Il sacrificio del bufalo e i culti funerario-megalitici nel Sulawesi e nel Sud-Est asiatico

Dall’analisi dei riti funerari indonesiani (Sulawesi e Sumba), e più in generale nell’Asia Sud-Orientale, emerge un canovaccio concettuale comprendente l’erezione di megaliti, il sacrificio rituale del bufalo d’acqua (animale psicopompo per eccellenza), il culto degli Antenati e il suo legame con la fertilità delle risaie. Cerchiamo di capire come ambiti simbolici così differenti si siano, nei millenni, armonizzati fra loro.


di Marco Maculotti

Esiste una correlazione molto stretta, per le popolazioni dell’isola del Sulawesi, nell’arcipelago indonesiano, tra gli Antenati, la pietra e la fertilità delle risaie. Qui, i corpi dei defunti vengono inumati dentro grotte, pareti rocciose o megaliti appositamente eretti, perché le popolazioni tribali ritengono che l’anima del trapassato possa ancora giovare alla vita comunitaria, in particolar modo all’abbondanza e alla salute del suo clan e alla fertilità dei loro campi e armenti.

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I «tau-tau», tipici della tradizione funeraria del gruppo etnico Toraja, alter-ego lignei del defunto; Sulawesi meridionale. Tutte le foto presenti in questo reportage sono dell’Autore e, di conseguenza, da intendersi di proprietà esclusiva di A X I S m u n d i. Le didascalie degli slideshow si trovano in appendice al reportage, dopo le note

Anche per questo, come vedremo, le tradizioni indonesiane (ma anche, estendendo l’area di studio, del Sud-est asiatico in generale) connettono in maniera nettissima i rituali funerari al sacrificio rituale del bufalo d’acqua, che nella loro cultura è considerato l’animale psicopompo per eccellenza, strettamente connesso agli spiriti ancestrali degli Antenati e, quindi, intermediario ideale fra il  mondo spirituale (che è anche il mondo dei morti, nonché quello degli «spiriti della vegetazione») e quello degli uomini.

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Le modalità di sepoltura cambiano da tribù a tribù: nel sud dell’isola, dove è stanziato il gruppo etnico Toraja, i resti degli avi defunti vengono riposti dentro le caratteristiche bare a forma di barca (erong), a sottolineare il simbolismo del viaggio dell’anima verso l’«altra riva», e spesso accumulati all’interno di grotte sacre (simbolismo della regressione all’«utero cosmico»), adibite a contenere ciò che rimane degli antenati clanici.

Quando il corpo del defunto viene adagiato nella caratteristica bara, una statua di legno con le sue sembianze, detta tau-tau («piccola persona») viene collocata su un balcone di legno costruito sulla parete rocciosa dirimpetto alla sepoltura, dal quale lo spirito del defunto, “inglobato” ritualmente all’interno del suo alter-ego ligneo, sembra osservare con benevolenza i campi sottostanti, per la fertilità dei quali viene invocato ed onorato dai discendenti ancora in vita.

Salendo verso settentrione, nella parte più orientale dell’isola ci si imbatte di tanto in tanto in altri tipi di sepolture, egualmente caratterizzate da elementi litici: qui i morti vengono inumati all’interno di enormi blocchi di pietra, nei quali viene scavata una “finestrella” per accogliere i resti del defunto, posizionati in mezzo alle risaie, a conferma della strettissima relazione intercorrente fra spiriti dei morti/Antenati, pietra e fertilità dei campi, cui abbiamo peraltro già accennato in un precedente reportage [cfr. MACULOTTI: Bada Valley: i megaliti “xenomorfi” nella giungla].

Qui non solo il trapassato riposa nella pietra: egli stesso diventa pietra, venendo commemorato dai discendenti tramite l’erezione cerimoniale di un megalite che lo rappresenta. Ormai immune al mondo dei cambiamenti lasciato definitivamente alle spalle, immobile e imperturbabile come solo la roccia può essere, nondimeno si ritiene che la sua anima incarnata nel megalite possa ancora giovare ai suoi discendenti propiziando i raccolti.

Probabilmente così si spiega la presenza di massi funerari nel bel mezzo delle risaie a terrazzamenti, nonché la loro forma che ben si può definire fallica e che con tutta probabilità rimanda a un corpus mitologico esistente — non solo in questa area del mondo — fra spiriti degli antenati, mondo sotterraneo, fertilità dei terreni e abbondanza delle coltivazioni e dei raccolti. Nonostante le differenti modalità di inumazione, non cambia dunque l’ambito mitico-simbolico di cui desideriamo trattare in questa sede.

