Uttara Kuru, il Paradiso Boreale nella cosmografia e nell’arte indiana

Giuseppe Acerbi esamina il tema del Paradiso Boreale nella tradizione induista, inquadrandolo nella dottrina dei cicli cosmici e mettendone in rilievo le corrispondenze con la tradizione esiodea e platonica, analizzando infine i simbolismi che si ritrovano nelle rappresentazioni artistiche di tale locus amoenus. 


di Giuseppe Acerbi
originariamente pubblicato su Alle pendici del Monte Meru, blog dell’autore
e ripostato da L’Immagine Perduta
copertina: Mandala del Monte Meru

La concezione vicino orientale del Paradiso Terrestre quale sede originaria della prima coppia umana trova riscontro anche nel Medio Oriente, tanto in Iran quanto in India. In India però è rintracciabile pure qualcos’altro in proposito, non corrispondente alla ristretta visione delle tradizioni abramitiche, almeno nei loro aspetti essoterici. Avviene insomma nel mito e nell’iconografia una specie di moltiplicazione erotica del tema, ad es. nel famoso complesso architettonico di Khajurāho. Le coppie divengono innumerevoli e si mescolano orgiasticamente le une alle altre, in maniera quasi da trasfondersi nella coppia divina originaria, secondo un modello archetipico che le trascende e le valorizza sino all’estremo grado dell’essere in un giardino sovrannaturale dei piaceri. In pratica esse riflettono, su un piano spaziale poeticamente immerso nel mondo della natura sebbene formalmente stilizzato, la dimensione spirituale primordiale di comunione col mondo animale e vegetale; nel simbolo descritta come uno stato di magnifica beatitudine fisica, non disgiunta tuttavia da un’acquisizione di beni del tutto interiore. L’abbondanza dei piaceri assume il ruolo, così, di veicolo di doni celesti e terreni ad un tempo.


La culla geografica del ceppo ario

Gli europei negli ultimi due secoli si sono dati molto da fare per rintracciare la pretesa sede originaria della “razza ariana”, pretesa che in quanto tale non poteva essere minimamente soddisfatta; poiché non corrispondeva ad alcunché di vero sul piano cosmografico reale, lo scopo nascosto di questa teoria essendo sottosotto quello di giustificare il colonialismo europeo in Asia ed altrove. Ciò non significa che soltanto gli europei ne siano andati soggetti. Eurocentrismo a parte, purtroppo codesto errore è stato commesso anche dagli studiosi orientali, in particolare indiani; i quali hanno subito le influenze negative del cd. Ārya Samāj, lett. ‘Assemblea degli Arî’, un movimento apparentemente indigeno  (fu fondato nel 1875 da D.Saraswati ed influenzò in parte persino il grande Tilak), ma fortemente condizionato dalla mentalità imperiale anglosassone tramite la Società Teosofica, non a caso insediatasi in India proprio in quegli anni.  E come tale votato al pregiudizio razziale.

Schermata 2019-07-01 alle 16.47.59
Mappa dell’Uttarâkuru (cartina contemporanea, ricostruzione topografica in base ai testi).

Manvantara, Yuga e Ciclo Avatarico

Qui non vogliamo trattare però l’argomento ariano in relazione al razzismo ottocentesco europeo, bensì in riferimento all’Uttarā Kuru (scr. Uttarākuru(1). L’Uttara Kuru è, secondo la cosmografia hindu, la quinta manifestazione delle terre emerse nell’arco dell’intero Grande Eone (Manvantara). Un Manvantara è un periodo umano nella sua totalità, se vogliamo un intero ciclo adamitico; poiché come avviene nell’iranismo pure nell’induismo si concepisce una molteplicità di 7 cicli umani, corrispondenti a 7 Terre, effigiate da 7 anelli concentrici attorno al Merupārvata. Questi 7 cicli si ripetono poi all’inverso a formare un Kalpa, fatto di 14 Manvantara. Ogni Grande Eone a sua volta è suddivisibile in 10 Cicli Avatarici, ossia in 10 Yuga di 6.480 anni ciascuno; quel che nella cultura greco-romana classica era definito Mâgnus Annus Platônis, con relativi Grandi Mesi, evidentemente ciascuno di 540 anni (2).

Anche il Ciclo Avatarico era noto a Greci e Romani, probabilmente lo avevano appreso dai “Caldei”, secondo quanto si deduce da certi passi di Platone che abbiamo altrove commentato (3) nonché attraverso la virgiliana IV Ecloga (4). Ogni singolo yuga è determinato dallo yoga (congiunzione) dei 7 pianeti visibili, l’ultimo dei quali è avvenuto in cielo il 3 maggio del 2000 (5). Ciò a conclusione del X Periodo Avatarico, benché il mondo non ne abbia – sinora almeno – assolutamente preso coscienza se non in forma subcosciente. I grandi cambiamenti che paiono all’ordine del giorno in politica e nella natura circostante sono sicuramente interpretabili in tale ottica, anche se bisogna star molto attenti a non cadere nelle illusioni.

È su siffatta base dottrinaria che va comunque impostato il problema ario, esattamente come hanno fatto a loro tempo Esiodo e Platone cogli Eroi (anche in quel caso una generazione umana e non una razza), anziché sul pregiudizio storicistico manifestato da certa Destra europea o all’opposto sul pregiudizio anti-storicistico proprio della parte politica avversa. La suddivisione del Manvantara può essere comunque alternativamente quinaria o quaternaria (6). La prima comprende le stesse periodizzazioni della suddivisione denaria, ma raggruppate a due a due; sicché ciascun ciclo raddoppiato – di oltre 12.960 anni – sarà messo in rapporto solamente colle 5 Grandi Direzioni (i Punti Cardinali + il Centro Polare Boreale, vale a dire l’Artide) (7), escludendo dal novero i Punti Intermedî (NE, SE, SO, NO + il Centro Polare Australe, cioè l’Antartide) (8).

Schermata 2019-07-01 alle 16.48.10
L’Uttarâkuru ed il Devakuru, sua immagine speculare, col Merupârvata al centro (gouache su tessuto, Râjasthan, XVII sec.).

La seconda invece è caratterizzata dal simbolismo dharmico ovvero da uno sviluppo regressivo del tempo, tale per cui in ogni ciclo – dall’Età dell’Oro all’Età del Ferro – gli yuga vengono raggruppati decrescentemente secondo la nota formula 4+3-2+1=10; quel che chiamasi, geometricamente, quadratura del cerchio. Si tratta d’un problema ermetico diffuso in tutta evidenza tanto nel mondo indo-iranico, quanto in quello greco-latino; e che è presente, seppure in modo meno conclamato, persino nella cultura celto-germano-slava. Le denominazioni cambiano qua e là, ma la sostanza rimane pressappoco la medesima (9).

