Colui che Scrutava nell’Abisso: H.P. Lovecraft e “L’oceano di notte”

In “The Night Ocean”, ultimo racconto scritto dal Sognatore di Providence prima del prematuro decesso, si rivela in modo compiuto il profondo rapporto di comunione e al tempo stesso di “terrore cosmico” nei confronti dell’elemento oceanico e dalle sue profondità abissali, da Lovecraft vissuto in prima persona.


di Marco Maculotti
immagine di copertina tratta da “Weird Tales” (1942)

« Lo conosciamo da una vita eppure ha un aspetto estraneo, come se qualcosa che è troppo grande per prender forma si nascondesse nel mondo di cui è la porta. L’oceano al mattino, scintillante di nebbia che specchia l’azzurro e spuma ingioiellata, ha gli occhi di chi riflette su cose misteriose; e nelle intricate correnti dove sfreccia una miriade di pesci colorati aleggia la presenza di un colosso inerte che finalmente salirà dagli abissi antichissimi e camminerà sulla terra. »

L’oceano di notte (1936), ultimo racconto a cui Howard Phillips Lovecraft lavorò (a quattro mani con Robert H. Barlow, che Giuseppe Lippi considerava il migliore tra i suoi collaboratori) prima del prematuro decesso (1937), si pone in una “striscia” ideale di racconti “oceanici”, i più famosi dei quali formano il trittico Dagon (1919), Il richiamo di Cthulhu (1926) e La maschera di Innsmouth (1931). Non sono però queste le uniche fatiche letterarie del Nostro in cui l’elemento marino assume un ruolo ignominiosamente centrale: a tale titolo possiamo menzionare anche La nave bianca (1919), Il tempio (1920), L’orrore di Martin’s Beach (1923, redatto con colei che diventò da lì a poco la sua consorte, Sonia Greene), La casa misteriosa lassù nella nebbia (1926) e Dall’abisso del tempo (1933), oltre al racconto giovanile La nave misteriosa (1902).

L’importanza del racconto in questione nel quadro complessivo della mitopoiesi lovecraftiana, molto più che nei saltuari passaggi implicanti l’esistenza di creature ibride del tipo menzionato nei precedenti Dagon The Shadow over Innsmouth, è da ricercarsi in alcuni passaggi che definiscono in maniera lampante il rapporto di profonda comunione e al tempo stesso di “terrore cosmico” che Lovecraft avvertiva nei confronti delle profondità oceaniche, impressioni che d’altronde erano già significativamente emerse nei precedenti racconti “oceanici” sopra riportati. Verso la fine del racconto, tradendo emozioni e stati d’animo indubbiamente autobiografici, il Nostro scrive:

« Ancora adesso ignoro perché l’oceano eserciti su di me un fascino così grande. Ma forse nessuno può risolvere questi problemi: esistono a dispetto di qualunque spiegazione. Ci sono uomini, anche sapienti, che non amano il mare e lo sciabordio delle onde sulle spiagge dorate: ci giudicano strani, noi che amiamo il mistero dell’antico e infinito abisso. Ma per me negli umori dell’oceano c’è un fascino misterioso, indefinibile. Sarà il biancore della spuma malinconica sotto la luna cerea e morta; saranno le onde che si frangono eterne su rive sconosciute. In ogni caso esso è lì, e così sarà quando la vita scomparirà e rimarranno solo le creature sconosciute che scivolano nelle sue profondità oscure.

Quando vedo le terribili onde che sorgono con forza interminabile, mi prende un’estasi simile alla paura: allora devo inchinarmi dinanzi alla potenza dell’oceano, perché altrimenti lo odierei e odierei le sue acque meravigliose. È vasto e solitario, e tutte le cose che sono nate dal suo grembo vi torneranno. Nelle epoche remote del futuro nessuno abiterà sulla terra e il movimento non esisterà più, salvo nelle acque eterne. »

Peder Balke (Norwegian, 1804-1887), Nordkapp i måneskinn:The North Cape by Moonlight (1848) Oil on canvas Oslo, private collection
Peder Balke, “The North Cape by Moonlight”, 1853

Come in altri racconti “oceanici” lovecraftiani, anche qui il mare infinito si rivela in maniera quasi blackwoodiana una imago ‘cosmica’ di solitudine ed isolamento in cui la psiche del narratore si specchia e con la quale intrattiene un rapporto quasi di osmosinon avrei saputo dire se il paesaggio buio fosse un riflesso del mio umore malinconico o se le tenebre dentro di me fossero provocate dalla scena che mi stava innanzi»). Progressivamente con l’avanzare del racconto l’animo interiore del protagonista si fonde in maniera indissolubile con l’Anima Oceanica con cui è venuto così sensibilmente in contatto, carpendone enigmaticamente i misteri atavici quanto indescrivibili:

« […] ora penso che poco a poco s’insinuasse in me la coscienza dell’immensa solitudine dell’oceano; una solitudine resa vagamente spaventosa dall’impressione […] che una forza animata e intelligente m’impedisse di essere totalmente solo. »

Anche gli elementi puramente meteorologici appaiono per così dire ‘personificati’ in un qualche tipo di Volontà atavica e non meglio definibile, allo stesso modo di quanto Lovecraft fa nei confronti dell’oceano: in questo senso l’opprimente mutamento progressivo dell’elemento metereologico — con la descrizione delle cupe nuvole grigie che si ammassano in modo sempre più opprimente e del “bagliore violaceo” che sembra permearle — assurgono, nell’economia narrativa, a veicolo del presagio funesto di un’imminente “tragedia cosmica” che il protagonista avverte in maniera sempre più palpabile, proprio in virtù del rapporto di osmosi intrattenuto nei confronti dell’oceano stesso e degli elementi ‘naturali’ e ‘metereologici’:

« Ero stretto nel pietoso e paralizzante timore di un destino ineluttabile che, lo sentivo, incarnava l’odio delle stelle lontane e delle nere, enormi onde che speravano di portarsi via le mie ossa: la vendetta dell’indifferente, orrenda maestà dell’oceano notturno. »

Significativamente la “cosa mostruosa” che sembra occultarsi impercettibilmente, al di là dell’ “orizzonte del percepibile”, dietro l’oceano e l’elemento metereologico si ‘rivela’ pienamente alla psiche del protagonista intorno alla data tradizionalmente attribuita all’equinozio autunnale:

« […] mentre il mese procedeva verso il giorno di cui parlo nacque nella mia anima la scintilla di un’alba grigia, infernale, in cui sapevo che si sarebbe compiuto un minaccioso incantesimo. Siccome lo temevo più dei miei terribili sospetti (ma meno degli inafferrabili accenni alla cosa mostruosa che si nascondeva dietro il grande scenario), attesi il giorno dell’orrore che continuava ad avvicinarsi con un senso di curiosità più che di paura. Ripeto che fu alla fine di settembre, anche se non potrei giurare se fosse il 22 o il 23. »

Si verifica allora quella che eliadianamente si potrebbe definire una “uscita dal tempo storico” con conseguente accesso al “tempo sacro” (illud tempus), sperimentata dal protagonista grazie alla “rottura di livello” occorsa in virtù del suo rapporto di “comunione sottile” con l’Anima Oceanica: improvvisamente egli avverte la sensazione che «qualcuno avesse zittito il Tempo e il tocco della sua grande campana» e realizza come inspiegabilmente, di colpo, «la notte non era calda né fredda, anzi stranamente neutra… come se le leggi fisiche fossero sospese e le forze che governano l’esistenza normale fossero andate in pezzi».

In questo quadro generale di “comunione osmotica” con il mondo esterno, la psiche del protagonista non si limita a rispecchia unicamente nell’elemento ‘naturale’, specchiandosi persino in quello per così dire ‘artificiale’ o ‘architettonico’: egli accede infatti ad un simile rapporto “sottile” in relazione alla piccola casetta sull’oceano che egli ha affittato allo scopo di fuggire il consorzio umano per qualche settimana («quando la vidi pensai che la piccola casa fosse sola e che, come me, fosse cosciente della sua nullità di fronte al grande mare»).