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A tal fine, ci serviremo soprattutto dell’illuminante nonché corposo saggio di Francesco Brighenti Sacrificio di bovini, rituale funerario e culto degli antenati nelle culture tribali dell’India e del sudest asiatico (la cui lettura è caldamente consigliata per comprendere l’ambito etnico e geografico della diffusione di questi rituali e credenze), da cui estrapoleremo le informazioni più pregnanti per mettere in risalto la triplice connessione fra sacrificio del bufalo/spiriti degli Antenati (e dei morti)/fertilità dei campi.

Abbiamo già anticipato come, in tutte le culture più arcaiche dell’arcipelago indonesiano (e, come vedremo, di larga parte dell’Asia meridionale e sud-orientale), il bufalo d’acqua è ritenuto, in un’ottica mitico-rituale, l’animale psicopompo per eccellenza, colui che accompagna l’anima del defunto nell’aldilà e che intercede per conto della comunità presso gli spiriti divini e ancestrali dell’Altro Mondo. Brighenti rileva opportunamente come il rapporto che il bufalo intrattiene con gli Antenati si riverberi nel simbolismo architettonico delle corna bovine nelle abitazioni tradizionali dei Toraja del Sulawesi: la casa stessa, costruita su palafitte, è concepita come una rappresentazione su scala microcosmica dell’universo [BRIGHENTI: p. 40].

Egualmente e forse spingendosi oltre, i Lamboya della vicina isola di Sumba concepiscono le rispettive abitazioni come «bufali viventi». Sia nel Sulawesi che a Sumba, le corna dei bufali sacrificati ritualmente durante le cerimonie in onore degli spiriti degli Antenati e dei defunti vengono inchiodate in lunghe file a determinati elementi strutturali della casa [ivi, p. 42]. Teste di bufalo stilizzate ornano i giunti delle travi che sorreggono le abitazioni.

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Alcuni studiosi, oltre a sottolineare il simbolismo architettonico connesso all’equiparazione bufalo-Antenati, avanzano anche l’ipotesi che la tipica forma del tetto indonesiano avrebbe preso a modello anche «le imbarcazioni a bordo delle quali antiche genti di lingua austronesiana raggiunsero le isole dell’Indonesia» [ivi, p. 41].

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Ciò appare altamente probabile a chi scrive, avendo avuto l’occasione di visitare personalmente alcuni siti funerari dei Toraja del Sulawesi meridionale, presso la provincia di Tora Toraja: adagiati all’interno di grotte o presso pareti rocciose — come già anticipato –, i teschi e le ossa degli antenati defunti stanno in bella vista, posti dentro o sopra bare lignee dalla forma innegabilmente ispirata a quella tipica delle barche. Egualmente i Gie Trieng, etnia mon-khmer stanziata nell’Annam settentrionale, collocano i corpi dei morti in bare lignee a forma di piroga, decorate con sculture di bufali [ivi, p. 39].

Impossibile non rintracciare in questa consuetudine la concezione arcaica (e diffusa ben oltre il Sud-Est asiatico) del viaggio dell’anima del defunto verso l’«altra riva» dell’Altro Mondo (con annesso il topos ricorrente della prova consistente nel guadare un fiume, o nel sorpassare una distesa oceanica, e via dicendo). D’altra parte lo stesso Brighenti rileva come, nella tradizione del Sud-Est asiatico, il bovino psicopompo si presenta come un «animale-barca» che conduce l’anima del deceduto verso il regno dei morti [ivi, p. 41, nota 80], che — ricordiamolo — è in qualche modo connesso alla dimensione umida, buia e germinale delle «acque sotterranee», e quindi in connessione anche con la fertilità dei campi.

A tal proposito, è a dir poco illuminante il fatto che i Toraja del Sulawesi, nei propri miti cosmogonici e di origine, descrivano il bufalo e il riso come i due fratelli mitici del primo uomo creato dal dio demiurgo Puang Matua: la connessione mitica dei tre “personaggi” (quattro se si suddivide l’uomo nelle due sottocategorie di viventi e Antenati) si riconnette — com’è facile intuire — all’usanza rituale di sacrificare i bufali durante le più importanti cerimonie della fertilità, oltre che durante i funerali dei membri clanici [ivi, p. 44].