Un analogo mito cosmogonico, checché ne pensasse Eliade, fa d’altronde capolino pure nel mondo semito-camitico, sebbene maggiormente occultato rispetto al mondo jafetico. Proprio quest’ultimo termine introduce d’altronde indirettamente il discorso sul Paradiso Boreale. Giacché delle 5 Grandi Ecumeni (Pañcamahādvīpa) presenzianti via via nel Jambudvīpa (o Dvīpa della Melarosa), l’estensione continentale caratteristica del VII Manvantara (benché qualcuno usi il termine in maniera più ristretta, quale sinonimo diBhārata ossia del territorio indiano), l’Uttara Kuru è la quinta in ordine di tempo. Venendo dopo l’Ilāvta (Artide), il Ketumāla (ad E), il Bhāratavar(a S), il Bhadrāśva (ad O) e situandosi a N (10).

Un Nord però ben distinto dall’Artide, quantunque per trasposizione un’ecumene rimandi all’altra e si riferisca ad una data direzione semplicemente come centro nevralgico d’espansione culturale in una determinata epoca. Ora, non è di Arî che dovremmo parlare in rapporto al Paradiso Boreale (Nordico), ma piuttosto di Jafeti, termine biblico assai più conveniente di quello ora citato ed ingiustamente rigettato dagli studiosi odierni (11).  Dato che, c’insegna ancora una volta Platone (12), i Semidei od Eroi – ai quali gli Arî paiono apparentati fin etimologicamente (13) – appartenevano all’Età del Bronzo.

Schermata 2019-07-01 alle 16.48.57
Il Jambûvriksha coi suoi 5 Rami (gouache su carta, Râjasthan, XVIII sec.).

Quindi, stando alla dottrina platonica, cronologicamente apparterrebbero ad un periodo di 12.960 anni antecedente alla mitica Età del Ferro (14).  Siccome quest’ultima è l’Età degli Uomini, non degli Eroi. Prima del grande filosofo del VI sec. a.C il poeta Esiodo (15) li collocava, invero un po’ disordinatamente seppur con efficacia, addirittura più addietro; cioè a mezzo fra l’Età del Bronzo e l’Età del Ferro, ma nello schema quinario da lui adottato sarebbe stato meglio parlare di III e V Era, ‘sì da associare l’Epoca degli Eroi alla IV.  Oppure introdurre il simbolismo d’un quinto metallo, come ha fatto la cosmologia iranica.

In termini cronologici precisi, il riferimento platonico è ad un ciclo che va dal 17.440 al 4.480 a.C., quello esiodeo ad uno protraentesi dal 23.920 al 10.960 a.C.  In altre parole, Platone pone gli Eroi fra l’Avvento dell’Atlantide ed il Diluvio di Deucalione; diversamente, Esiodo li situa per intero all’interno di quello che in termini di cosmologia gitana potremmo chiamare “Ciclo della Razza Rossa”. La Razza Rossa secondo la cultura zingara (16), non per niente d’origine indiana, era da considerare una razza mista (17). Cosa del resto comprovata oggi dall’etno-antropologia, che ipotizza l’arrivo di due ceppi incrociatisi sul suolo americano, uno paleoasiatico proveniente dall’Artide e l’altro austronesiano d’origine antartica. (Un terzo ramo etnico sarebbe giunto addirittura dal Pacifico.)

Non dichiarava la mitologia greca, vedi ad es. Eracle, che gli Hérōes od Hemitheoí erano figli di dèi intrattenutisi cogli umani? Le tradizioni ebraiche precisavano ulteriormente il concetto, asserendo seppur oscuramente (Gen.– VI. 4) che per genti eroiche andavano intese i discendenti dei “figlî di Dio incrociatisi colle figliuole degli uomini”.

Schermata 2019-07-01 alle 16.49.14
Il Jambûdvîpa (gouache su carta, Gujarat, XVIII sec.).

Insomma, secondo quanto in genere s’interpreta, sethiti e cainiti. Nonostante l’incongruenza del vate ellenico del VII sec., visto che questi ha adottato i termini ciclici della suddivisione quaternaria (Oro, Argento, Bronzo e Ferro) pur inserendo di fatto nella sua cosmogonia il numero di generazioni umane proprio invece di quella quinaria (Dei, Demoni Superiori, Demoni Inferiori, Eroi ed Uomini), la collocazione ciclica degli Eroi od Arî che dir si voglia da lui adottata appare corretta; una collocazione che oseremmo definire tardo-paleolitica, interpretando il problema in chiave paletnologica, gl’Indoeuropei – denominazione fasulla inventata per convenzione in epoca contemporanea, partendo dagli studî linguistici e mai unanimemente accettata se non nel Novecento – non essendo altro che l’ultima forma assunta dai biblici Jafeti dopo i varî incroci delle stirpi arie occidentali ed orientali con elementi razziali differenti (pre-arî).

Si deve tener conto altresì che nella stessa stirpe eroica platonicamente intesa, ovverosia piazzata 6.480 anni più tardi, andrebbero annoverati pur con distinzione percentuale Semiti e Camiti. In pratica tutti i discendenti del leggendario Noè, che i Greci chiamavano Eracle e gl’Indiani Ka (questi ultimi due sono stati peraltro identificati tra di loro sin dall’antichità), diversamente mescolatisi in territorio eurasiatico e nordafricano a quel che rimaneva nella V Era delle precedenti razze: la Bianca, la Gialla e la Nera; le uniche reputate pure dagli Zingari siccome mai ibridatesi, a differenza della Rossa e della Bruna, la penultima e l’ultima (18).

Schermata 2019-07-01 alle 17.05.50
Il Diluvio di Noè (L.Ghiberti, incisione lignea, Battistero, porta esterna, Firenze, XV sec.).