L‘assoluta ‘appartatezza’ e ‘solitudine’ della casetta sull’oceano (e della voce narrante, e quindi, in ultima analisi, di Lovecraft stesso) si contrappongono non solo alla vita metropolitana stricto sensu, così notoriamente aborrita dal Nostro, ma anche a quella della vicina cittadina balneare Ellston, i cui volgari villeggianti vengono tratteggiati da Lovecraft con tinte hoffmanniane e ligottiane, al punto che a un certo punto della narrazione la loro esistenza viene definita una “pantomima della vita”:

« C’erano donne truccate e laccate, uomini annoiati e non più giovani: una folla di assurde marionette appollaiate sul bordo dell’oceano, ciechi e decisi a non vedere ciò che si stendeva sopra e intorno a loro, nell’infinita grandezza del firmamento e nella distesa notturna dell’oceano. »

A quanto detto, in conclusione di questo breve commento e augurandovi una buona lettura, è doveroso sottolineare come la “fiaba” che il narratore aveva ascoltato da bambino evochi in maniera indelebile ed indubitabile le tematiche più ‘esoteriche’ dei precedenti Dagon The Shadow over Innsmouth:

« La fiaba […] parlava della donna amata da un re con la barba nera che regnava su un paese sottomarino dove i pesci vivevano fra scogliere tremolanti; e di come un essere oscuro, che portava una mitra cardinalizia e aveva i lineamenti d’una scimmia incartapecorita, l’avesse rapita al suo legittimo fidanzato, un giovane dai capelli d’oro. »

Salvatore Fergola (Italian, 1799-1874), Notturno a Capri:Night in Capri (ca. 1843) Oil on canvas, 107 x 132 cm Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte (in sottoconsegna presso Museo
Salvatore Fergola, “Notturno a Capri”, 1843

Howard Phillips LOVECRAFT

in collaborazione con

Robert H. Barlow

“L’OCEANO DI NOTTE”

(traduzione di Giuseppe Lippi, Mondadori 1992)

Non ero andato a Ellston Beach solo per godermi il sole e l’oceano, ma per riposare la mia mente affaticata. Dato che nella cittadina non conoscevo nessuno, ed è una di quelle località che vivono di turismo estivo e per la maggior parte dell’anno non hanno da mostrare che imposte chiuse, non c’era pericolo di essere importunati. Questo mi faceva piacere, perché non volevo avere davanti che la distesa di onde risonanti e la spiaggia che si allungava sotto la mia temporanea abitazione.

Quando lasciai la città il mio lungo lavoro estivo era finito, e il grande murale che ne era il frutto era stato ammesso al concorso. Mi ci era voluta gran parte dell’anno per finire il dipinto, e dopo aver pulito l’ultimo pennello non ero affatto contrario a concedere qualcosa alla salute, dunque a riposare un po’ in solitudine. In realtà, dopo una settimana trascorsa sulla spiaggia pensavo solo vagamente al lavoro il cui successo, fino a qualche giorno prima, mi era sembrato così importante. Non mi preoccupavano i vecchi problemi di colore e sfumature, non sentivo paura e neppure sfiducia nei confronti della mia capacità di concretizzare un’immagine nata dalla fantasia, né di dovermi affidare alla mia sola tecnica per trasformare un’idea inafferrabile nel bozzetto di un disegno. Eppure, quello che accadde sulla spiaggia solitaria potrebbe essere nient’altro che il prodotto di una forma mentis abituata alla preoccupazione, alla paura e alla sfiducia. Sono sempre stato un cercatore, un sognatore, un uomo affascinato dalle riflessioni sul sogno e il mistero; e chissà che una natura di questo tipo non abbia occhi segreti, capaci di vedere mondi e ordini d’esistenza insospettabili.

Dovendo raccontare ciò di cui sono stato testimone, mi rendo conto di mille assurde limitazioni. Le cose viste con l’occhio interiore, come le scene che appaiono quando stiamo per scivolare nel sonno, sono più vivide e dense di significato in quella forma che quando tentiamo di amalgamarle alla realtà. Descrivi un sogno con la penna, e il colore scomparirà. L’inchiostro di cui ci serviamo dev’essere diluito con una sostanza che contiene una percentuale troppo alta di realtà, e in definitiva ci scopriamo incapaci di esprimere l’incredibile ricordo. È come se il nostro “io” interiore, liberato dai legami della veglia e dell’oggettività, godesse pienamente di emozioni prigioniere che, una volta tradotte sulla carta, languiscono immediatamente. Nei sogni e nelle visioni si nascondono le più grandi creazioni dell’uomo, perché le linee e i colori di cui sono fatte non rispettano alcun obbligo. Scene dimenticate e terre più misteriose dei mondi incantati dell’infanzia balzano nella mente addormentata, dove regnano finché il risveglio le distrugge. È in mezzo ad esse che possiamo conquistare un po’ della gloria e della felicità cui aspiriamo, trovare immagini di bellezza suprema – intuite ma mai rivelate prima d’ora – che sono per noi ciò che il Graal fu per le anime medievali. Dare forma a tutto questo con i mezzi dell’arte, tentare di riportare nel mondo un pallido trofeo di quel regno intangibile d’ombre e sussurri, richiede memoria e grande abilità. Perché sebbene i sogni siano un patrimonio di tutti, poche mani riescono a stringerne le ali di falena senza strapparle.

Un’abilità del genere in questo racconto non c’è. Se ne fossi capace vi spiegherei le cose elusive che ho visto nei sogni, come chi guarda in un luogo senza luce e scorge figure il cui movimento resta segreto. Nel mio dipinto, che del resto si trova con molte altre opere nell’edificio per cui sono state realizzate, ho cercato di catturare una parte di quest’elusivo mondo delle ombre, forse con maggior successo di quello che otterrò qui. Ero andato a Ellston per aspettare il giudizio sulla mia opera, e dopo qualche giorno d’inconsueto riposo vidi le cose con un certo distacco: allora mi resi conto che – nonostante i difetti che un artista individua sempre con chiarezza – nel tratto e nel colore del dipinto ero riuscito a salvare qualche frammento dell’infinito mondo dell’immaginazione. Le difficoltà del lavoro e lo sforzo che mi era costato avevano minato la mia salute, convincendomi a trascorrere il periodo di attesa in una località di mare. Dato che volevo essere assolutamente solo, affittai (con grande piacere dell’incredulo proprietario) una casetta a qualche distanza dal villaggio di Ellston, che in fine di stagione era popolato da una schiera sempre più esigua di turisti a me del tutto indifferenti. La casa, scurita dal vento che soffiava dal mare ma non dipinta, non era neppure un satellite del villaggio: si trovava più in basso, oscillante sulla costiera come un pendolo sotto un orologio immobile, e sorgeva isolata su un monticello di sabbia a picco sul mare, contornata di erbacce. Stava accucciata come un animale caldo e solo di fronte all’oceano, e le imperscrutabili finestre sporche fissavano un regno di uguale solitudine che comprendeva la terra, il cielo e il mare immenso. Ma non è necessario usare immagini pittoresche in un racconto i cui avvenimenti, se portati alle estreme conseguenze e saldati in un mosaico unico, risulteranno di per sé abbastanza strani. Comunque, quando la vidi pensai che la piccola casa fosse sola e che, come me, fosse cosciente della sua nullità di fronte al grande mare.

La presi in affitto alla fine di agosto, ma arrivai un giorno prima del previsto e trovai un furgone e due operai che scaricavano la mobilia fornita dal proprietario. Non sapevo quanto mi sarei fermato e quando il camioncino delle provviste si fu allontanato, sistemai il mio piccolo bagaglio e chiusi a chiave la porta (disporre di una casa mi faceva sentire molto proprietario, dopo mesi trascorsi in una camera ammobiliata) e scesi per il monticello d’erba e sabbia che digradava verso la spiaggia. La casetta era quadrata e aveva una sola stanza, per cui non richiedeva grandi esplorazioni: due finestre su ogni lato fornivano luce in abbondanza e sulla parete che guardava l’oceano era stata incastrata una porta all’ultimo momento, come per un ripensamento. La casa era stata costruita circa dieci anni prima, ma per la sua lontanza da Ellston era difficile affittarla anche durante l’intensa stagione estiva. Poiché non c’era il camino, da ottobre fino a primavera inoltrata rimaneva deserta. Benché la distanza da Ellston fosse di appena un chilometro e mezzo, la casa sembrava più isolata perché una curva nella linea costiera faceva in modo che in direzione della cittadina si vedessero solo dune coperte d’erba.

Dopo aver sistemato le mie cose il primo giorno era per metà passato, e mi limitai a godere il sole e le onde instancabili: cose la cui tranquilla maestà faceva sembrare la pittura un’occupazione noiosa e lontana. Era la reazione naturale a un’attività e a una serie di abitudini coltivate esclusivamente per troppo tempo; per fortuna il lavoro era finito e la vacanza era cominciata. Questo fatto, di cui non mi resi conto immediatamente, era evidente in tutto ciò che mi mi circondava e nell’abbandono del vecchio paesaggio per il nuovo. L’effetto del sole lucente sulle onde inquiete spruzzava di diamanti quelle curve agitate da una forza misteriosa. Forse l’acquerello avrebbe potuto catturare la massa di luce solida, quasi intollerabile che si abbatteva sulla spiaggia con ogni onda, dove il mare si mescolava alla sabbia; e benché l’oceano avesse un colore proprio, era dominato completamente e in modo incredibile dall’enorme riflesso. Accanto a me non c’era nessuno, e mi godetti lo spettacolo senza che presenze estranee turbassero lo scenario. Tutti i miei sensi erano coinvolti, anche se in modo diverso, ma qualche volta sembrava che il ruggito del mare fosse tutt’uno col grande splendore o che la luce emanasse dalle onde, non dal sole; e ognuna di queste sensazioni era così intensa e vigorosa che ne derivavano impressioni contrastanti. È strano, ma né quel pomeriggio né i successivi vidi bagnanti nei pressi della casetta quadrata, anche se l’insenatura offriva una spiaggia molto più invitante di quella del villaggio, dove la spuma delle onde era punteggiata di figure sparse. Immaginai che fosse a causa della distanza, o perché non c’erano mai state altre case sotto il livello della cittadina. Non riuscivo a immaginare come mai quel lembo di spiaggia fosse sfuggito all’edificazione: altre case erano sparse sulla costa settentrionale e guardavano il mare con occhi vuoti.