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Nel Sulawesi come in tutta l’area geografica analizzata dal Brighenti il sacrificio dei bufali accompagna tutte le tappe del processo mediante il quale l’anima del defunto viene inviata ad unirsi agli spiriti ancestrali, nel regno meridionale dei morti (un parallelo del Regno di Yama della tradizione indù). Queste cerimonie sacrificali [1] sanciscono il passaggio dell’anima del defunto dal mondo «solare» dei viventi a quello ctonio degli Antenati, il puya, nel quale essa prosegue la sua esistenza, dopo essere stata giudicata da Pong Lalondong, il «Signore-Gallo» [ivi, p. 45], Re degli Inferi e Giudice di Morti equivalente sulawesiano dell’Erlik Khan della tradizione sciamanica turco-mongolo-siberiana.

Nondimeno devesi mettere in risalto come la maggior parte di queste popolazioni, tra cui gli abitanti dell’isola di Sumba, concepisce gli abitanti dell’Altro Mondo non solo come presenze spettrali, vampiriche e dunque potenzialmente dannose (oltre che terrifiche), ma altresì alla stregua di veri e propri esseri divini, ritenendoli intermediari fra il cielo e il mondo degli umani. Il sacrificio cerimoniale del bufalo presso i sumbanesi è indirizzato proprio a questi spiriti ancestrali che essi chiamano marapu, e in cui si riconoscono specificamente «gli antenati divinizzati concepiti come i capostipiti dei potenti clan patrilineari i cui capi tradizionalmente dirigono la vita politica, sociale e religiosa dell’isola» [ivi, p. 51].

Sumba, in connessione a tali rituali sacrificali e credenze, conserva tutt’oggi quella che è considerata l’ultima tradizione megalitico-funeraria ancora in vigore. Oltre alle teste di bufalo, qui, le lastre megalitiche dal peso di tonnellate, sotto le quali vengono sepolti i resti dei defunti, sono decorate anche da immagini di altri animali simbolici, quali il cavallo (che condivide con il bufalo il ruolo di intermediario psicopompo adibito a condurre l’anima del deceduto nell’aldilà) e il coccodrillo (che con il bufalo d’acqua ha in comune il simbolismo “umido” e ipogeo connesso alle «acque sotterranee» che scorrono nel mondo meridionale dei morti e degli Antenati).

Se infatti, nelle tradizioni del Sud-Est asiatico, il bufalo funge da intermediario con le potenze spirituali dimoranti nel regno dei morti [2], che come abbiamo detto è ritenuta essere (qua come altrove) una dimensione sotterranea, oscura, umida e germinale, in connessione con le «acque sotterranee», su cui governano al tempo stesso gli spiriti della fertilità, quelli degli Antenati e quelli dei morti, non ci deve sorprendere, dunque, l’interpolazione nella tradizione artistico-sacrale sumbanese delle raffigurazioni tombali del bufalo d’acqua con quelle, egualmente significative sul piano simbolico-rituale, di altri animali tradizionalmente considerati psicopompi o dimoranti nelle «acque sotterranee».

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Come riporta Brighenti, l’esame delle tematiche connesse al sacrificio rituale del bufalo d’acqua e all’erezione di megaliti in onore degli spiriti dei defunti e degli Antenati (sovente al fine di propiziarsi i suddetti oltre che le potenze spirituali che presiedono la fertilità dei campi) non può limitarsi all’area indonesiana, della quale abbiamo riportato degli spunti in questa sede significativi. L’area geografica in cui tale usanze cerimoniali sono state documentate, infatti, copre — come anticipato — l’intera area del Sud-Est asiatico, con picchi significativi (oltre che nell’arcipelago indonesiano) sulle colline e sulle montagne dell’India nord-orientale.

Ad esempio, il sacrificio del bufalo in onore degli spiriti dei defunti si ritrova anche tra le popolazioni di lingua dravidica stanziate nell’area delle colline Nilgiri, al confine fra il Kerala e il Tamil Nadu. I Toda, in occasione della morte di uno della loro tribù, prevedono due funerali: uno «verde», a breve distanza del decesso, in cui il cadavere viene offerto sulla pira funeraria e che culmina nell’uccisione rituale del bovino; e uno «secco», a mesi di distanza, durante il quale un pezzo del teschio del defunto, recuperato dalla pira, viene sepolto alla base di un albero, e le sue ceneri vengono inumate presso un circolo di pietre denominato azaram [BRIGHENTI: p. 7].