Secondo quanto comprova indirettamente il simbolismo originario dei colori dei 3 Re Magi, indicante cripticamente un passaggio di consegne sacrali dal bianco Baldassarre latore di Mirra (cioè d’Amore in senso profetico) dapprima al giallo Gaspare latore d’Incenso (Conoscenza in senso sacerdotale) e poi, alfine, al nero Melchiorre latore d’Oro (Potere in senso regale) (19). La figura di Noè non meno di quelle di Eracle e di Ka ha d’altronde biblicamente due aspetti, uno anti-diluviano e l’altro post-diluviano; nella mitologia greca, nondimeno, il personaggio di Eracle mostra alcuni rimandi olimpico-paleolitici ed altri eroico-mesolitici (20), già rilevati peraltro da Erodoto (21). Egualmente in India il IX AvatāraKa-Jagannātha, appare visibilmente la controfigura post-diluviana – o mesolitica se si preferisce – dell’VIII, Ka-Gopāla.

LEGGI ANCHE  Il Logos e la conoscenza di Dio nel Neoplatonismo di Clemente Alessandrino

Se dunque intendiamo gli Uttarākura dei testi indiani (dei quali il Bussagli rilevava un’eco negli Ottorokórrai dell’autore greco Amomèto) (22), a partire dal Mahābhārata, come i discendenti eracleo-noaico-krishnaiti nel loro assieme è chiaro che costoro debbano esser presi quale metonimia delle popolazioni dislocate pressappoco a nord dell’equatore nelle attuali contingenze del globo; ovvero, intendendole in senso cronologico, pressappoco gli abitanti eurasiatici (ad esclusione dei Paleoasiatici, che sono altra cosa, e di altri ceppi provenienti da sud ibridatisi colla Razza Gialla) degli ultimi 12.960 anni. Quelli insomma appartenenti alla cd.V Era, dominata secondo i gitani dalla Razza Bruna – la denominazione deriva dall’ebraico, cioè dal significato del nome Cam, che è il primo ad aprire l’ultima epoca – e secondo i greci dagli Ánthropoi.  Il loro paradiso (che è anche il nostro, di noi uomini attuali), chiaramente un’eco lontana di quello originariamente iperboreo in un mondo ancora preistorico evidentemente scemato via a poco a poco per lasciare il posto alle nefandezze del Kaliyuga, appare più una chimera che non una realtà effettiva.

The_Deluge_after_restoration (1)
Diluvio universale (Michelangelo Buonarroti, affresco rinascimentale, Cappella Sistina, XVI sec.).

Non è così che appare, infatti, la tanto decantata Thoulē (23) dei Greci e dei Romani? In ogni caso, le suddette popolazioni non rientrerebbero assolutamente fra gli Eroi esiodei, ma sarebbero viceversa da identificare in base a Platone per una metà agli Eroi e per l’altra metà agli Uomini; quel che insomma nel linguaggio paletnologico definiamo, grossomodo, Mesolitici e Neolitici. Nell’insieme le due categorie, si noti, corrispondono semplicemente agli Uomini dello schema quinario esiodeo. Lo schema quinario esiodeo è utilizzato in India soprattutto dal Mahābhārata, mentre lo schema quaternario platonico – talora lo usa anche Esiodo e viceversa fa Platone col quinario – ricorre spesso nei Purāa; fermo restando il fatto che le due soluzioni possano apparire invertite, qua e là, pure in India. Dato che si tratta d’applicazioni di determinate regole mitiche, non di forme di pensiero distinte. Lo schema quaternario è proporzionale, quello quinario paritetico.

Chiarito questo punto essenziale e rimandando ad altri studî (24) per una più ampia discussione dell’argomento, implicante necessariamente idee divergenti dalle nostre e meno aderenti ad una discussione di carattere propriamente cosmografico, ci accingiamo ad esaminare qui di seguito i riscontri del mito in campo letterario ed artistico. Sempre ricordando che il pregiudizio ario – malafede a parte – è in parte giustificato, ma solo in parte, dall’effettiva confusione intervenuta nei tempi ultimi fra l’Airyānem vaēĵo (25) – la definizione è propria dei testi sacri iranici, per quanto esista in India tutt’oggi una regione chiamata Hariyānā – ed il Vara (‘Recinto’ = Giardino) originario, che gl’indù conoscono come IlāvtaVide suprâ.

Schermata 2019-07-01 alle 16.49.54
Sem. Jafet e Cam (illustrazione biblica, Genesi, Epoca Contemporanea).

Siamo convinti da parte nostra che l’Airyanem Vaezo (questa la pronunzia corretta, colla -e- brevissima del gen.pl. e la -z- dolce) equivalga più o meno all’Uttara Kuru, insomma all’Ecumene Settentrionale e non a quella Artica, indipendentemente dalla parte di Artide cui si allude. E che il Vara (26) rimandi per contro al Pairi-daeza (il Paradeśa indiano), cioè l’Iperboride (27), sebbene nel testo iranico appaiano la stessa cosa. Ciò per il fatto che la sovrapposizione fra le due terre, poste cronologicamente agli antipodi del manvantara, è avvenuta costantemente così in Iran come in India. Tanto che è difficile distinguere al riguardo quando non vi siano altri riferimenti aggiuntivi che ne fanno due ecumeni separate, oltreché piazzate all’inizio ed alla fine del Grande Eone. Colla conseguenza inevitabile, passando il tempo, di sfumare l’una nell’altra.

Ultimamente ci siamo convinti che persino sul piano geografico, non solo cronologico e cosmografico, dovette esservi una netta distinzione fra le due terre. Poiché non è plausibile che la Terra Paradisiaca delle origini adamiche sia sprofondata di qualche centinaia di metri sotto il livello marino dell’Artide attuale e poi sia tornata parzialmente a galla, la cosa valendo esclusivamente semmai per la terra denominata Varāhī (28).  Se la nostra tesi è corretta allora significa che non meno dei 2 poli celesti gli stessi poli terrestri nell’arco di molti millennî devono essersi spostati all’interno dei rispettivi circoli polari da un dato punto ad un altro (attualmente i due poli geografici si trovano uno nell’Oceano Artico, in corrispondenza della Terra di Baffin, e l’altro nel bel mezzo dell’Antartide), oppure che la perdita dell’Iperboride sia avvenuta a causa di fattori climatici dovuti allo spostamento dell’inclinazione dell’asse terrestre, i dati tradizionali spingendo in tal direzione (29).