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Nuotai fino alla fine del pomeriggio e poi, dopo aver riposato, andai a piedi verso il piccolo centro. Quando arrivai il buio mi impediva di vedere il mare, e alla luce degli sgangherati lampioni stradali ebbi la conferma di un tipo di vita che neppure si rendeva conto del grande essere ammantato di tenebra che si stendeva a pochi passi da noi. C’erano donne truccate e laccate, uomini annoiati e non più giovani: una folla di assurde marionette appollaiate sul bordo dell’oceano, ciechi e decisi a non vedere ciò che si stendeva sopra e intorno a loro, nell’infinita grandezza del firmamento e nella distesa notturna dell’oceano. Tornando verso la piccola casa spoglia camminai lungo il bordo nero del mare, proiettando il raggio della mia torcia nel vuoto nudo e impenetrabile. Non c’era luna, e quella luce s’insinuava come una sbarra di materia solida nella muraglia inquieta delle onde; provai allora un’emozione indescrivibile, che nasceva dal rumore dell’acqua e dalla percezione della mia piccolezza, con la minuscola torcia, sulla sponda di un regno di per sé immenso e che pure era appena l’orlo delle profondità della terra. E l’abisso immerso nella notte, su cui le navi su muovevano in un’oscurità che m’impediva di vederle, emise in lontananza un brontolìo che sembrava di furia e di rabbia.

Quando arrivai alla casa sulla cresta di sabbia mi resi conto che nella passeggiata di oltre un chilometro e mezzo non avevo incontrato nessuno; tuttavia, provavo l’impressione che lo spirito del mare deserto mi avesse tenuto compagnia. Si era personificato, immaginai, in una forma che non mi era dato conoscere, ma che agiva tranquillamente appena oltre il raggio della mia coscienza. Era come uno di quegli attori che aspettano, dietro la scena buia, la battuta che fra poco li chiamerà davanti ai nostri occhi e li farà agire e parlare come un’improvvisa rivelazione della ribalta. Ma poi abbandonai questa fantasia e cercai la chiave per entrare in casa; e le pareti spoglie mi diedero un improvviso senso di sicurezza.

Il cottage era libero dalla presenza del villaggio, come se si fosse perso lungo la costa e non sapesse più tornare; e quando a sera, dopo cena, tornavo fra le sue pareti, non sentivo il chiasso degl’indiscreti. In genere mi fermavo poco nelle strade di Ellston, ma a volte mi piaceva farci una passeggiata. C’era la solita messe di negozi curiosi e le facciate dei cinematografi pseudo-sfarzose che caratterizzano i centri balneari. Non ci andavo mai, e per me l’utilità del villaggio si limitava ai ristoranti. È incredibile quante cose inutili trovi da fare la gente.

In un primo momento ci furono diverse giornate di sole. Mi alzavo presto e guardavo il cielo grigio accendersi dell’imminente sorgere del sole, promessa che veniva mantenuta sotto i miei occhi. L’alba era fredda e i colori pallidi a paragone dell’uniforme luminosità del giorno, che faceva sembrare ogni ora simile a un fulgido mezzogiorno. La grande luce, così evidente fin dal momento del mio arrivo, trasformò ogni giorno successivo in una pagina gialla nel libro del tempo. Notai che molti villeggianti si lamentavano del sole ardente, mentre io lo desideravo. Dopo i grigi mesi di lavoro, la pigrizia favorita dalla semplice esistenza in una regione governata da cose elementari – vento, luce e acqua – ebbe su di me un immediato effetto; e siccome ero ansioso di continuare il processo di guarigione, trascorrevo tutto il mio tempo fuori casa, alla luce del sole. Questo mi piombò in uno stato che era, allo stesso tempo, di distacco e sottomissione, e mi diede un senso di sicurezza contro l’avida notte. Come l’oscurità è simile alla morte, così la luce lo è alla vita. Grazie all’esperienza accumulata in un milione di anni, quando gli uomini vivevano più vicini alla madre acqua e le creature di cui siamo discendenti nuotavano, impigrite, nei bacini poco profondi e attraversati dal sole, quando siamo stanchi cerchiamo tuttora le cose essenziali, abbandonandoci alla loro cullante sicurezza come i primi mammiferi che ancora non osavano avventurarsi sulla terra umida.

La monotonia delle onde era riposante e non avevo altra occupazione che osservare i mille aspetti del mare. C’è un instancabile cambiamento nelle onde: colori e forme passano su di esse come espressioni inafferrabili su un viso ben noto, e immediatamente ci vengono comunicate da sensi che non sappiamo riconoscere del tutto. Quando il mare è inquieto pensiamo alle antiche navi che sprofondarono nei suoi abissi e nel nostro cuore si affaccia, in silenzio, il desiderio di un orizzonte perduto. Ma quando il mare dimentica, anche noi dimentichiamo. Lo conosciamo da una vita eppure ha un aspetto estraneo, come se qualcosa che è troppo grande per prender forma si nascondesse nel mondo di cui è la porta. L’oceano al mattino, scintillante di nebbia che specchia l’azzurro e spuma ingioiellata, ha gli occhi di chi riflette su cose misteriose; e nelle intricate correnti dove sfreccia una miriade di pesci colorati aleggia la presenza di un colosso inerte che finalmente salirà dagli abissi antichissimi e camminerà sulla terra.

Ivan Konstantinovič Ajvazovskij (Russian, 1817-1900), Лунный свет на Босфоре:Moonlight on the Bosphorus (1865) Oil on panel, 24.5 x 30.5 cm Private collectio
Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, “Moonlight on the Bosphorus”, 1865

Per parecchi giorni fui contento e lieto di aver scelto la casa solitaria che stava appollaiata come un animale sulle tonde colline di sabbia. Fra i piacevoli e inutili svaghi offerti da una simile vita, scelsi quello che consisteva nel seguire per lunghi tratti l’orlo del mare, dove le onde lasciavano una chiazza umida e irregolare orlata di spuma evanescente; e a volte, fra i detriti abbandonati dall’oceano, trovavo curiosi frammenti di conchiglie. C’era un’incredibile quantità di depositi marini nell’insenatura su cui sorgeva la mia piccola casa, e riflettei che le correnti che si allontanavano dalla spiaggia del villaggio dovevano raggiungere me. In ogni caso le mie tasche (quando ne avevo) erano piene di paccottiglia d’ogni genere: la maggior parte la buttavo via un’ora o due dopo averla raccolta, chiedendomi perché mi fossi dato la pena. Ma una volta trovai un ossicino che non mi riuscì di identificare, a parte il fatto che non apparteneva certo a un pesce. Lo tenni, insieme a una grossa goccia di metallo il cui minuzioso ornamento aveva un aspetto piuttosto strano: infatti invece dei soliti disegni floreali o geometrici rappresentava una creatura marina contro uno sfondo di alghe, e pur essendo consumato da anni di immersione l’intaglio era visibile con una certa chiarezza. Dal momento che non avevo mai visto niente del genere, pensai che fosse un oggetto di moda qualche anno prima a Ellston, dove curiosità di questo tipo sono abituali.

Ero arrivato da una settimana quando il tempo cominciò lentamente a cambiare. Ogni stadio di questo progressivo peggioramento era seguito da una fase sottilmente più oscura, e alla fine il cielo sopra di me cambiò dal giorno alla notte. La cosa si manifestava con più chiarezza nelle mie sensazioni che in ciò che realmente vedevo; la casetta era sola sotto il cielo grigio e a volte dall’oceano si alzava un vento umido. Il sole era oscurato da lunghi intervalli di cielo coperto: strati di vapori plumbei oltre le cui imprecisate profondità il disco era tagliato fuori. E se a volte riusciva a splendere con l’antica forza sul gigantesco velo, tuttavia non poteva penetrarlo. Per ore la spiaggia era prigioniera di una cappa incolore, come se una parte della notte sconfinasse nel giorno.