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In questa seconda fase del rituale possiamo notare la persistenza millenaria della credenza, molto in voga fra le popolazioni “primitive” ed “arcaiche” di tutto il mondo, che l’anima del defunto, una volta lasciato il corpo fisico, potesse reincarnarsi (o per meglio dire, essere ritualmente trasferita) all’interno di un albero o in una pietra. Da lì, post-mortem, se opportunamente riverita con riti e sacrifici periodici, si riteneva che avesse potuto giovare alla comunità, ad es. favorendo la fertilità dei campi e l’abbondanza delle precipitazioni, o la moltiplicazione degli armenti.

Lo scrivente, durante il viaggio in Indonesia della scorsa estate, ha potuto visitare personalmente l’ultimo albero rimasto in cui, secondo la tradizione, i Toraja del Sulawesi erano soliti inumare i corpi dei bambini nati morti [ultima foto dello slideshow supra], probabilmente in connessione con la credenza che le anime degli Antenati dimorassero in quelle stesse piante (alla stessa maniera degli Yaksha dell’induismo).

Tradizioni funerario-megalitiche e «arboree» di questo tipo si ritrovano anche, sempre nel sub-continente indiano, fra le popolazioni tribali delle regioni montuose del Deccan nordorientale (tra le quali ricordiamo i Gond, i Lanjia Saora, i Bondo e i Gabada) e fra alcuni gruppi etnico-linguistici non molto distanti dai primi, quali i Khasi e i Naga [ivi, pp. 9 ss.]. 

I Khasi, popolo tribale indiano parlante un linguaggio austroasiatico del ramo mon-khmer, stanziati nello stato del Meghalaya, possedevano ancora agli inizi del XX secolo il più complesso e sviluppato rituale funerario-megalitico dell’intera Asia continentale. Al suo termine, si spostavano tutte le ossa dei morti dai tumuli di famiglia all’ossario megalitico (detto mawniam o mawbah, formato da imponenti lastre) che contiene tutti i resti degli antenati del clan matrilineare cui la famiglia appartiene, ovvero di tutti i discendenti di un’antenata comune [ivi, p. 24]. I megaliti in cui vengono trasferite le anime dei defunti sono dette «pietre di nutrimento dei morti» [ivi, p. 25].

Credenze identiche si ritrovano tra i Bondo dell’Orissa, altra tribù di lingua munda, che definiscono la parte dell’anima del defunto rimasta a vagare sulla terra sairem. Anche secondo la loro tradizione, dopo una cerimonia pressapoco analoga a quella ora riportata per i Gabada, il megalite diventa «la sede terrena dello spirito del defunto, dalla quale i suoi eredi credono si sprigioni un potere benefico in grado di influenzare positivamente la fertilità dei loro raccolti» [ivi, p. 16].

Anche le popolazioni tribali Naga, stanziate in India, erigono menhir in mezzo alle proprie risaie in cui convolano l’anima dei parenti defunti, credendo in tal modo di stimolarne la fertilità. Ritengono infatti che una parte della sostanza animica di ciascun membro della comunità che abbia organizzato in passato cerimonie prevedenti il sacrificio di buoi e bufali «si fissi alle pietre e ai pali da lui fatti erigere in vita, e che tali monumenti, dopo la morte del donatore delle feste, divengano la sede di una potente virtù magica in grado di influenzare positivamente la fertilità degli uomini, degli animali e delle piante»; complesso di idee che si ritrova identico presso alcune comunità tribali dell’India, dell’Indocina e dell’Indonesia [ivi, pp. 28-29].

Il sacrificio del bufalo è d’altronde largamente praticato anche in India nell’ambito di culti tribali dedicati agli spiriti che presiedono alla fertilità dei campi, all’abbondanza delle precipitazioni e ad altre funzioni indispensabili alla sopravvivenza delle comunità agricole rurali. Come nota il Brighenti, tali funzioni sono, in ultima analisi, le medesime demandate dagli agricoltori di religione induista alle proprie divinità femminili [ivi. p. 2].

Nondimeno, presso altre tribù predomina il lato terrifico e gravoso dell’onere rituale, come per esempio tra i Maria-delle-Colline, i quali si preoccupano soprattutto, attendendosi a tali riti, di limitare i possibili danni causati alla comunità vivente dagli spiriti irrisolti dei defunti: secondo le loro credenze, infatti, «i monumenti megalitici hanno lo scopo di fissare in un luogo determinato lo spirito inquieto ed errante del defunto, impedendogli di nuocere ai propri discendenti» [ivi, p. 19].