E la Regione degli Arî qual era allora? La Scandinavia o la Groenlandia (lett. ‘Terra Verde’) (30), od un’altra zona dell’Eurasia oppure dell’America Settentrionale (31)?  Personalmente siamo convinti che si trovasse nel Nord America, magari in Groenlandia od in qualche terra ad essa adiacente. Lo presuppongono i miti celtici.  E che poi si fosse spostata in una nuova terra, questa volta del Nord Europa (32). Stando alle denominazioni si potrebbe additare quale secondo centro d’irradiazione la Britannia (33), non a caso identificata all’Avallon, la ‘Terra delle Mele’. In quanto al passaggio da una riva all’altra dell’Atlantico, non è detto che si sia provveduto in un’unica soluzione, via Islanda. Potrebbe essere avvenuto anche un passaggio più a sud, via Azzorre, secondo quanto insegna la Bibbia: vedi leggenda dello sbarco sul Monte Ararat, nel mezzo dell’inondazione, cosa che sottintende un precedente ingresso nel Mediterraneo. Di là sarebbe poi avvenuta una ricongiunzione in Europa dei due filoni etnici di provenienza oltreatlantica.

Schermata 2019-07-01 alle 16.50.05
Yugalika sotto l’Albero del Kalpa (scultura indiana, bassorilievo granitico, Mus. di Mathurâ, Mathurâ, X sec. d.C.).

Il Paradiso Nordico nella letteratura e nell’arte

Riferimenti letterarî al tema sono reperibili al dire della Agrawala (34) nei Brāhmaa (Ait.B.– viii. 14 e 23), ma non nei Veda, oltreché nella letteratura epico-puranica (Har.P.– vii, Pd.P.– iii). Anche la tradizione buddhista ha fatto proprio il concetto, dal Dīgha Nikāya (At.– xxxiii. 4) al Mahāvānija Jātaka; ed, analogamente, quella jaina (Âdi Pur.– iii). I 2 elementi fondamentali caratterizzanti l’Uttarākuru sono la Coppia (o Mithuna, che i jaina chiamano Yugala) nonché l’Albero del Kalpa (Kalpavka o Kalpadruma). Sono siffatti emblemi, difatti, che spiccano nelle rappresentazioni artistiche (35). È soltanto nell’arte jaina però che l’Uttara Kuru viene illustrato sul piano cartografico. Non si tratta tuttavia d’una rappresentazione con riscontri geografici autentici, ma piuttosto d’una raffigurazione cosmografica ideale (36), tendente a contrapporre la suddetta ecumene al Devakuru, la Regione degli Dei (37).

Schermata 2019-07-01 alle 16.50.15
Yugalika sotto l’Albero del Kalpa (scultura indiana, pannello in pietra, Khajurâho, X sec. d.C.).

Secondo l’Agrawala il Paradiso Nordico ha finito per diventare nella mitologia indiana un paradigma di riferimento non meno d’altri paralleli emblemi di beatitudine e d’abbondanza quali il Vaso Ripieno (Pûraghata), la Cornucopia (Nidhiśga), la Vacca dei Desiderî (Kâmadhenu) o la Gemma del Pensiero (Cintamani). Ciascuno di codesti contrassegni costituisce un rimando prezioso per l’indù a quel misterioso quid interiore avente la proprietà, appunto, di soddisfare ogni desiderio. Il quid, ovviamente, è dato da quel che gli alchimisti occidentali ritengono il punto d’arrivo della cd. Grande Opera.

Adesso comunque a scopo di maggior chiarezza occorrerà spiegare ad uno ad uno gli emblemi citati, includendo quelli paradisiaci ad inizio e conclusione del discorso. Il Kalpa è la maggior unità di misura temporale nella cosmogonia indiana.  In 1 kalpa son racchiusi i 14 manvantara ed ogni kalpa indica pertanto un ciclo a sé di manifestazione.  Il Kalpavka ha perciò la stessa funzione del Jambūvka, seppur in un arco di tempo più ampio. Circa il Puraghata è presto detto. Non è che l’equivalente indiano della neopersiana Coppa Oracolare di Jamśīd, o del cristico Santo Graal.

Schermata 2019-07-01 alle 16.50.27
Uttarâkura, piaceri di coppia (scultura indiana., pannello granitico, pilastro frontale, Cancello Occidentale, Grande Stûpa, Sâñchî, I sec. a.C.).

Viceversa il Nidhiśga (lett. ‘Corno del Tesoro’) è associato spesso a Kubera e funge da Corno dell’Abbondanza, pieno di gemme, pur detenendo in sostanza le medesime prerogative della nostra Cornucopia, che invece è piena di frutta. Kamadhenu (lett. ‘Vacca del Desiderio’), prima-nata dal Rimestamento dell’Oceano di Latte (l’Oc. Artico), è alternativamente denominata Surabhī, Nandinī Ilā (vilā) e possiede delle controparti sia in Egitto che nel Nordeuropa. La bianca vacca Shilluk ad es., c’insegnano gli Stutley (38), è generata dal Nilo, mentre la norrenica Auohumla nasce del pari dalla fusione d’imponenti masse di ghiaccio. Invece la Cintamani non è che la Pietra Filosofale.

In conclusione, il Mithuna nella Landa Nordica è poeticamente immaginato vivere in una condizione atemporale di perpetua beatitudine ed invariata prosperità, esente dai bisogni e dalle pene affliggenti la comune natura umana. In tale idillica visione i membri delle varie coppie paradisiache sono descritti nel compimento d’una vita mai lontana da quella del proprio partner, inseguendo un destino parallelo di morte indolore.

Schermata 2019-07-01 alle 16.50.43
Uttarâkura, piaceri di coppia (scultura indiana., pannello granitico, pilastro frontale, Cancello Settentrionale, Grande Stûpa, Sâñchî, I sec. a.C.).

Quasi un rapimento estatico, in linea coll’intimo rapimento dei sensi in cui hanno trascorso la loro esistenza. Nel 1972 il prof. Bussagli (ordinario di Storia del’Arte dell’India e dell’Asia C. alla ‘Sapienza’ di Roma), in occasione della pubblicazione del suo bel saggio sull’eros (39), introduceva così l’argomento:

« Un’antica leggenda indiana, rimasta viva attraverso i secoli, descrive gli esseri che abitano il “continente del nord”, l’Uttarakuru delle fantasiose cosmologie tradizionali, e li immagina come esseri umani di straordinaria bellezza, nati senza dolore, a coppie (maschio e femmina), destinati ad un rapidissimo sviluppo. Ogni coppia, perduta nella reciproca contemplazione, esperta di tutti i piaceri ed i giuochi d’amore vive diecimila anni di fiorente giovinezza. Nati insieme, i due muoiono contemporaneamente, stretti in un abbraccio supremo e i giganteschi garuda, uccelli magici che si nutrono di serpenti e di elefanti, trasportano i loro corpi sulla montagna, che è l’asse del mondo, senza che resti traccia o memoria della loro vita, del loro aspetto, della fiamma d’amore che li ha alimentati ed avvinti per millenni. »

Schermata 2019-07-01 alle 16.48.26
L’Uttarakuru, ove gli uomini vivono sempre accoppiati (yugalikau)(gouache su carta, Râjasthan, XVIII sec.).