E sebbene il vento fosse robusto e l’oceano attraversato da mulinelli di vita, l’acqua diventava sempre più fredda e io non potevo immergermi a lungo come prima; così presi l’abitudine di fare lunghe passeggiate che – quando non potevo nuotare – mi davano la possibilità di tenermi in esercizio come desideravo. Le passeggiate in riva al mare coprivano un tratto molto più esteso dei miei primi vagabondaggi, e dato che la spiaggia continuava per chilometri oltre il pittoresco villaggio, a sera mi trovavo spesso completamente isolato su un’immensa distesa di sabbia. Quando questo avveniva, mi affrettavo lungo la riva mormorante dell’oceano e ne seguivo il confine per evitare di perdermi nell’interno. A volte, quando le passeggiate si facevano tarde (come ormai avveniva sempre più spesso), mi affrettavo verso la casa appollaiata che sembrava una sentinella del villaggio. Insicura sulle alture spazzate dal vento, un puntino nero contro le sfumature inquietanti del tramonto sull’oceano, pareva più isolata che se l’avessero illuminata in pieno la luce del sole o della luna; e alla mia immaginazione sembrava una faccia muta che mi guardasse in modo interrogativo, aspettando che mi decidessi in qualche modo ad agire. Ho già detto che era isolata e che all’inizio questo mi aveva fatto piacere; ma nell’ora breve della sera in cui il sole calava in una scia purpurea e il buio arrivava come una macchia che si espande, sulla casa gravava una presenza estranea: uno spirito, un’atmosfera, un’impressione che veniva dal vento impetuoso, dal cielo enorme e dal mare che rovesciava onde nere su una spiaggia diventata improvvisamente estranea. In momenti come quelli provavo un disagio che non aveva un’origine definita, benché la mia natura solitaria mi avesse da tempo abituato all’antico silenzio e all’antica voce della natura. Questa diffidenza, che non avrei saputo meglio definire, non mi tormentava a lungo, anche se ora penso che poco a poco s’insinuasse in me la coscienza dell’immensa solitudine dell’oceano; una solitudine resa vagamente spaventosa dall’impressione (mai più di questo) che una forza animata e intelligente m’impedisse di essere totalmente solo.

Le strade rumorose e volgari della cittadina, con la loro attività quasi irreale, erano molto lontane, e quando ci andavo la sera per cenare (non fidandomi di una dieta basata esclusivamente sulla mia cattiva cucina) stavo attento, in modo addirittura irragionevole, di tornare al cottage prima che fosse notte fonda, e questo anche se a volte mi trattenevo fuori fin quasi alle dieci. Direte che è un comportamento irragionevole, che se temevo il buio per qualche infantile ragione avrei fatto meglio a evitarlo del tutto. Mi chiederete perché non lasciassi la casa, dato che tanta solitudine mi deprimeva. Non so cosa rispondere, a parte il fatto che qualunque fosse la mia inquietudine, quale misteriosa malinconia mi suscitasse il tramonto del sole o il vento pungente e salato che spirava sulla veste notturna del mare, steso intorno a me come un immenso abito appallottolato, era qualcosa che per metà nasceva dal mio stesso cuore e si manifestava solo in determinati momenti, senza avere effetti prolungati su di me. Nei giorni in cui la luce aveva il colore del diamante e le onde azzurre si frangevano allegramente sulla spiaggia rischiarata (ce n’erano ancora, di questi momenti) il ricordo dell’umor nero sembrava addirittura impossibile, ma un’ora o due più tardi potevo piombarvi di nuovo e scendere in un mondo nero di disperazione.

Forse quelle sensazioni interiori erano un riflesso dell’umore del mare: perché, se è vero che metà delle cose ci appaiono con il colore della nostra psiche, altri sentimenti sono influenzati in maniera evidente da fattori fisici ed esterni. Il mare può legarci a sé in mille modi, attirandoci col sottile espediente di un’ombra o di uno scintillìo sulle onde e facendoci capire se è triste o allegro. Il mare ricorda sempre cose antiche, e anche se a volte non riusciamo ad afferrarle ci vengono comunque trasmesse: così condividiamo la sua gaiezza o il suo dolore. Dato che non lavoravo e non vedevo anima viva, forse ero più suscettibile di altri al senso riposto dei suoi messaggi. Durante quello scorcio d’estate l’oceano dominò la mia vita, pretendendola come risarcimento della guarigione che m’aveva dato.

Quell’anno alcuni bagnanti affogarono, e benché ne sentissi parlare solo casualmente (tale è la nostra indifferenza verso la morte di qualcuno che non conosciamo e a cui non abbiamo assistito), sapevo che i particolari erano raccapriccianti. I morti – alcuni di essi nuotatori provetti – furono trovati, in certi casi, solo vari giorni dopo l’annegamento; e la vendetta dell’abisso ne aveva orribilmente devastato i corpi. Era come se il mare li avesse attirati in una tana sepolta sul fondo, macerandoli nel buio fino a che, persuaso che ormai non fossero di alcuna utilità, li avesse rigettati a riva in uno stato spaventoso. Nessuno sapeva spiegare la causa degli annegamenti e la loro frequenza allarmò i pavidi, perché a Ellston le correnti sottomarine non sono forti e non si era avuta notizia di squali. Non riuscii a sapere se sui cadaveri ci fossero segni di ferite, ma il terrore della morte che sfreccia tra le onde e attacca i bagnanti solitari da un punto buio e tranquillo è ben noto a tutti, e fa tremare al solo pensiero. Bisognava trovare una spiegazione a quelle morti, anche se non c’erano squali. E dato che gli squali erano solo una delle possibili cause – mai confermata, che io sappia – i nuotatori che in quello scorcio di stagione continuarono ad avventurarsi nell’oceano stavano più attenti a eventuali, infide correnti che a un possibile mostro marino. L’autunno non era lontano, e qualcuno accampò questa scusa per andarsene dal mare dove gli uomini venivano ghermiti dalla morte e per raggiungere la sicurezza delle campagne all’interno, dove il fragore delle onde non si sente affatto. Così venne la fine di agosto: ormai mi trovavo sulla spiaggia da molti giorni.

C’era stata minaccia di tempesta fin dal quattro del nuovo mese, e il sei, quando uscii per una passeggiata nel vento umido, vidi una massa informe di nuvole opprimenti, senza colore, che si ammassavano sul mare increspato e grigio come il piombo. Il vento, che non soffiava in una direzione precisa ma agitava ogni cosa, dava una sensazione d’imminente animazione: un accenno di vita negli elementi che doveva sfociare nella tempesta attesa da tempo. Avevo fatto colazione a Ellston, e anche se il cielo sembrava il coperchio di un immenso feretro che si stesse chiudendo, mi avventurai in fondo alla spiaggia, lontano sia dalla cittadina che dalla mia casa ormai invisibile. Il grigiore universale era punteggiato da una sfumatura violacea e cadaverica che nonostante la tinta cupa aveva una sua lucentezza; allora mi resi conto di essere lontano qualche chilometro da ogni possibile rifugio. Ma la cosa non aveva importanza, perché nonostante il cielo nero e il lucore violaceo che annunciava misteriosi presagi, ero di un umore strano e il mio corpo si era fatto improvvisamente sensibile a certi particolari e atmosfere prima troppo sfumate. Un ricordo affiorò dall’oscurità: era scaturito dalla somiglianza fra la scena che avevo davanti agli occhi con una che avevo immaginato da bambino, dopo che mi era stata letta una fiaba. La fiaba – a cui da molti anni non pensavo più – parlava della donna amata da un re con la barba nera che regnava su un paese sottomarino dove i pesci vivevano fra scogliere tremolanti; e di come un essere oscuro, che portava una mitra cardinalizia e aveva i lineamenti d’una scimmia incartapecorita, l’avesse rapita al suo legittimo fidanzato, un giovane dai capelli d’oro. In un angolo della mia immaginazione era rimasta la visione delle scogliere sottomarine che si stagliavano contro il non-cielo tetro e opaco di quel mondo: e benché avessi dimenticato gran parte della fiaba, la scena mi tornò alla mente perché le scogliere e il cielo davanti a me avevano lo stesso aspetto. Lo spettacolo era simile a quello che avevo immaginato tanti anni prima, e che avevo dimenticato a parte qualche impressione fuggevole e casuale. La suggestione provocata dal racconto era sopravvissuta, forse, in qualche ricordo incompleto e sfuggente, e nelle emozioni trasmesse ai miei sensi da scene che in altre circostanze non mi avrebbero detto nulla. A volte proviamo sensazioni che durano un attimo e ci rendiamo conto che per esempio, un paesaggio elusivo, il vestito d’una donna sulla curva di una strada pomeridiana, un grosso albero che sfida i secoli e si staglia contro il cielo pallido del mattino (spesso è più importante la situazione dell’oggetto), contengono qualcosa di prezioso, una virtù aurea che dobbiamo catturare. Eppure quando rivediamo una di queste scene o situazioni in seguito, o sotto un’altra angolazione, scopriamo che hanno perso il loro valore e significato. Forse ciò avviene perché la cosa che vediamo non contiene alcuna qualità sfuggente, ma si limita a suggerire alla mente qualcosa di affatto diverso che non possiamo ricordare. La mente è stupita, e non afferrando appieno la causa di quell’immediato apprezzamento, si aggrappa all’oggetto che lo eccita e si sorprende nel constatare che in esso non c’è alcun valore. E proprio questo avveniva mentre fissavo le nuvole violacee: in esse c’era la solennità e il mistero delle vecchie torri di un monastero al crepuscolo ma anche l’immagine delle scogliere nella vecchia fiaba. Ricordatomi all’improvviso di quella fantasia, mi aspettavo di vedere nella spuma nerastra e sottile, fra le onde che sembravano un mare d’erba nera andata a male, l’orrida figura della creatura dalla faccia di scimmia con in testa una mitra antichissima e chiazzata di verderame: la creatura che emergeva dal regno dell’abisso, di cui le onde erano il cielo.