Tra queste comunità indigene emerge soprattutto la necessità rituale di pacificare quello che le comunità Gabada, di lingua munda, definiscono il duma, vale a dire lo spirito malevolo, perché non ancora pacificato, del defunto. Nelle fasi conclusive della cerimonia chiamata Gotar, il disari (prete di villaggio che assomma in sé le funzioni di astrologo, divinatore e mago guaritore) conduce le anime dei defunti verso i monumenti megalitici opportunamente eretti sia nell’agorà del villaggio che nell’area sacrificale, all’esterno dell’abitato: essi diventeranno le nuove sedi permanenti degli spiriti, ormai pacificati, dei morti [ivi, pp. 12-13].

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Autoctoni sumbanesi presso uno dei siti megalitici più antichi che l’Autore ha avuto occasione di visitare; isola di Sumba, agosto 2018

Come si può considerare, da un punto di vista storico e geografico, la diffusione di queste tradizioni rituali e megalitiche e delle credenze mitico-folkloriche ad asse connesse? Brighenti riporta l’opinione di Fürer-Haimendorf, secondo la cui tesi l’introduzione di questo tipo di rituali funerari incentrati sull’immolazione di un bufalo (o comunque, in sua assenza, di un altro bovino) e sull’erezione di monumenti megalitici in cui si creda l’anima del defunto venisse convolata con opportune pratiche para-sciamaniche, sarebbe stata opera di popolazioni neolitiche di lingua munda provenienti da regioni situate ad est dell’Assam.

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Quando, agli inizi del XX secolo, tali idiomi vennero classificati, essi confluirono, insieme a quelli mons-khmer parlate nella terraferma dell’Asia sud-orientale (lingue «austroasiatiche»), nella nuova super-famiglia linguistica denominata «austrica», che si ritiene comprendere anche la famiglia «austronesiana», la cui diffusione copre un’area che va dal Madagascar alla Polinesia. L’epicentro da cui queste lingue si diffusero e, nei millenni, si diversificarono, sarebbe dunque l’arcipelago indonesiano [ivi, p. 11], che sta al centro di questa area geografica immensa che copre l’oceano Indiano e la parte occidentale del Pacifico; e, di conseguenza, Fürer-Haimendorf ipotizzò che le tradizioni funerarie e megalitiche si fossero diffuse a partire dall’Indonesia, in un periodo compreso fra il sesto e il quarto millennio a.C. [ivi, p. 43].

La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che queste cerimonie funerarie e sacrificali, come pure la cultura megalitica ad esse associata, si sarebbero originate in tempi preistorici nell’Asia sud-orientale: non ci sarebbe dunque da rintracciarvi un apporto determinante delle tradizioni sacrificali e rituali vediche [ivi, p. 23], che nondimeno prevedono cerimoniali analoghi, come quello del sacrificio della vacca [3].

M.M.

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L’Autore presso un sito megalitico dell’area occupata dal gruppo etnico Toraja; Sulawesi meridionale, luglio 2018

Note:

[1] I Toraja del Sulawesi, come altre popolazioni arcaiche (come i Dayak del Borneo e gli indigeni dell’isola di Sumba) praticavano fino a poco tempo fa, in occasione dei funerali degli aristocratici, non solo il sacrificio di bovini e maiali, ma anche quello umano, decapitando schiavi che avrebbero continuato a servire il proprio padrone anche dopo la morte. I funerali dei membri più abbienti della comunità prevedevano (e talvolta prevedono tutt’ora) un secondo funerale a distanza di tempo dal decesso, celebrato dopo il raccolto del riso [BRIGHENTI: p. 46]. Sacrifici umani si registravano anche presso i Kondh dell’Orissa, di lingua dravidica, e tra le popolazioni Naga e Wa [ivi, p. 17 e 29]