Note:

1) Per l’etimo di codesta espressione vedi da un lato il gr.chra (‘terra, territorio’), scr.kur-u/ kurā (id.); dall’altro l’ing.ut-t-er (‘esteriore’), compar. di un’arcaica prep.*ut (‘fuori’, donde l’ingl.mod. o-ut), sup.ut-most o ut-ter-most (‘estremo’).  Cfr. col comp.out-er (più esterno’), sup.out-most o out-er-most (‘molto più esterno’).  Corrispondentemente in greco abbiamo, in quasi analoga accezione, il comp.m.hýs-t-eros ed il sup.m.hýs-t-atos; del pari, in sanscrito, il comp.m.ut-t-ar-a (f.–ī) ed il sup.m.ut-tam-a (f.–î).  La particella di riferimento in tal caso è ud, preposizione che viene erroneamente assimilata all’ing.up(‘su’) ed in rari casi compare da sola.  Ud equivale invece allo zend uz, got.ūt, aat.ūz, nat.ausausser.  E significa ‘fuori, da’.  Da notare che le voci greche citate indicano una “secondarietà nello spazio e nel tempo” secondo il Vocabolario Greco-italiano di D.G. Gemoll (ed.R.Sandron, Milano-Palermo 1922, s.v.hýsteros, p.831, col.b), traduz. del Dizionario greco-tedesco dello stesso autore; mentre quelle sanscrite, in senso figurato, significano rispettivamente ‘del nord’ e dell’estremo nord’.  Pertanto, da tutto ciò deduciamo che l’Uttarā Kuru non era la Terra Iperborea, ecumene per la quale l’India ha riservato la denominazione speciale d’Ilāvt(‘Terra Nascosta’), bensì la Terra Settentrionale; se dell’America o dell’Eurasia non è ben chiaro, ma crediamo della prima.

LEGGI ANCHE  Il Cuore e la Vulva: un viaggio nelle comuni simbologie

2) G.Acerbi, Kālacakra. La Ruota Cosmica– Univ. “Ca’Foscari”, Venezia 1985, P.II, Cap.V, pp. 364.5.

3) Cfr. G.Acerbi, Le ‘Caste’ secondo Platone. Analisi dei paralleli nel mondo indoeuropeo– Convivium (Sear), A.IV, N°12(gen.-mar.), Scandiano 1993, P.II, Cap.V, pp. 364-5.

4) Nel breve studio introduttivo alla IV Ecloga L.Canali (Virgilio, Bucoliche-Rizzoli, Milano 1978, p.93) interpreta il passo delle Buc.- iv. 4-55 ss quale riferimento evidente al nuovo ciclo di 10 grandi anni annunciato dalla Sibilla Cumana, ogni grande anno essendo caratterizzato da un metallo.

5)  C.Berlitz, 1999, l’anno dell’Apocalisse– Mondadori, Milano 1984 (ed.or. Doomsday 1999 A.D.), p.49, fig.n.num.

6) Nello schema grafico quaternario proprio del calendario annuale europeo compaiono soltanto 4 Direzioni anziché 5, a meno di considerare anche il centro; sicché sarà il Solstizio Invernale, cioè il N (in relazione al Nadir), a rappresentare il Polo Nord.  Mentre il Solstizio Estivo, ossia il S (in relazione allo Zènit), rappresenterà il Polo Sud.  Cfr. in proposito R.Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici– Mediterranee, Roma 1974, passim; ed. or. Formes traditionnelles et Cycles cosmiques- Gallimard, Parigi 1970).  Ragion per cui l’Equinozio di Primavera, in rapporto all’E, comprenderà non solo l’E; ma anche le 2 direzioni intermedie, il NE ed il SE.  Parimenti l’Equinozio d’Autunno, in rapporto all’O, compronderà non solo l’O, ma anche il SO ed il NO.  Se invece applicassimo alCaturyuga lo schema quaternario zodiacale, come fa anche l’Alighieri (Par.- xxvi, 138-42), dovremmo appaiare la Primavera e quindi l’E all’Età dell’Oro, l’Estate ed il S all’Età dell’Argento, l’Autunno e l’O all’Età del Bronzo, l’Inverno ed il N all’Età del Ferro.   Nel primo caso l’applicazione è di carattere direzional-annuale, nel secondo ritmico-stagionale.

7) Oggidì l’Artide coincide colla Siberia per coloro che ostinatamente intendono il polo geografico boreale come fisso, ma se accettiamo l’idea che il polo – o meglio la crosta terrestre – sia mobile è evidente che in passato il circolo artico possa essersi trovato in altra regione: Scandinavia, Terra di Baffin od Alaska.  Come determinati studî, d’altronde, hanno rilevato (G.Hancock, Impronte degli Dei– Corbaccio, Milano 1996; ed.or. Fingerprints of the Gods, 1995).  Si possono consultare, in proposito, due altri scritti citati dall’autore nella P.V del libro testé indicato: C.H. Hapgood,Lo scorrimento della crosta terrestre– Einaudi, Torino 1965; Id., The Path of the Pole, Chilton B., N.York 1970.

8) Lo stesso discorso di cui alla n.prec. vale per l’Antartide, dove però a causa del prevalere delle terre sommerse gli spostamenti polari sono naturalmente piú difficili da constatare.

9) Purtroppo è questa suddivisione corretta, basata sui 5 punti cardinali (tradizionalmente sono 5, non 4, essendo da considerare pure il Polo Artico) e quelli intermedî che è mancata al tradizionalismo nostrano fin dai tempi di F. d’Olivet a differenza di quello autentico (indiano, ad es.); sicché ne è derivata un’impostazione sbagliata già in partenza, pur facendo capo a grandi personaggi di grande valore come Guénon ed Evola.  In ciò va vista, ad ogni modo, la mano sottesa d’un certa organizzazione contro-tradizionale retta da Saint-Yves.  Dagli autori citati, parlando di cose tradizionali non si può tuttavia non prescindere, è giusto riservare loro l’onore che meritano; però nello stesso tempo vanno corretti i loro errori, perché questo rientra nell’ottica stessa dei loro insegnamenti.