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Magnus Hjalmar Munsterhjelm (Swedish-Finnish, 1840-1905), Kuunvaloa Merellä:Månsken över havet:Moonlight over the Sea (1876) Oil on canvas, 58 x 93 cm Private collection
Magnus Hjalmar Munsterhjelm, “Moonlight over the Sea”, 1876

In realtà non vidi alcun fantasma dell’immaginazione ma quando si alzò il vento freddo, aggredendo il cielo a coltellate, nell’oscurità delle nuvole che si fondevano col mare apparve un oggetto grigio come un pezzo di legno alla deriva, che si agitava vagamente nella spuma. L’oggetto si trovava a notevole distanza da me, e siccome un attimo dopo scomparve può darsi che non fosse un pezzo di legno, ma una focena che emergeva alla superficie inquieta.

Poi mi resi conto che ero rimasto troppo tempo a osservare la tempesta che avanzava e a immaginare corrispondenze fra il suo aspetto maestoso e le mie fantasie infantili. Cominciò a cadere una pioggia gelata, e sulla scena già troppo scura per quell’ora si stese un manto uniforme di tenebre. Correndo sulla sabbia grigia sentivo l’impatto delle gocce fredde sulla schiena, e nel giro di pochi secondi fui inzuppato da capo a piedi. In un primo momento corsi, incalzato dalle gocce incolori che precipitavano in lunghe righe continue dal cielo invisibile; ma quando mi resi conto che il rifugio era troppo lontano per evitare di arrivarci inzuppato, rallentai il passo e andai verso casa come se ci fosse bel tempo. Non c’era motivo di correre anche se non indugiavo come in altre occasioni. Gli abiti bagnati erano freddi e m’impacciavano: man mano che il buio avanzava e il vento dell’oceano soffiava più forte, non potei reprimere un brivido. Ma insieme al fastidio della pioggia battente provavo un senso di esaltazione stretta mente collegato alla massa di nuvole violacee e alle reazioni sollecitate del corpo. In uno stato d’animo di piacere esaltante per la resistenza che opponevo alla pioggia – la quale mi colava addosso riempiendo scarpe e tasche – ma anche di misterioso apprezzamento per il cielo maestoso e sconvolto che incombeva come un paio d’ali nere sul mare eternamente mosso, attraversai il grigio corridoio di Ellston Beach. Prima di quanto mi aspettassi, la casa appollaiata sulla spiaggia mi apparve nella pioggia obliqua e battente; le erbacce che crescevano sul monticello di sabbia tremavano sotto la sferza del vento impazzito, come se volessero sradicarsi e seguire il veloce elemento del cielo. Mare e nuvole non erano affatto cambiati e la scena era quella che mi accompagnava fin dall’inizio tranne per il particolare aggiunto del tetto che sembrava aggobbirsi per sfuggire alla pioggia incalzante. Mi affrettai sulla scala insicura ed entrai nella stanza asciutta dove, inconsciamente sorpreso di non essere più in balìa del vento sferzante, rimasi fermo per un attimo con l’acqua che mi colava da ogni parte.

Ci sono due finestre nella parte frontale della casa, una per lato, e danno direttamente sull’oceano che ora mi appariva parzialmente oscurato dal doppio velo della pioggia e della notte imminente. Mentre indossavo una serie di abiti logori e asciutti pescati da convenienti appendini e da una sedia troppo carica per potercisi sedere, guardai dalle finestre. Da ogni lato ero prigioniero di un crepuscolo insolitamente buio, calato sulla scena a un’ora imprecisata e approfittando della copertura offerta dal temporale. Non sapevo per quanto tempo fossi rimasto sulla spiaggia grigia e neppure che ora fosse; ma una breve ricerca portò a galla il mio orologio, per fortuna rimasto a casa e risparmiato dall’acquazzone che aveva inzuppato i vestiti. Le lancette erano quasi invisibili e poco meno indecifrabili dei numeri sul quadrante. Dovevo indovinare più che leggere, ma un attimo dopo i miei occhi penetrarono il buio (più fitto in casa che oltre la finestra offuscata) e vidi che erano le sei e quarantacinque.

Quando ero entrato in casa sulla spiaggia non c’era nessuno, e in una sera come quella non mi aspettavo di vedere bagnanti; eppure, guardando ancora dalla finestra mi apparvero alcune figure che risaltavano contro il fondo sporco della sera di tempesta. Ne contai tre che si muovevano in modo inspiegabile, e una quarta più vicina alla casa (anche se forse quest’ultima non era una persona, ma un legno trascinato dalla corrente, perché adesso le onde erano altissime). Ero non poco stupito e mi chiesi perché quei coraggiosi affrontassero una tempesta simile. Poi mi dissi che la pioggia doveva averli colti alla sprovvista come me e che si erano arresi alla forza delle onde. Un attimo dopo, spinto da un senso di civile ospitalità che ebbe la meglio sul mio amore della solitudine, mi affacciai alla porta e uscii per un attimo sul minuscolo porticato (a rischio di inzupparmi un altra volta perché la pioggia scese su di me con furia); quindi feci qualche gesto all’indirizzo degli sconosciuti. Forse non mi videro o non capirono, ma non risposero ai miei segnali. Appena visibili nel buio della sera parevano sorpresi o in attesa che facessi qualcosa. Nel loro atteggiamento c’era la stessa misteriosa inespressivi (che poteva significare tutto o niente) della casa come mi era apparsa nel tramonto inquietante. Improvvisamente ebbi la sensazione che qualcosa di sinistro aleggiasse su quegli esseri immobili, decisi a rimanere in una notte di pioggia su una spiaggia abbandonata da tutti, e chiusi la porta con un senso di fastidio che cercava di nascondere invano un’emozione più profonda, la paura; una paura divorante che saliva dalle ombre della mia anima. Un attimo dopo, quando mi avvicinai alla finestra, non vidi altro che la notte terribile. Vagamente incuriosito e ancora più vagamente impaurito, mi comportavo come chi, pur non avendo visto nulla di preoccupante, ha ugualmente paura di ciò che può nascondersi dietro l’angolo della strada buia che è costretto ad attraversare. Così decisi che non avevo visto nessuno e che l’oscurità mi aveva ingannato.

Quella notte l’aria di isolamento che aleggiava intorno alla casa aumentò, anche se appena fuori di vista cento case erano sparse sulla spiaggia settentrionale sotto la pioggia e il buio, con le lampade offuscate e gialle riflesse dai viottoli lucidi e simili a occhi di folletti nello stagno di una foresta. Ma siccome non potevo vederle, e tantomeno raggiungerle con quel tempo (non avevo macchina e potevo lasciare la casa appollaiata sulla cresta solo a piedi, nel buio popolato di misteriose figure) mi resi conto che a tutti gli effetti ero solo con il mare desolato che si alzava e si abbassava invisibile, intangibile nella nebbia. E la voce del mare era diventata un rauco brontolìo, come quello di una creatura ferita che si volta su un fianco prima di tentare di alzarsi.

Per scacciare il buio avevo a disposizione una lampada malandata, e col suo aiuto – perché la notte entrava dalle finestre e mi fissava oscuramente dagli angoli della stanza, come una belva paziente – mi preparai da mangiare, visto che non avevo intenzione di andare al villaggio. Sembrava tardissimo anche se quando andai a letto non erano ancora le nove. Le tenebre erano calate presto e furtivamente e per tutto il periodo che rimasi al mare aleggiarono elusive su ogni scena e ogni azione. Dalla notte era uscito qualcosa che sarebbe rimasto vago per sempre ma che eccitava in me un sentimento profondo. Ero come un animale che aspetta di sentire da un momento all’altro il fruscio del nemico.

Il vento soffiò per diverse ore e la pioggia continuò a flagellare le sottili pareti che la dividevano da me. Ogni tanto la tempesta si calmava e io sentivo il brontolìo del mare: immaginavo che grandi onde senza forma si inseguissero le une con le altre nel gemito incolore del vento, e rovesciassero sulla spiaggia una spuma che sapeva di sale. Ma nella monotonia degli elementi inquieti c’era una nota letargica un sottofondo che dopo un poco mi fece scivolare in un sonno buio e senza colori come la notte. Il mare continuava il suo folle monologo, il vento la sua corsa sferzante; ma tutto questo avveniva oltre il cerchio della mia coscienza, e per un po’ l’oceano notturno spari dalla mia mente addormentata.

Al mattino c’era un po’ di sole, ma era debole, come quello che gli uomini vedranno quando la terra sarà invecchiata, ammesso che esistano ancora; un astro più stanco del cielo velato e moribondo. Pallida copia della sua vecchia immagine, quando mi svegliai Febo lottava per attraversare le nuvole vaghissime e squarciate: ora mandava un fiotto di luce gialla nell’angolo nord-ovest della casa, ora sbiadiva e si riduceva a una semplice palla luminosa, incredibile gioco dimenticato sul campo celeste. Dopo un po’ la pioggia (che evidentemente continuava dalla notte) lavò i resti di nuvole viola che mi avevano ricordato le scogliere d’una vecchia fiaba. Privato del tramonto e dell’alba il giorno si fuse con quello precedente, come se la tempesta giunta nel frattempo non avesse rovesciato sul mondo un’improvvisa tenebra, ma lo avesse dilatato e ammansito in un unico interminabile pomeriggio. Prendendo coraggio, il sole nascosto esercitò tutta la sua forza per disperdere la nebbia, ora striata come una finestra sporca, e la allontanò dal suo regno. Il giorno azzurrognolo avanzava, i filamenti bui retrocedevano, e la solitudine che mi aveva attanagliato si ritirò nel suo posto d’osservazione. Lì rimase, pronta al balzo e in attesa.

Il sole aveva riacquistato l’antico splendore e le onde il loro scintillìo: sagome azzurre che si inseguivano su quel lembo di spiaggia da prima che l’uomo apparisse e avrebbero continuato a farlo senza testimoni quando egli fosse sceso nel sepolcro del tempo. Vinto da quelle deboli rassicurazioni come chi crede al sorriso d’amicizia sul volto del nemico aprii la porta e spingendola all’esterno come una macchia nera sullo sfondo dell’esplosione di luce vidi la spiaggia lavata da ogni traccia come se prima di me nessun piede ne avesse calpestato la sabbia liscia. Con la rapida euforia che segue un periodo di depressione, sentii – in modo puramente passivo e senza volontà da parte mia – che in quel momento la memoria era sgombra di sospetti di sfiducia e della vera e propria malattia della paura che avevo provato per una vita: proprio come i residui a livello dell’acqua vengono cancellati e trasportati altrove dall’ingrossarsi della marea. C’era un profumo di erba umida salmastra come le pagine bagnate di un libro, ed era mescolato a un odore più dolce che il sole caldo portava dai campi dell’interno; e tutto questo agiva su di me come una bevanda esilarante, filtrava e scorreva nelle mie vene come a trasmettermi qualcosa della sua natura impalpabile e mi faceva volare nella brezza ubriaco e senza meta. Unendosi a queste cose il sole continuava a inondarmi come la pioggia del giorno prima una cascata incessante di raggi luminosi: come se anche lui cercasse di nascondermi la presenza che intuivo sullo sfondo, e che si muoveva oltre la mia vista, tradita solo da un fruscio impercettibile ai confini della coscienza o dall’apparizione delle sagome inespressive che mi avevano fissato dal vuoto dell’oceano. Il sole, fiero e solitario globo nella distesa dell’infinito, era come uno sciame di falene dorate sul mio viso sollevato. Un fuoco bianco, divino e incomprensibile che per ogni sogno o promessa esaudita ne negava altri mille. Perché il sole indicava effettivamente regni sicuri e meravigliosi dove, se avessi conosciuto la strada avrei potuto avventurarmi in preda a quell’insolita esultanza. Ma questa sensazione viene dall’interno di noi stessi, perché la vita non ha mai, per un solo istante, rivelato i suoi segreti, e solo l’interpretazione che diamo dei suoi simboli ci permette di trovare felicità oppure noia, secondo un umore che è in noi deliberatamente indotto. Ma ogni tanto dobbiamo cedere ai suoi inganni, illudendoci per un attimo che stavolta troveremo la gioia negata. Per questa ragione la dolcezza del vento fresco, in un mattino che seguiva una notte infausta (le cui malefiche suggestioni mi avevano dato un’inquietudine maggiore di qualsiasi minaccia al mio corpo), mi sussurrava antichi misteri sono parzialmente legati alla terra, parlandomi di piaceri che erano più forti proprio perché sentivo che avrei potuto conoscerne solo una parte. Il sole, il vento e i profumi che salivano nell’aria mi rendevano partecipe delle feste celebrate dagli dèi, i cui sensi sono un milione di volte più acuti di quelli umani e le cui delizie sono un milione di volte volte più sottili e prolungate. Tutto questo poteva essere mio, dicevano gli elementi, se mi fossi abbandonato completamente al loro luminoso e ingannevole potere; e il sole, dio accovacciato dalla nuda pelle celeste, fornace sconosciuta e potentissima su cui nessuno può posare lo sguardo, nel bagliore delle mie sensazioni acuite era diventato un oggetto sacro. L’accecante luce che sprigiona nello spazio è qualcosa davanti a cui tutti gli esseri dovrebbero prostrarsi, attoniti. Il veloce leopardo, nelle verdi profondità della foresta, dev’essersi fermato brevemente a esaminarne i raggi divisi dalle foglie, e tutte le cose che esso ha nutrito devono averne conservato, almeno per quel giorno, il luminoso messaggio. Perché quando il sole scomparirà nelle profondità dello spazio eterno, la terra sarà perduta e diventerà nera sullo sfondo del vuoto senza confini. Quel mattino in cui sentii il fuoco della vita, e i cui brevi istanti di piacere sono al sicuro dalla voracità del tempo, fremeva di cenni misteriosi, cenni di cose troppo elusive per avere un nome.

Ivan Konstantinovič Ajvazovskij (Russian, 1817-1900), Лунный берег:Moonlit coast (1864) Oil on canvas, 56 x 80 cm Private collection
Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, “Moonlit coast”, 1864

Mi ero avviato al villaggio – chiedendomi quale fosse il suo aspetto dopo la ripulita di cui s’era occupata la pioggia – quando vidi, in uno scintillìo d’acqua illuminata dal sole che la copriva come una pozza d’oro, un piccolo oggetto che poteva essere una mano e che distava da me sei o sette metri, appena sfiorato dalla spuma. Lo shock e il disgusto che provai quando mi resi conto, stupito, che si trattava veramente di un pezzo di carne putrefatta, ebbero la meglio sulla mia nuova contentezza e alimentarono il sospetto che fosse proprio una mano. Certo nessun pesce, o parte di un pesce, poteva avere un aspetto simile, e mi parve di distinguere le dita verdastre e corrotte. Rivoltai la cosa con un piede, perché non volevo toccare un oggetto così immondo, e scoprii che aderiva al cuoio della scarpa come se fosse adesivo e cercasse di tenermi nella stretta della corruzione. Il pezzo di carne, che non aveva quasi forma, aveva tuttavia fin troppa somiglianza con quello che temevo, e lo spinsi nel risucchio di un’onda che lo portò via con un’insolita rapidità per quegli estremi lembi del mare.

Forse avrei dovuto riferire la mia scoperta, ma era troppo ambigua per giustificare un’azione del genere. Poiché la cosa era stata parzialmente divorata da una belva marina, non ritenni che fosse abbastanza identificabile per costituire la prova di una possibile, ignota tragedia. Ovviamente mi tornarono alla memoria i numerosi casi di annegamento, come altre cose sinistre che restavano nel campo delle possibilità. Qualunque cosa fosse il frammento portato a riva dalla tempesta – un pesce o un animale simile all’uomo – è questa la prima volta che ne parlo. Dopotutto, non è impossibile che proprio la putrefazione gli avesse dato quella strana forma.

Mi avvicinai alla cittadina, disgustato dalla presenza di un oggetto così macabro nell’apparente lindore della spiaggia lavata, e riflettei che era un segno tipico dell’indifferenza della morte in un mondo che affianca la putrefazione alla bellezza, e forse preferisce la prima. A Ellston non c’erano notizie di altri annegamenti o disastri del mare, e neppure sulle colonne del giornale locale, l’unico che leggessi durante il mio soggiorno.