[2] Nella cultura induista l’associazione simbolica del bufalo con il regno dei morti è ampiamente attestata sul piano mitologico e tradizionale: esso è la cavalcatura di Yama, dio dei morti e governatore del regno meridionale in cui questi ultimi giungono dopo il trapasso fisico, di cui fu il primo a trovare la strada (si tratta della «via dei Pitr», ovvero gli «antenati lunari» della tradizione induista). Un «doppio funzionale» del dio induista dei morti Yama è, nella tradizione delle comunità tribali delle colline Nilgiri, Emme-Daruma-Raja, il «Re-Giudice-Bufalo». Come Yama, è immaginato procedere a cavallo di un bufalo, soprattutto quando muore un uomo o una donna: allora, il dio esce dal suo palazzo infernale, situato sulla cima elevatissima di una montagna, per strappare l’anima dal corpo del defunto con il suo laccio o con la sua rete. L’anima così intrappolata viene poi condotta dai suoi servitori verso il proprio destino ultraterreno [BRIGHENTI: p. 9]. Nel tenebroso Emme-Daruma-Raja possiamo anche intravedere archetipi che rispecchiano quasi pedissequamente Erlik Khan, il Signore del Mondo Infero e dei morti nello sciamanesimo turco-mongolo-siberiano [cfr. MACULOTTI: Divinità del Mondo Infero, dell’Aldilà e dei Misteri]

[3] Un antico rituale funerario brahmanico, vale a dire lo śrauta previsto dai testi vedici, prevedeva l’offerta sacrificale di una vacca in occasione della cremazione del cadavere di un sacrificante ārya di grado elevato. Le carni bruciati della vacca sacrificata venivano poi offerte presso il fuoco sacrificale e il fumo da esse sprigionato costituiva la «linfa», ovvero il nutrimento sotto forma di «essenza di carne», destinato ai pitr, cioè agli spiriti degli antenati che attendevano l’anima del defunto nel loro regno; ma al tempo stesso era considerato anche una scorta di cibo per quest’ultima, durante il viaggio verso l’aldilà [BRIGHENTI: p. 3]. Lo stesso ritualismo e le medesime credenze si sono mantenute anche presso i Lanjia Saora, una tribù di lingua munda dell’Orissa [ivi, p. 15]. Troviamo qui l’idea, molto diffusa anche nella tradizione e nel folklore europeo (soprattutto nei racconti medievali di fairies) che gli spiriti e le anime dei morti si nutrano di una sorta di «nutrimento sottile» o «quintessenza», tratto dalle vittime sacrificali o, in assenza di un rituale adeguatamente compiuto, da vittime innocenti, umane o animali [cfr. MACULOTTI: Fairies, streghe e dee: il “nutrimento sottile” e il “rinnovamento delle ossa”]


Didascalie slideshow:

  1. Luogo sacro di sepoltura dei clan nobili del gruppo etnico Toraja, presso Tana Toraja, Sulawesi meridionale
  2. Tau-tau in un sito sacro di sepoltura caratteristico della zona di Tana Toraja, nel Sulawesi meridionale
  3. Megaliti «fallici» nell’area geografica del gruppo etnico Toraja, nel Sulawesi meridionale, e megaliti con «finestrelle», posti in mezzo dai campi (come si evince dall’ultima foto panoramica dall’alto) per far fruttare le risaie, nel Sulawesi centro-orientale
  4. Alcuni bufali d’acqua e due scatti di un evento sacro dei Toraja, presso Rantepao, centro urbano più abitato del Sulawesi meridionale
  5. Tipiche abitazioni toraja con caratteristiche architettonico-simboliche che richiamano la sacralità del bufalo d’acqua; nell’ultima foto, una riproduzione in miniatura della tipica casa toraja presso un luogo di sepoltura
  6. Bare lignee a forma di piroga e tau-tau posti in una grotta su delle imbarcazioni egualmente di legno in due siti di sepoltura del Sulawesi meridionale
  7. Resti degli antenati toraja sepolti in bare lignee all’interno di grosse grotte ipogee, a cui vengono portate costantemente le offerte, Sulawesi meridionale
  8. Tombe megalitiche, isola di Sumba
  9. Alcuni motivi simbolici ricorrenti sulle tombe megalitiche sumbanesi
  10. Sepolture toraja direttamente nella nuda roccia, mediante la creazione di alcune «finestrelle» direttamente scavate nella parete litica, nel Sulawesi meridionale, e l’ultimo albero rimanente in cui i locali usavano inumare i cadaveri dei bambini nati morti, nel Sulawesi centro-orientale
  11. Tombe megalitiche, isola di Sumba
  12. Tombe megalitiche, isola di Sumba
  13. Tombe megalitiche particolarmente antiche, isola di Sumba

Bibliografia:


 

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