10) A dimostrazione di ciò, in una cartina riportata da D.C. Sircar nel suo Cosmography and Geography in Early Indian Literature – e riprea in C.Blacker & M.Loewe, Antiche cosmologie– Ubaldini, Roma 1978 (ed.or. Ancient Cosmologies– G.Allen & Unwin- Londra 1975), Cap.5, p.105, n.9 – il Monte Meru è posto al centro d’un cerchio attorniato dalla catena montuosa del Lokāloka ed illustrante la situazione della Terra a livello cosmografico.  In alto, cioè al Nord, è posto l’Uttarākuru.  Se fosse stato la medesima cosa del Meru, quest’ultimo non sarebbe stato collocato in mezzo ai 4 Dvīpa. Gli autori, non avvedendosi della differenza ora indicata, identificano erroneamente gli Uttarākuru (si dice tuttaviaUttarākura) cogli Iperborei.  L’errore di confondere il Nord col Polo Artico è stato commesso praticamente da tutti, anche da Evola e Guénon (rispettive scuole comprese), seppur più dall’uno che dall’altro.  Negli anni maturi Guénon ha messo in guardia per la verità gli europei dal loro eurocentrismo, ma nel bailame generale – e forse per una questione karmica visto il tributo da questi offerto in gioventù all’Oto (attraverso il ramo Papus-Reuss) o meglio all’Otr al dire di alcuno (M.Introvigne, Il cappello del mago– Sugarco, Varese 1990, P.II, Cap.7, p.276 e Cap.6, pp. 237-8), non meno di Evola e di altri – ha finito pure lui per cadere parzialmente nelle trappole della Sinarchia.  Anche se il suo pensiero deve ancora essere esplorato per intero.  Il prof.Introvigne, lo si capisce fin troppo bene, cerca di screditarlo facendolo passare per uno spiritista convertito di poi all’islamismo; con tutto quel che ne consegue in termini di serietà spirituale, evidentemente.  Questo non è un buon motivo, da parte di altri, per negare i passaggî necessarî che hanno condotto il maestro francese alle sue posizioni successive.  Anche dei profeti le varie scritture non negano la fase infera.

11) Il biblico Iaphet equivale al titano greco Iapétos, figlio di Urano e padre di Atlante oltreché di Prometeo ed Epimeteo.  Secondo taluno (A.Morelli, Dei e miti. Enciclopedia di mitologia universale– E.L.I., Torino ?, s.v.Giapéto, pp. 256, col.a– 257, col.b) “Giapeto è forse da identificare con Jafet, figlio di Noè. A suffragio di quest’ipotesi non sta soltanto la somiglianza dei nomi. Prometeo, figlio di Giapeto, è considerato il progenitore della stirpe greca. Orbene, uno dei figli di Jafet è Javan, e Javan è il termine col quale presso i Semiti si designavano i Greci, cioè gli Ionii. E non basta; il libro della Genesi (10, 5) precisa: «Da essi (cioè dai figli di Javan) vennero i popoli che si sparsero per le isole delle genti».  Quelle isole non possono che essere l’arcipelago greco”.  Il Morelli ha ragione, soprattutto se si tien conto che da Prometeo nasce Deucalione e da questi Elleno. In un’altra versione del mito Deucalione è figlio di Minosse, doppione di Prometeo. Il nome ebraico di Iaphet rimanda altresì a quello indiano di Prajāpati, lett. il ‘Signore (Pati) della Progenie (Prajā), divinità argentea posteriore a Varua.  Il s.f. pra-jā è formato difatti in sanscrito dal pref. pra- (lat.prae-, gr.pro-) e dal part.pass.–jā (‘nato’). Perciò ne ricaviamo che il nume presiedente al KaliyugaPrajāpati appunto (vecchio titano orionico-solare riciclato nei tempi ultimi non meno di Prometeo, che nella sua veste anteriore equivaleva a Crono), ha funto da antenato archetipico umano dopo la morte di Ka alla Fine del Dvāparayuga. Non per nulla è sostituito nei testi indiani, a volte, da Manu; non il Manu originario, aureo, ma piuttosto il prototipo dei Manua (‘Uomini’) in senso ctonio. Si spiega in tal modo l’equivalenza di Manu con Minosse, Varua con Urano, Prajāpati con Giapeto, Ka (o Noè, se vogliamo) con Atlante; e del cerviforme orionico Elleno (vedi etimo) col cacciatore orionico Nebrod, la figura biblica cui è attribuita la leggendaria edificazione della Babelica Torre. In alte parole, la creazione d’un infermo sub-terreno (palpel in ebraico, c’informa il Semerano, significa ‘confondere’), secondo quanto c’insegna l’iconografia occulta della XVI Lama dei Tarocchi.

12) Crat.- xv/c-xvi/ e.

13) Il gr.Hérōs (‘eroe’) è visibilmente apparentato dal punto di vista filologico al scr.Ārya (‘nobile, rispettabile’).  Gli Hérōes non a caso sono messi da Platone in rapporto alla classe commerciale ed artigianale (agricoltori compresi), utilizzante il fattore della fecondità rōs) quale principio-guida; ebbene, ciò è proprio pure degli Ārya. Se è vero che il s.m. arya, scritto colla a breve, significa in sanscrito ‘commerciante’. Il fatto che anche gli Eroi utilizzassero le armi o fossero re, principi non provava la loro reale appartenenza all’aristocrazia, così come i militi del mondo antico e moderno non appartengono per lo stesso motivo alla generazione eroica seppure si siano autoproclamati imperatori. A meno di speciali meriti, sempre possibili anche al di fuori d’una categoria sociale consolidata od in tempi posteriori a quelli dell’espansione ciclica di un dato ceto. Come insegna la Grecia. Cfr. in proposito Ac.,art.cit., pp. 17-8.

LEGGI ANCHE  Pierre Hadot e gli esercizi spirituali nell’antichità 

14) Che nulla ha che fare, ovviamente, coll’età archeologica in questo modo denominata.

15) Hês., Op.- vv. 156-73.

16) Cfr. G.Acerbi, Pañcajāna, le ‘Cinque Razze degli Zingari e i ‘Semi’ del Tarocco– Algiza, (N°12), Chiavari 1999, p.16.