È difficile descrivere le mie condizioni interiori nei giorni che seguirono. Sempre suscettibile a emozioni morbose la cui terribile angoscia poteva essere scatenata da oggetti esterni come dagli abissi del mio spirito, ero tormentato da una sensazione che non era di paura o disperazione, no, niente di simile; era piuttosto la consapevolezza di quel breve orrore che è la vita, della sporcizia che la sottende: sentimento che in parte è insito nella mia natura e in parte era il risultato delle macabre riflessioni suscitate dal pezzo di carne dilaniata che forse era stato una mano. In quei giorni la mia mente era un luogo di scogliere in ombra e indecifrabili figure in movimento, come l’antico e dimenticato regno del mare che la fiaba mi aveva riportato alla memoria. Sentivo, in brevi fitte di amarezza, il buio gigantesco dell’universo che ci sovrasta, dove la mia vita e quella della specie cui appartengo non vale nulla agli occhi delle stelle remote; un universo in cui ogni atto è vano e persino il dolore è un’emozione sprecata. Le ore che in precedenza avevo dedicato alla salute, al benessere fisico e alla serenità, passavano ormai (come se i momenti della settimana prima fossero finiti per sempre) in un’indolenza simile a quella di chi non ha più interesse a vivere. Ero stretto nel pietoso e paralizzante timore di un destino ineluttabile che, lo sentivo, incarnava l’odio delle stelle lontane e delle nere, enormi onde che speravano di portarsi via le mie ossa: la vendetta dell’indifferente, orrenda maestà dell’oceano notturno.

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Una parte di quel buio e di quell’instancabile attività marina erano penetrati nel mio cuore, per cui vivevo in un irragionevole, ottenebrato tormento; e tuttavia era un tormento acuto a causa delle sue origini elusive, della straordinaria e immotivata qualità della sua esistenza vampiresca. Davanti ai miei occhi si stendeva la fantasmagoria delle nuvole violacee, le misteriose bolle argentee, la spuma monotona e stagnante, la solitudine della casa dalle finestre spente, la beffa della cittadina abitata da marionette. Ormai avevo smesso di andarci, perché non era che una pantomima della vita. Come la mia anima, sorgeva sul bordo di un oceano oscuro che avvolgeva tutto; un oceano che poco a poco mi era diventato odioso. E fra quelle immagini si insinuava, corrotta e impura, la visione di un oggetto il cui aspetto umano lasciava sempre meno dubbi su ciò che un tempo era stato. Queste parole non possono esprimere l’orribile solitudine che si era insinuata in me: un sentimento tanto radicato nel mio cuore che non volevo neppure lenirlo, e grazie al quale presentivo eventi misteriosi e sconosciuti che mi stringevano sempre più furtivamente, a tenaglia. Non era pazzia: era, piuttosto, la percezione chiara e nuda del vuoto che si stende oltre questa fragile esistenza, illuminata da un sole passeggero e non più stabile di noi stessi; la presa di coscienza di una futilità che non è possibile provare e poi tornare alla vita, la consapevolezza che, per quanto mi ribellassi, per quanto combattessi con le forze che restavano al mio spirito, non avrei sottratto un palmo di terreno all’universo nemico, né avrei potuto difendere per un attimo la vita che mi era stata affidata. Temendo la morte come temevo la vita, gravato dal fardello di una paura senza nome, aspettavo l’orrore finale che prendeva forma nell’immensa regione oltre le pareti della coscienza.

In queste condizioni mi trovò l’autunno, e quel che avevo guadagnato dal mare lo persi di nuovo nelle sue acque. Autunno sulla spiaggia: un periodo squallido, senza una foglia rossa o un altro segno familiare che lo contraddistingua. E il mare spaventoso che non cambia mai, anche se l’uomo cambia. L’acqua era fredda e non mi bagnavo più; il cielo funereo si era fatto più scuro, come se valanghe di neve aspettassero di scendere sulle onde spettrali. Una volta cominciata la nevicata non si sarebbe mai arrestata, ma sarebbe continuata sotto il sole bianco, giallo e scarlatto, sotto quell’ultimo piccolo tizzone che farà posto all’inutilità della notte. Le onde una volta amichevoli borbottavano in modo incomprensibile e mi fissavano con un occhio strano, anche se non avrei saputo dire se il paesaggio buio fosse un riflesso del mio umore malinconico o se le tenebre dentro di me fossero provocate dalla scena che mi stava innanzi. Sulla spiaggia e sul mio essere era calata un’ombra simile a quella di un uccello che volteggia in silenzio, un uccello che i nostri occhi, pur attenti, non sospettano finché l’immagine sulla terra non replica quella in cielo, e improvvisamente alziamo gli occhi per renderci conto che qualcosa d’insospettato vola sulle nostre teste.

Accadde alla fine di settembre; la cittaduzza aveva chiuso i luoghi di divertimento in cui assurde frivolezze scandivano il passo di vite dominate dalla paura, e le marionette imbellettate compivano il rito dell’estate. Ora le marionette erano state messe da parte imbrattate di sorrisi dipinti o delle espressioni corrucciate che avevano assunto all’ultimo momento; nel villaggio non erano rimaste cento anime. Ai pittoreschi edifici ornati di stucchi che sorgevano di fronte al mare fu di nuovo consentito di andare in rovina nel vento, indisturbati. E mentre il mese procedeva verso il giorno di cui parlo nacque nella mia anima la scintilla di un’alba grigia, infernale, in cui sapevo che si sarebbe compiuto un minaccioso incantesimo. Siccome lo temevo più dei miei terribili sospetti (ma meno degli inafferrabili accenni alla cosa mostruosa che si nascondeva dietro il grande scenario), attesi il giorno dell’orrore che continuava ad avvicinarsi con un senso di curiosità più che di paura. Ripeto che fu alla fine di settembre, anche se non potrei giurare se fosse il 22 o il 23. I particolari sfumano nel ricordo di quegli avvenimenti incompiuti… frammenti da cui nessuna esistenza normale dovrebbe essere ossessionata, a causa delle malefiche suggestioni – e solo suggestioni – che sono in grado di suscitare. Sapevo che quello era il momento perché ero caduto in un abbattimento dello spirito che nasceva da cause intuitive e da un senso di familiarità troppo elusivo perché riesca a spiegarlo. Nelle ore del giorno non feci altro che che aspettare la notte, impaziente che il sole attraversasse il cielo come un riflesso appena intravisto nell’acqua increspata. E degli avvenimenti della giornata non ricordo niente.

Era passato molto tempo da quando il violento temporale aveva gettato un’ombra sulla spiaggia, e dopo varie esitazioni che non posso attribuire ad alcuna causa concreta, avevo deciso di lasciare Ellston; la stagione cominciava a farsi fredda e non c’era speranza di ritrovare la contentezza dei giorni di sole. Poi arrivò un telegramma (era rimasto due giorni negli uffici della Western Union prima che mi rintracciassero, a riprova di quanto poco fosse conosciuto il mio nome) in cui si diceva che il mio dipinto era stato accettato e aveva vinto il concorso, imponendosi su tutti gli altri. A questo punto decisi la data della partenza. La notizia, che in un altro momento dell’anno mi avrebbe fortemente colpito, fu ora accolta con una sorta di apatia. Sembrava così avulsa dalla realtà che mi circondava, così poco pertinente alla mia persona, che avrebbe potuto essere diretta a un altro, uno sconosciuto di cui avessi ricevuto il messaggio per sbaglio. Tuttavia fu proprio il telegramma a obbligarmi a fare i miei piani e a lasciare il cottage vicino alla spiaggia. Avrei dovuto trascorrervi altre quattro notti, quando avvenne l’ultimo di una serie di avvenimenti il cui senso non sta tanto in un che d’obiettivamente minaccioso, ma piuttosto nell’oscura e sinistra atmosfera che li circonda. La notte era scesa su Ellston e sulla costa, e una pila di piatti sporchi testimoniava che avevo mangiato da poco e non avevo nessuna voglia di darmi da fare. Il buio mi sorprese davanti a una delle finestre sul mare, con una sigaretta in bocca: era un liquido oscuro che riempì il cielo poco a poco, portando con sé la luna che galleggiava nel vuoto, a un’altezza mostruosa. Il mare piatto che lambiva la sabbia argentea, l’assenza completa di alberi, uomini e segni di vita d’ogni genere, lo sguardo dell’altissima luna rendevano improvvisamente chiara la vastità del paesaggio che mi circondava. Solo qualche stella ammiccava dal buio, come per accentuare con la sua piccolezza la solennità del disco lunare e l’instancabile lavorìo delle onde. Ero rimasto in casa, temendo di avventurarmi lungo il mare in quella che doveva essere una notte di imprecisati portenti, ma lo sentivo mormorare ugualmente i segreti di un’incredibile sapienza. Poi, trasportato da un vento che veniva dal nulla, mi giunse l’alito palpitante di una straordinaria forma di vita: l’incarnazione di tutto ciò che avevo intuito e sospettato, e che ora si agitava negli abissi del cielo o sotto le onde mute. Non ero in grado di dire in quale luogo quell’essere misterioso si svegliasse da un sonno antico e terribile: ma come fa chi segue un sonnambulo, e teme che potrebbe svegliarsi da un momento all’altro, mi inginocchiai accanto alla finestra, con la sigaretta quasi completamente consumata fra le dita, fissando la luna crescente.

Poco a poco il paesaggio immobile fu attraversato da una sorta di splendore la cui luminosità era accresciuta dal luccichio delle stelle e della luna in cielo. Più passava il tempo, più mi sembrava di essere costretto a guardare quel che stava per accadere; le ombre si ritiravano dalla spiaggia, e con esse tutto ciò che avrebbe potuto difendere i miei pensieri al momento dell’attesa rivelazione. Dove le ombre rimanevano, erano vuote e nere come l’ebano: mucchi di tenebra immobile che si stendevano sotto raggi crudeli e brillanti. Davanti a me, orribilmente vivido, si apriva l’eterno quadro della luna morta – che a prescindere dal suo passato era fredda come le tombe inumane che ospita fra le rovine d’infiniti secoli, anteriori alla comparsa dell’uomo – e del mare agitato da una vita invisibile, forse da un’intelligenza proibita. Mi alzai e chiusi la finestra, in parte per un istinto che nasceva dentro di me, ma soprattutto, credo, per avere l’opportunità di deviare momentaneamente il flusso dei miei pensieri. Avevo sistemato la lampada su una scatola nella parte occidentale della stanza, ma la luna era più vivida e i suoi raggi azzurrini invadevano anche gli angoli dove la luce artificiale era scarsa. L’antica luce del pianeta silenzioso si diffondeva sulla spiaggia come aveva fatto per milioni d’anni, e io aspettavo in un tormento reso più acuto dal ritardo di ciò che doveva accadere, e dall’incertezza di ciò a cui avrei assistito.

All’esterno della casetta la luce bianca faceva balenare una serie di forme spettrali le cui movenze irreali e fantomatiche sembravano beffarsi della mia volontaria cecità, proprio come le mie orecchie erano schernite da voci al di là dell’udibile. Per lunghissimi istanti rimasi immobile, come se qualcuno avesse zittito il Tempo e il tocco della sua grande campana. In realtà non c’era nulla che potessi temere: le ombre scavate dalla luna non erano affatto insolite e non nascondevano nulla ai miei occhi. La notte era silente, lo sapevo nonostante la finestra chiusa, e le stelle erano inchiodate, come in lutto, al cielo cupo e immenso in ascolto. Nessun gesto di allora, nessuna parola adesso potrebbero descrivere la mia situazione o dire le condizioni in cui si trovava la mia anima devastata dalla paura, imprigionata nella carne che non osava rompere il silenzio, nonostante la tortura che esso rappresentava. Come in attesa della morte, e certo che nulla potesse allontanare il pericolo che minacciava la mia anima, stavo accucciato con una sigaretta in mano. Oltre le povere finestre sporche si stendeva un mondo silenzioso, e in un angolo della stanza un paio di remi incrostati, lasciati da qualcuno prima del mio arrivo, condivideva la veglia del mio spirito. La lampada continuava a bruciare, emettendo una luce malata dal colore cadaverico. Fissandola, di tanto in tanto, per la disperata distrazione che forniva, mi accorsi che nella base piena di kerosene si formavano e svanivano numerose bolle. Strano, ma dalla lampada non veniva calore: e a un tratto mi resi conto che la notte non era calda né fredda, anzi stranamente neutra… come se le leggi fisiche fossero sospese e le forze che governano l’esistenza normale fossero andate in pezzi.

Poi, con un risucchio straordinario che increspò il mare striato d’argento fino alla riva ed echeggiò in fondo al mio cuore, una creatura emerse nuotando dalle onde. Avrebbe potuto essere un cane, un essere umano o qualcosa di più strano. Non poteva sapere che la guardavo, e forse non gliene importava: ma come un pesce deforme si tuffò sotto la superficie del mare che specchiava le stelle e nuotò sott’acqua. Dopo un attimo emerse di nuovo e stavolta, dato che era più vicina, vidi che portava in spalla qualcosa. Allora mi resi conto che non poteva essere un animale, che era un uomo o qualcosa di simile a un uomo, e che si avvicinava alla terra dall’oscurità dell’oceano. Ma nuotava con tremenda abilità.

Mentre guardavo, passivo e al colmo del terrore, con l’occhio fisso di chi aspetta la morte per mano di un altro e sa di non poterla evitare, il nuotatore si avvicinò alla spiaggia, anche se troppo a sud perché riuscissi a distinguerne la forma o i lineamenti. Muovendosi in modo incerto, e seguito da schizzi di spuma scintillante che il suo passo frettoloso lasciava cadere in abbondanza, emerse e si perdette fra le dune dell’interno.

Un improvviso ritorno della paura, che in precedenza si era attenuata, si impadronì di me. Un senso di freddo pungente m’invase, anche se la stanza (di cui non osavo aprire la finestra) era soffocante. Pensavo che sarebbe stato orrendo se qualcosa avesse tentato di entrare da una finestra aperta.

Ora che non potevo più vedere la creatura, ebbi la sensazione che fosse vicina e si nascondesse da qualche parte fra le ombre, o mi spiasse orribilmente da una delle finestre che non sorvegliavo. Volsi lo sguardo, con ansia e tensione estrema verso tutti i vetri della stanza, temendo di incontrare la faccia dell’intruso che mi fissava ma incapace di sottrarmi a quella terrificante ispezione. Guardai per ore ma sulla spiaggia non c’era più nessuno.

Così passò la notte, e con essa il portento che ribolliva come il malefico intruglio di un calderone: in un attimo era salito fino all’orlo e poi, dopo una pausa, si era ritirato, portando con sé il messaggio sconosciuto che recava. Come le stelle che noi adoriamo sperando nella rivelazione di terribili e gloriosi misteri, e che in realtà non rivelano nulla, qualcosa mi aveva spinto paurosamente vicino alla scoperta di un antico segreto che sfiorava il mondo dell’uomo e si nascondeva prudentemente al di là della linea dell’ignoto. Ma in definitiva non avevo avuto niente; mi era stata concessa appena un’occhiata, oscurata per giunta dai veli dell’ignoranza. Non riesco neppure a immaginare cosa si sarebbe mostrato se fossi stato più vicino al nuotatore che avanzava verso riva invece che in direzione del mare. Non so quello che sarebbe accaduto se l’intruglio fosse debordato dal calderone, rovesciandosi all’esterno in una rapida cascata di rivelazioni. L’oceano notturno aveva inghiottito di nuovo il frutto del suo seno. Non saprò altro.

Ancora adesso ignoro perché l’oceano eserciti su di me un fascino così grande. Ma forse nessuno può risolvere questi problemi: esistono a dispetto di qualunque spiegazione. Ci sono uomini, anche sapienti, che non amano il mare e lo sciabordio delle onde sulle spiagge dorate: ci giudicano strani, noi che amiamo il mistero dell’antico e infinito abisso. Ma per me negli umori dell’oceano c’è un fascino misterioso, indefinibile. Sarà il biancore della spuma malinconica sotto la luna cerea e morta; saranno le onde che si frangono eterne su rive sconosciute. In ogni caso esso è lì, e così sarà quando la vita scomparirà e rimarranno solo le creature sconosciute che scivolano nelle sue profondità oscure. Quando vedo le terribili onde che sorgono con forza interminabile, mi prende un’estasi simile alla paura: allora devo inchinarmi dinanzi alla potenza dell’oceano, perché altrimenti lo odierei e odierei le sue acque meravigliose.

È vasto e solitario, e tutte le cose sono nate dal suo grembo vi torneranno. Nelle epoche remote del futuro nessuno abiterà sulla terra e il movimento non esisterà più, salvo nelle acque eterne. E le acque si abbatteranno con fragore e abbondanza di spuma su rive sconosciute, e nel mondo morente non resterà più alcuno ad ammirare la luce fredda della luna invecchiata che gioca sulle maree e la sabbia ruvida. Ai margini dell’abisso regnerà la schiuma stagnante, e si raccoglierà intorno ai gusci e alle ossa di creature morte che un tempo abitarono le acque. Esseri silenziosi e flaccidi si trascineranno e rotoleranno sulle spiagge vuote, e anche quella pigra scintilla di vita si estinguerà. Allora su tutto regnerà la tenebra, poiché in ultimo persino la bianca luna si spegnerà sulle acque. E niente rimarrà sopra o sotto la superficie del mare; e fino all’ultimo millennio, dopo che tutte le cose saranno perite, il mare tuonerà, inquieto, nella notte perpetua.

(The Night Ocean, 1936)

Ilya Nikolaevich Zankovsky (Russian, 1832-1919), Darjalpasset Oil on canvas, 101,5 x 133 cm Private collection
Ilya Nikolaevich Zankovsky, “Darjalpasset”