesi e non posso esserne certo.

[114] La decisione di esprimersi riguardo al corpo come un contenitore verrà chiarita più avanti.

[115] Purtroppo nel corso del mio breve campo non mi è stato possibile chiarire il motivo per il quale c’è un momento specifico dopo l’uscita dal costume, durante il quale al performer/spirito è permesso rientrare.

[116] Tale definizione ed etimologia sono state attinte direttamente dall’enciclopedia Treccani. Disponibile da http://www.treccani.it/vocabolario/esorcismo/.

[117] Intervista del 13/1/2018.

[118] Traduzione da Geertz di: “supernormal”.

[119] Traduzione da Geertz di: “substantive magical power”.


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