17) Il concetto di razza presso Greci e Latini era assente, tant’è che non vi sono termini greci o latini per indicarlo. Il termine ghšénos (lat.genus), connesso al lat.gens (scr.jāna, jāta/ i), designa in realtà la stirpe o il lignaggio.  La voce ‘razza’ infatti è considerata dagli etimologi d’incerta origine, quantunque paia derivare dall‘a.frc.haraz(‘allevamento di cavalli’). Il francese moderno utilizza race,ma mantiene ancora il s.m.haras, col significato di ‘razza, mandria; deposito di stalloni, stabilimento equino da monta.’ Probabilmente è un nome onomatopeico in riferimento alla monta dei cavalli, ma connota in generale un atto ripetitivo.  In tal senso cfr. i seguenti due verbi: il frc.harasser(‘stancare’) ed il gr.arássō (‘battere facendo rumore’).

18) Ibîd.

19) Questa nostra interpretazione non è campata per aria, ha un significato tradizionale indipendentemente dal colore proprio della pelle dei Re Magi. Tant’è che ritroviamo un’identica ripartizione simbolica in un contesto non cristiano, una fiaba nordica raccolta e riadattata da O.Wilde nella sua raccolta di fiabe pubblicata nel 1891, Una casa di Melograni. Il racconto, intitolato Il Pescatore e la sua Anima, concepisce un viaggio dell’Anima una volta disgiunta dal Pescatore verso le 4 Direzioni del Mondo.  La prima tappa è ad Oriente, da dove origina lo Specchio della Saggezza, in cui si riflette tutto ciò che esiste tranne colui che guarda. Tornata dal Pescatore l’Anima gli chiede di rientrare in lui, che l’aveva abbandonata onde dedicarsi ad un sogno d’amore per una Sirena. Ma il Pescatore le nega il rientro, poiché “l’Amore è meglio della Saggezza”. La seconda tappa è a Sud, dove l’Anima reperisce l’Anello della Ricchezza. Stesso cerimoniale al ritorno, ma ancora una volta il Pescatore la respinge, poiché “l’Amore è meglio della Ricchezza”.  Le altre due tappe, teoricamente ad Ovest e a Nord, paiono soppresse in ciò che è rimasto del racconto originario, o meglio ridotte confusamente ad una. Però vi è un ultimo tentativo da parte dell’Anima di rientrare col ricatto del piacere ed ancora una volta il Pescatore le dice di no. Poiché “l’Amore è meglio del Piacere”. Fino a che la Sirena non muore, determinando la morte per disperazione anche del Pescatore, costretto qualche istante prima tuttavia a lasciare un pertugio alla propria Anima per tornare una sola cosa con lui. Orbene, se intendiamo l’Amore in rapporto alla Direzione Suprema, la quinta, che trascende le altre (in altre parole la Direzione Polare), è chiaro che nel contesto l’Amore svolge la parte della Mirra, la Saggezza dell’Incenso e la Ricchezza dell’Oro. In una versione sceneggiata della suddetta narrazione, realizzata nel 2000 e presentata invano a qualche casa cinematografica milanese e romana per la realizzazione d’un film in 35 mm, abbiamo da parte nostra modificato la trama a tal punto da ricreare le 2 Direzioni mancanti colle relative Ecumeni (Occidentale e Nordica, cioè un’Atlantide fantastica e la Gran Bretagna storica), l’insieme essendo ovviamente in relazione ai 5 Elementi. Ma è chiaro che le più importanti sono le prime 3, le uniche non a caso presenti nella fiaba. Esse equivalgono quindi ai 3 Re Magi, incarnanti simbolicamente le prerogative psichiche delle 3 Razze fondamentali: la Bianca, la Gialla, la Nera.

20) Cfr. C. Bonnet Xella, Le grandi Fatiche di Ercole– Archeo (IX, N°1 [107], gen. ’94), De Agostini-Rizzoli, Roma 1994, pp. 58-71inoltre, G.Acerbi, Il Re Pescatore e il  Pesce d’Oro…– Atanor, Roma 2013 (pross.), Cap.VI, passim.

21) Ibid., p.72.  Questo fatto dà l’impressione che in realtà i Semidei, diversamente da quanto comunicatoci da Esiodo e Platone, erano distinti dagli Eroi. Questi ultimi erano insomma più vicini agli Uomini, cronologicamente e caratterialmente; mentre gli altri indicavano i diretti discendenti, sul suolo atlantideo od americano che dir si voglia, di coloro che la tradizione ebraica definisce Sethiti e Cainiti. Gli eroi sarebbero, in altre parole, i superstiti del Diluvio.

22) Altri scrittori greci, come Tolomeo, ne hanno in realtà parlato; altri ancora, quali Megastene, si sono riferiti secondo Lassen agl’Iperborei ma intendevano gli Ottorakórra(L.B.G. Tilak, The Arctic Home…– Tilak Bros., Poona 1971, ed.or. 1903; Cap.XI, pp. 319-20).

23) Lett.‘terra’: lat.tellūs (id.); scr.tala = ‘base, superficie, fondo, pianta del piede, suola della scarpa’ etālā/ tallikā = ‘terra fragrante’. Altri (J.Evola, Rivolta contro il mondo moderno– Mediterraneee, Roma 1969, I ed.1934; P.II, Cap.2, p.232) fa derivare il termine da Tonalan  (‘Terra del Sole’), donde la contraz. in Tullan, patria mitica dei Toltechi.  Come si può spiegare l’aspirata, in tal modo, nel gr.Thoúlē?  Seppure siamo convinti si tratti invero d’un unico etimo originario, alludente da un lato al cielo od al sole e dall’altro alla terra, facciamo notare che l’aspirazione differenzia talora nelle lingue indoeuropee la seconda accezione dalla prima: cfr. ad es. il scr.kāla (‘tempo’ in senso celeste), lat.arc. càelus (‘cielo’ in senso atmosferico), con khala / kuru/ ku (‘terra’), gr.chṓragē (id.).  Dunque, osserviamo, la consonante iniziale dei vocaboli ctonî varia dalla gutturale (k-kh-, gh-) alla dentale (t-, th-, d).  Il gr.chtṓn (‘terra’) le riassume tutte, poiché unisce la gutturale alla dentale, seppur la liquida mediale (-r-, -l-) si sia nasalizzata.  Invece nel lat.humus (‘terreno, suolo’), solitamente appaiato ad esso per via dell’avv.chamaí(da *chamá = id., dove la -m- corrisponde alla -n-), è perdurata unicamente l’aspirata.

24) R.C. Jain,The Most Ancient Aryan Society– I.B.R., Delhi 1964, Cap.III sgg.

25) Codesta locuzione è stata intesa come ‘‘culla degli Arî” (Til., op.cit., p.295), intendendo vaēĵo come termine apparentato al scr.bīja (‘seme’); ma sarebbe più corretto filologicamente a nostro giudizio collegarla col scr.vara/varta (‘terra, continente’).  Insomma, l’Airyānǝm vaēĵo altro non è che l’Āryavarta, in tutte le accezioni nelle quali si può intendere l’espressione; benché la prima parola in iranico sia un nome declinato al genitivo plurale ed in sanscrito un’apposizione attributiva, alla maniera dell’inglese.  Vedi sul tema G.Acerbi, Il mito del Gokara ed il drammatico agone fra Perséo e Medúsa– Alle pendici del Meru (17-01-13), su questo blog, pp. 11-2, n.8.

26) Cfr. in proposito il scr.Īśvara, voce ove la prima parte (ĪśĪśa) del nome composto allude allo Spirito Supremo ossia al Signore in senso personale; mentre il suff.–vara, apparendo d’incerta origine, potrebbe celare un rimando cosmografico obliterato al suddetto “Recinto”. Tanto più che la base *var-, indicante occultamento, è rintracciabile nella seconda parte del termine Ilā-varta, variante terminologica di Ilāvta. Il senso dell’espressione è quello stesso del lat.Latium, dal vr.lateo = ’esser nascosto’, ossia di ‘(Terra) Nascosta’.  Il scr.ilā (‘terra’, in senso boscoso) è appaiabile, piú precisamente, al gr.Ýlē (‘selva’).

27) Quel che asserisce Guénon (op.cit, Cap.II n.num., p.31) ovvero che il pref.yper venne aggiunto dai Greci in un tempo – l’Età Classica – in cui non si conosceva più il senso dell’attr.Borš-éa-s (‘boreale’), ch’egli collega alla radice da cui proviene il nome del verro (scr.var-āh-a), non è corretto; è semmai vero il contrario, ossia che è il tradizionalismo europeo contemporaneo ad aver smarrito la distinzione originaria fra Ciclo Iperboreo e Ciclo del Nord. Ciononostante, questa distinzione fa capolino ogni tanto sia nella cosmografia guénoniana che in quella evoliana, senza che i due autori ne traggano le dovute conseguenze. Ciò che l’autore francese aggiunge subito dopo relativamente al Ciclo del Cinghiale e a quello dell’Orso dimostra che egli confondeva gli assunti della tradizione druidica con quelli della tradizione brahmanica. Del resto, il nome Vārāhī non allude tanto alla ‘Terra Iperborea’ quanto alla ‘Terra Orientale’. Tutta la questione in verità è maggiormente complessa di quanto non si dica ora in nota, andrebbe trattata in modo specifico come argomento a sé.  E se la semplifichiamo, lo facciamo esclusivamente per una ragione di spazio.

28) Confusa con essa ma in realtà un doppione dell’Ecumene Orientale, il Bhadrāśva, chiamato dagl’indigeni polinesiani Hawai-ki; tanto che nella contemporaneità questo nome ha finito per diventare, mutatis mutandis, il nome d’un esotico succo di frutta proveniente dal Pacifico.

29) Sul tema magnificamente Evola (op.cit., Cap.3, p.235) cita un passo decisivo (Li-tze– v), menzionando il Gigante Kung-Kung che “infrange la colonna del cielo”.

30) Evola (ibid., p.237) osserva al riguardo:  “La Groenlandia, come sembra dirlo lo stesso nome, fino al tempo dei Goti pare presentasse una ricca vegetazione e non fosse investita ancora dal congelamento.” Ciò è estremamente interessante, indipendentemente dal fatto che l’autore confonda l’Artide col Nord. Cosa comprensibile, d’altronde, se è vero che è avvenuta anche nei testi tradizionali e nei dati di trasmissione orale.

31) Vedi in proposito quanto specificato in Ac., art.cit., n.12.  A tal quesito proveremo a rispondere prossimamente in un libro che abbiamo intenzione di preparare, intitolato Gli Avatāe lo slittamento dei Poli, di cui fra breve pubblicheremo ivi anticipatamente in forma d’articolo a sé stante il capitolo conclusivo, già provvisoriamente stilato.

32) Anche altri (F.Vinci, Sulle tracce dell’Eden- Hera, N°109, feb. ’09, passim), benché non distinguano fra una terra atlantica post-paradisiaca (il vero Eden, cioè l’Eren al dire del Dupuis, letteralmente la ‘Terra degli Arî’) ed il Paradiso Terrestre, pongono  l’ultima patria – ci verrebbe da dire “l’Ultima Thule” – prima dei tempi storici nell’Europa Settentrionale; e non in Asia Centrale, ove l’importazione dei cavalli parrebbe relativamente  recente.

33) Evola (cit., p.239, n.18) menziona un altro passo, di Ecateo d’Abdera (IV sec. a.C.), ove è stabilito che la Britannia era stata abitata dagli Iperborei. Queste genti, d’origine subartica, sono state identificate ai Protocelti; un ramo celtico evidentemente strettamente affine se non identico a quello protogermanico, costituito di pescatori e cacciatori, che pare abbia preceduto il ramo celtico più evoluto (camito-druidico) d’origine mediterranea. Questo secondo ramo era viceversa dedito alla pastorizia e all’agricoltura, secondo quanto l’archeologia subacquea ha provato di recente attraverso i reperti del Doggerland, la striscia di terra che univa tempo fa la Britannia all’Europa prima dell’ultima inondazione. Ed avrebbe raggiunto la zona all’inizio del Neolitico, ovvero c. 6.000 anni fa, fondendosi poi colla popolazione locale.

34) P-K. Agrawala, Mithuna. The Male-Female Symbol In Indian Art and Thought– Munshiram M., N.Delhi 1983, Cap.3, pp. 15-6.

35) Ibid., ill. 24, 26, 43, 44.

36) C.Caillat,& R.Kumar, Jain Cosmology– Ravi Kumar/ Lilakala AG, Basilea-Parigi-N.Delhi 1981, p.159, tav.83.

37) Ibid., p.157, tav.82.

38) M.&J. Stutley, Dizionario dell’Induismo– Ubaldini, Roma 1980 (ed.or. A Dictionary of Hinduism– Routledge & Kegan P., Londra 1977), s.v.:KĀMADHENU, pp. 204-col.b-205, col.a.

39) M.Bussagli, Eros indiano– Bulzoni, Roma 1972, Intr., p.11.


Un commento su “Uttara Kuru, il Paradiso Boreale nella cosmografia e nell’arte indiana

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *