“La casa sull’abisso” di William Hope Hodgson

Una discesa agli inferi si tramuta in un vagabondaggio spaziotemporale. Alle soglie del XX secolo la tradizionale catabasi si tinge ormai delle tinte fosche del cosmicismo già einsteiniano. In un universo che ha da secoli perso il proprio centro, W. H. Hodgson tenta per l’ultima volta di gettare uno sguardo d’insieme sul Tutto. La visione che ci restituisce è quella di un universo senza appigli, in perenne marcescenza, dominato da ignote forze che incarnano il caos e la morte, anticipando quelli che saranno gli incubi tipici del nichilismo sepolcrale di H. P. Lovecraft.


di Andrea Casella
copertina: Ed Emshwiller, “The House in the Borderland”

                              

« Occorre avere trascorso un’eternità nel
silenzio di una tenebra assoluta, per comprendere
il pieno orrore di essere privi di luce. »

W. H. Hodgson, La casa sull’abisso

La casa sull’abisso. Un titolo che al lettore medio di H.P. Lovecraft non suonerà affatto estraneo. Grande è il tributo che il maestro di Providence deve al romanzo-capolavoro del britannico William Hope Hodgson (1877 – 1918), non foss’altro per il motivo che la spaventosa casa riappare in alcuni racconti del suo ciclo onirico, e segnatamente ne La casa misteriosa lassù nella nebbia, racconto immerso nelle foschie del sogno, da cui emerge la casa, la cui porta, fantasmagoricamente, si apre direttamente su uno strapiombo a picco su Kingsport. Con decisivo rovesciamento di prospettiva, nel racconto di Lovecraft gli orrori abitano l’interno della casa, laddove Hodgson aveva invece posto in essere una storia di assedio da parte di misteriose forze aliene provenienti dallo spazio esterno.

Pur avendo molti sentito parlare del romanzo, forse pochi avranno avuto modo di leggerlo in lingua italiana, anche a causa di una certa difficoltà di reperimento, almeno fino a pochi anni orsono. Eppure, il romanzo non è solo un viatico (come forse qualcuno intende) verso una maggior comprensione di quel fiume carsico da cui ricava incessante approvvigionamento l’universo lovecraftiano. No. La casa sull’abisso è davvero un capolavoro, è un romanzo che merita di essere letto e ammirato, in quanto disvelatore di un inconscio formidabile come quello di Hodgson, ingombro di inquietudini cosmiche al limite dell’anelito religioso, pur se filtrato attraverso gli occhiali dell’uomo del tardo positivismo, che non ricerca più il Dio, bensì il Principio.

L’occasione della narrazione è il ben noto canovaccio del ritrovamento del manoscritto misterioso (altro topos lovecraftiano [1]). Due amici, Berregnog e Tonnison, avventuratisi in campeggio in una zona remota dell’Irlanda occidentale, i cui abitanti, per la maggior parte, non parlano neanche inglese, ma solo un incomprensibile dialetto gaelico, scoprono un prodigioso sperone roccioso, dalla forma vagamente circolare, a picco su una profonda forra carsica, nella quale un torrente si getta con sonori scrosci. Sullo sperone incombente sull’abisso, i due rinvengono i resti di quello che probabilmente una volta era stato un edificio e, più interessante ancora, un manoscritto abbastanza male in arnese, ma in gran parte leggibile, la cui intestazione è, neanche a dirlo, La casa sull’abisso.

E così, esortato da Tonnison, Berregnog dà inizio alla lettura di quello che si scopre essere un diario di strani accadimenti verificatisi in un ignoto passato. 

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Le vicende sono ovviamente narrate in prima persona dal protagonista, un uomo sulla cinquantina ma ancora vigoroso (forse un rimando allo stesso Hodgson), di cui non viene mai rivelato il nome. Questi vive da tempo nella “casa sull’abisso”, con l’unica compagnia della sorella Mary e del cane Pepper. La presenza assidua del cane, in tutti gli episodi in cui si snoda la narrazione, non è casuale, in quanto, come noto, il cane è, in quasi tutte le culture del mondo, l’essere psicopompo per antonomasia [2]. L’abisso che si apre al di sotto della casa non può che rimandare all’accesso del mondo dell’oltretomba. La catabasi, in tal caso, non conduce, tuttavia, nelle viscere della terra, ma, sorprendentemente, negli incommensurabili spazi interstellari.

Le stranezze prendono avvio d’emblée, senza un apparente motivo, in una sera tranquilla. Il protagonista, postosi come di consueto a leggere nel proprio studio, viene sollevato da una forza misteriosa e condotto sempre più in alto e lontano, oltre il pianeta Terra, addirittura oltre il sistema solare conosciuto, finendo per approdare, non si sa bene se con il proprio corpo o con il proprio spirito, in un luogo inimmaginabile: un’ampia pianura chiusa da un anfiteatro di monti nel mezzo della quale spicca, solitaria e silenziosa, una replica esatta della propria casa. Già da questo nel lettore si fa strada l’ipotesi che, più che trovarsi in una diversa parte dell’universo, il protagonista si trovi in un’altra dimensione, collegata alla nostra in modo misterioso, e la cui porta di accesso pare essere proprio la casa (in effetti, il titolo corrente, La casa sull’abisso è improprio: il titolo originale è The house on the borderland: lett. La casa sulla terra di confine).

Ma è ciò che incombe sull’anfiteatro di monti (o l’arena, come ribattezzata dal pensiero del redattore) a destare, sulle prime, il maggior sconcerto: due giganti terrificanti, che si rivelano essere due antiche, quanto famose, divinità pagane, Set e Kali: il Caos e la Morte, verrebbe da pensare. Sono dunque questi i principi che governano l’universo? Un pessimista come Albert Caraco non esiterebbe a rispondere di sì. Oltre a queste divinità supreme, tuttavia, ve ne sono altre, più piccole, tutte disseminate lungo gli anfratti dei monti. Alcune di esse sembrano familiari, altre del tutto ignote e repellenti:

“Mi girai e guardai rapidamente in alto, tra i foschi dirupi alla mia sinistra. Sotto un alto picco appariva, indistinta, una forma grigia. Mi stupii di non averla già vista: poi ricordai che non avevo ancora guardato da quella parte. In breve, la vidi più distintamente. Era, come ho detto, grigia. Aveva una testa enorme, ma era priva di occhi. Quella parte del viso era informe. Vidi allora che vi erano altri esseri, lassù tra i picchi. Più lontano, semisdraiata su un alto crinale, distinsi una massa livida, macabra e informe a parte la faccia immonda, semianimalesca, che orrendamente occhieggiava a metà del corpo. Poi ne vidi altri, a centinaia. Parevano affiorare dall’ombra. In molti, riconobbi quasi subito divinità mitologiche; altri mi erano ignoti, totalmente ignoti, al di là delle umane possibilità di immaginazione. Guardai da ogni parte e ne vidi altri, e altri ancora. Le montagne pullulavano di esseri fantastici: divinità animali e mostri così orrendi che, se anche avessi la capacità di descriverli, la stessa decenza me lo vieterebbe”.

Altrettanto sconvolgente è l’ipotesi che si affaccia alla mente del protagonista in merito alla decantata immortalità degli dèi:

C’era, in essi, un’indefinibile, ottusa vitalità, una specie di vita-in-morte, qualcosa che non era affatto vita come noi l’intendiamo, ma piuttosto una forma inumana di esistenza che si potrebbe paragonare a uno stato di trance: condizione in cui si poteva immaginare durassero in eterno. ‘Immortali!’. Questa parola mi venne spontanea alla mente, e subito cominciai a chiedermi se poteva essere quella l’immortalità degli dèi”.

La vita imperitura degli dèi del cosmo (del cosmo stesso?) sembra essere una forza metafisica impersonale, senza apparente scopo. Una condizione non-intelligente che si trascina indefinitamente attraverso le ere. Ed è uno di questi dèi, o una di queste forze, a farsi avanti: un essere suino grottescamente bipede, come un ibrido uomo-maiale, appare ad un tratto nell’arena, nei pressi della casa. L’essere si avvicina ad essa, ne spia l’interno: cerca di aprirsi una via d’accesso! Il protagonista, atterrito, non fa in tempo ad osservare l’esito dell’azione del mostro: la stessa forza misteriosa che lo aveva condotto in quel luogo abominevole lo riafferra e lo riconduce sul pianeta Terra, nel piccolo, rassicurante sistema solare conosciuto, illuminato dalle antiche, familiari costellazioni.

La porta d’accesso al “nostro mondo” è l’abisso che si apre sotto la casa. È lì che, per la prima volta, il protagonista e l’onnipresente Pepper fanno la conoscenza indiretta degli esseri suini. Uno di essi, senza che peraltro sia mai avvistato chiaramente, ferisce il cane, anche se non mortalmente. Di lì a poco gli esseri fanno la loro clamorosa entrata in scena. La descrizione è dettagliata:

“Dopo pranzo, mentre leggevo nel mio studio, alzai per caso gli occhi dal libro e vidi qualcosa che spiava dentro dal davanzale della finestra, qualcosa di cui sporgevano soltanto gli occhi e le orecchie. – Era dunque un maiale! – esclamai. Mi alzai in piedi e lo vidi meglio: ma non era un maiale. Dio solo sa cosa fosse! Mi ricordava, vagamente, l’essere orrendo che avevo visto nella grande pianura. Aveva bocca e mascelle grottescamente umane e mancava quasi di mento. Il naso si protendeva in un grugno, ed era questo, insieme agli occhi piccoli e alle strane orecchie, che gli conferiva quel fantastico aspetto di suino. La fronte era bassissima, e tutta la faccia era di un biancore schifoso. Per un minuto, forse, rimasi immobile a guardare quell’essere, con una crescente sensazione di nausea e di paura. Dalla sua bocca usciva un borbottio ininterrotto senza senso e, una volta, un grugnito semisuino. Ma erano soprattutto gli occhi che mi affascinavano; avevano, a volte, lampi d’intelligenza orribilmente umana, e si staccavano continuamente dal mio viso per posarsi su qualche oggetto della stanza, come se il mio sguardo li turbasse. Mi pareva si reggesse al davanzale della finestra con due mani ad artiglio. A differenza del viso, queste mani erano di un bruno argilla, e somigliavano vagamente a quelle umane, in quanto avevano quattro dita e un pollice, unite però da una membrana fino alla prima articolazione, come quelle dei palmipedi. Avevano anche le unghie, ma così lunghe e robuste da ricordare gli artigli di un’aquila”.

È questo il preludio a un vero e proprio assedio, protrattosi per tutta la notte, da parte di decine di questi esseri ripugnanti, il cui scopo è di penetrare in tutti i modi nella casa. L’attacco è però sventato, anche se a fatica, e il sorgere del sole riporta un’apparente calma sugli eventi.

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William Hope Hodgson (1877 – 1918)

Ci si potrebbe chiedere che cosa rappresentino gli esseri suini dalle rudimentali movenze umane. Si tratta forse di un fenotipo casuale, atto soltanto a provocare ribrezzo nel lettore? La potente fantasia di Hodgson è abile nel mostrarci mostruosità che rimangano ben impresse nella memoria del lettore; grande esempio di tale capacità si riscontra nell’altro suo grande romanzo, di grezza fantascienza, che è La terra dell’eterna notte, in cui più ampiamente viene sviluppato il tema, pure toccato nel romanzo in oggetto, della morte del Sole in un lontano futuro postapocalittico [3].

D’altra parte, potrebbe trattarsi di una velata critica al genere umano. Non dimentichiamo che di lì a poco sarebbe scoppiata la Grande Guerra, nella quale lo stesso Hodgson avrebbe perso la vita, incenerito da una granata. Quel che è certo, è che essi sono una manifestazione delle forze ignote che assediano da ogni parte l’apparente tranquillità quotidiana. Come ebbe a scrivere Thomas Ligotti, viviamo circondati da cose che minacciano di trasformare da un momento all’altro il nostro mondo in un incubo, e solo la fortuna fa sì che ciò non accada.

L’orrendo assalto è però l’occasione per esplorare più attentamente la forra dell’abisso. La catabasi viene effettuata ovviamente in compagnia del cane Pepper, fidata scorta nelle tenebre sotterranee. Tema iniziatico tipico, la discesa agli inferi qui si colora di orrore cosmico: la bocca dell’Ade si affaccia su dimensioni esterne che nulla hanno a che fare con il pianeta Terra, anche se, dall’esplorazione circospetta non è altro che un abisso nero, in cui il torrente si scarica con forza indicibile, quello che emerge alla vista. Nessuna traccia degli esseri suini. Eppure è chiaro che, in qualche modo, essi emergono da quell’inferno.

Il protagonista rischia anche la vita se non fosse per Pepper. La galleria in fondo al pozzo inizia a riempirsi d’acqua a causa di un forte temporale e la via di accesso rischia di ostruirsi. Pepper, prontamente, lo salva trascinandolo verso l’uscita e l’aria aperta poco prima che l’ingresso sia colmato in via definitiva dall’acqua:

“Quando ripresi conoscenza, seppi di essere rimasto a letto due settimane. E passò un’altra settimana prima che mi sentissi abbastanza forte per uscire e avventurarmi fino all’abisso, che trovai quasi interamente colmato da un grande lago dalla superficie tranquilla. L’acqua era turbata soltanto in un punto in corrispondenza del crepaccio: dove, al termine della galleria ormai sommersa, si apriva il pozzo senza fondo. Lì l’acqua ribolliva continuamente, e ogni tanto uno strano gorgoglio saliva dal basso. A parte questo, nulla permetteva d’indovinare ciò che si nascondeva sotto la superficie del lago. Ed io pensai, contemplandolo, che l’ingresso di quell’inferno era ormai suggellato in modo così definitivo da rendere impossibile il ritorno degli esseri-suini. Ma a questa certezza si accompagnava il timore che nuovi orrori adesso potessero giungere da qualsiasi parte”.

Ci si può chiedere come mai, dopotutto, il protagonista non faccia su armi e bagagli e non fugga via a gambe levate dalla terribile casa sull’abisso. Se lo chiede anche il protagonista stesso. Il motivo per restare sembra essere il fatto che la casa, insieme all’orrore, custodisca anche alcuni suoi ricordi personali, uno dei quali legato a una donna da lui amata in gioventù e ora scomparsa:

“Per molti giorni, dopo l’ultimo incidente che ho riferito nel diario, ho pensato seriamente di lasciare questa casa; e l’avrei certo lasciata, se non si fosse verificato l’avvenimento grande e meraviglioso di cui intendo parlare. Giustamente mi guidò il cuore, quando decisi di rimanere qui, nonostante le visioni e gli avvenimenti ignoti e inesplicabili; infatti, se non fossi rimasto, non avrei rivisto il viso di colei che amavo. Sì, anche se pochi lo sanno (oggi nessuno, a parte mia sorella Mary), io ho amato e, ahimè, ho perso il mio amore. Potrei scrivere la storia di quei dolci, lontani giorni, ma sarebbe come riaprire vecchie ferite; eppure, dopo tutto quel che è successo, perché dovrei preoccuparmene? Infatti, lei è ritornata a me, uscendo dall’ignoto. Stranamente, mi avvisò; mi avvisò appassionatamente di evitare questa casa. Mi implorò di lasciarla, ma ammise, allorché la interrogai, che non avrebbe potuto raggiungermi, se mi fossi trovato altrove. Eppure, nonostante questo, continuò ad avvertirmi; dicendomi che questo luogo, molto tempo fa, era stato dato in consegna al male, e che su di esso dominano leggi crudeli, leggi che nessuno di noi, qui, conosce. E io… io mi limitai a chiederle, ancora una volta, se potesse raggiungermi in qualche altro luogo, e lei non poté far altro che tacere”.

L’incontro tra i due si verifica su quello che la donna, enfaticamente, denomina Mare del Tempo, una fantastica spiaggia avvolta dalla nebbia su cui, con ritmico battito, si infrangono le onde di un mare lattiginoso, il Mare del Tempo, appunto. Non solo orrore, dunque: la casa è anche la porta d’accesso a quella che è la dimensione del cuore del protagonista; il non-luogo presentizzato dei ricordi, dove il tempo cessa di esistere:

“Gradualmente, sgorgando dal nulla, la nebbia aumentò, mentre le fiammelle delle candele si abbassavano e per la stanza si diffondeva un’altra luce: una luce bianca e senza origine visibile. Nello stesso tempo mi parve che il ticchettio della pendola, nell’angolo, accelerasse; finché non udii più che un ronzio continuo, sempre più acuto. Improvvisamente il ronzio cessò, le pareti della stanza si cancellarono del tutto, e nel silenzio che mi avvolgeva cominciai a percepire un altro suono: una specie di largo battito, di vasta pulsazione, di lento scroscio ritmico, che si fece gradualmente più spaziato e distinto. Poi, ecco, ero sulla riva di un immenso mare nebbioso, e ciò che udivo era il lento frangersi delle sue onde ai miei piedi. Ai miei lati una spiaggia di sabbia finissima, impalpabile, si estendeva a perdita d’occhio come l’oceano davanti a me. E sotto la superficie di quell’oceano, di tanto in tanto, mi pareva di scorgere guizzi, bagliori: ma così rapidi che era impossibile fissarli nella memoria ed essere sicuri di averli visti davvero. Dietro di me si ergevano picchi neri, scoscesi, fino a un’altezza incommensurabile. Il cielo aveva un uniforme colore grigio, e quel luogo era illuminato da un immenso globo di pallido fuoco”.

Ma il paradiso dei ricordi non è raggiungibile che per pochi attimi. La visione si dissolve come un sogno e la donna, ancora una volta, scompare.

Ed ecco, dopo l’intermezzo dell’onirismo sentimentale, la parte probabilmente più sorprendente e visionaria del romanzo: la descrizione della morte del sistema solare. Questa volta, dunque, non è il turno della mente di visitare dimensioni extracosmiche; questa volta è l’essere umano stesso ad essere partecipe di ciò che dovrà verificarsi inevitabilmente. L’accelerazione del tempo prende avvio lentamente, ed è resa visibile dall’accelerazione del moto degli astri, nonché delle lancette dell’orologio:

“Rimasi un po’ stupito, esitai un attimo, poi mi alzai e attraversai la stanza per sollevare la persiana. Tra i rami degli alberi vidi che il sole si stava levando, ma non lentamente come di solito, bensì con un veloce, costante, percepibile moto e nel volgere di un minuto, raggiunse le vette delle piante, e le sorpassò: fu giorno pieno. Mentre osservavo, stupito, il fenomeno, udivo alle mie spalle uno strano ronzio, vibrante come il fremito d’ali di una zanzara. Mi voltai e capii che veniva dall’orologio a muro. Muto per la meraviglia, osservai il quadrante, sul quale la lunga sfera dei minuti primi roteava superando in un minuto lo spazio fra un’ora e l’ora, con la velocità di una normale lancetta dei secondi. Poi vidi l’ombra del riquadro della finestra spostarsi sul pavimento verso di me e un vasto barbaglio di sole cancellarla in qualche attimo. Mi voltai nuovamente verso la finestra. Il sole si spostava visibilmente nel cielo: saliva, saliva. Raggiunse lo zenit e passò sopra la casa come una barca a vela spinta dal maestrale. La veranda si oscurò. Sempre più meravigliato, osservai un altro straordinario fenomeno: i cirri, sebbene sembrassero sospinti da un velocissimo vento, non transitavano per il cielo, ma mutavano forma e posizione di minuto in minuto, rapido accavallarsi, fondersi, assorbirsi e respingersi, aggrovigliarsi e diradarsi, come groppe di pecore impazzite. Il sole impallidì a ponente in un breve abbassarsi di tensione. Da levante, l’ombra di ogni cosa palese scivolò, con moto evidente, furtivo, serpeggiante, rampante, verso l’incombente grigiore. La luce tutt’intorno divenne irreale. Nella camera fu il buio. Il sole scomparve all’orizzonte così rapidamente che la mia vista ricevette quasi una brusca scossa. Vidi, attraverso la nebbiosità della sera crescente, l’argenteo levarsi della luna, verso il Sud”.

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Il tempo prende a scorrere in maniera sempre più vertiginosa: ai minuti, poi ai secondi, corrispondono prima anni e poi secoli e millenni. La rovina e la morte prendono gradualmente il posto della vita: Pepper si ritrova ridotto a un mucchio di polvere, così come i mobili della casa e la casa stessa, diroccata dal peso dei secoli che si vanno accumulando. Un sordo rumore di fondo sorge a coprire tutto: l’uomo si rende conto che si tratta nientemeno che del rullo del moto di rotazione del pianeta! Il paesaggio diviene sempre più desolato e buio: il giardino esterno alla casa si muta in una distesa irregolare di dune sabbiose: la forza del Sole diminuisce sempre più:

Lentissimamente, nel pur vorticoso e furtivo trascorrere di eoni verso l’eternità, la Terra affondò in un assurdo buio incandescente, e ciò fu soltanto palese per una torbida sfumatura di quel nero che pareva avere l’anima di fuoco. Poi, improvvisamente, o così mi parve, qualcosa cambiò: la cupa cortina incandescente sospesa sopra la mia testa incominciò a scorrere verso sud, a diradarsi, a vibrare come la corda di un’arpa eolia, e il sole scoppiò d’improvviso nel cielo, in tutto il suo fulgore, attraversandolo in una parabola gloriosa da un capo all’altro. Il succedersi dei suoi movimenti era ormai visibile, benché ancora rapido come il battito d’un polso e, man mano che il tempo passava – che i secondi passavano – quel fulgore impallidiva, prendeva toni opachi di violetto, di grigio, poi di nero. Sotto, il mondo era scuro, non pareva più composto di materia, ma l’ectoplasma di un corpo in dissolvenza.

Non ci si può nascondere un certo senso di depressione, di nodo alla gola a leggere della fine del cosmo incombente. Mentre fino a poco prima la distinzione tra notte e giorno era divenuta impercettibile, ora lo spegnersi del Sole e il rallentamento della rotazione terrestre rendono di nuovo manifesti i due periodi:

“Gli anni scomparivano rapidamente nel passato, ma adesso erano nuovamente distinti in giorni e in notti. Lentamente il sole assunse un color bronzo dorato incandescente, circondato da lunghe strisce rosso sangue a loro volta circondate di lingue nere, come in un alone variopinto, distinto in anelli di varia grandezza. Non riuscii a capire se si trattasse di un nuovo fenomeno o di illusione ottica. Infine compresi: il raffreddamento era cominciato nelle zone periferiche dell’alone di irradiazione, che apparivano ormai nere, mentre quelle più vicine alla fonte di calore erano ancora rosso sangue… Su tutto regnava un silenzio angoscioso, squallido, desolato: l’immutabile, paurosa quiete d’un mondo morente.

È probabilmente la descrizione del Sole che a poco a poco si spegne quella che lascia un senso di maggior desolazione nell’animo del lettore: di fronte a questo anche gli orrori alieni dei suini mostruosi passano in secondo piano. La morte del cosmo è forse pensiero troppo ingombrante non solo per il cervello, ma anche per il cuore. Come si può sopportare? Ma Hodgson deve porcela davanti agli occhi, perché il suo intento, come i grandi alchimisti d’un tempo, è la descrizione del Tutto. Nessuna analisi di epifenomeni: qui si va dritti al dunque, agli esiti necessari.

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Egli abbraccia e ci fa abbracciare con la mente lo spazio-tempo: nessuna rilevanza viene accordata ai dettagli: laddove la mente può più oltre spingersi nel buio del principio di causalità, lì deve appunto arrivare. Visione onnicomprensiva, e quindi segretamente religiosa, tradizionale, pur nell’apparenza della fantascienza letteraria da romanzo. D’altronde, l’inizio del XX secolo è quello in cui vedono la luce la teoria della relatività e la meccanica quantistica. L’esplorazione sempre più approfondita della materia non può lasciare indifferente l’artista-veggente, che cerca con i mezzi a sua disposizione di esorcizzare gli abissi dell’ignoto spalancati dalle nuove scoperte scientifiche.

Ed infine, al culmine della lettura, con l’animo estenuato e triste, ecco che ci ritroviamo di fronte al Sole esalante il suo ultimo respiro:

“Il freddo divenne terribile, disumano. Il silenzio, angoscioso, ostile. Il moto della Terra continuava a rallentare in modo costante, ineluttabile. Poi venne improvvisamente la fine, dopo una notte lunghissima, che mi parve eterna: ed ero così stanco, spaventato dal buio, che accolsi il sole morente come un amico. Esso rimase immobile nell’oscurità dominante, consumando la sua ultima luce, nutrendosi di se stesso nella sua terribile agonia. All’ultimo, ebbe un singolare movimento all’indietro e rimase inciso, senza rilievo, sull’illimitato scudo nero del cielo. Il suo centro si oscurò, l’ultima luce si raccolse sui bordi, poi divenne una linea sottile all’equatore. Infine, sparì anche quella. Non rimase che un immenso disco morto, consumato, circondato da un lieve alone bronzeo sfumato di vermiglio, nebbioso e lieve come un ultimo sospiro”.

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Una pagina del fumetto di Simon Revelstoke e Richard Corben ispirato a “La casa sull’abisso” di W.H. Hodgson

La Terra rimane avvolta da una perpetua notte senza stelle; la Terra stessa precipita nella morte, insieme al Sole: solo un vago chiarore nebbioso in direzione del nord rimane a scalfire la tenebra invincibile:

“Nessuno riuscirebbe a immaginare l’oscurità che regnava intorno a me. Una oscurità palpabile, brutale e orribile; come se si trattasse di un corpo morto, premuto contro di me… un’oscurità morbida, e fredda come il ghiaccio”.

La casa è ormai un cumulo di macerie, il silenzio funereo è interrotto solo dal precipitare dei calcinacci. È questo l’ultimo “orologio” percepibile del continuo avvicendarsi delle ere, che culminano, infine, con la morte dell’intero sistema solare: i pianeti, ad uno ad uno, iniziano a precipitare sul Sole spento, disintegrandosi in cupi bagliori istantanei.

Più sorprendente ancora: la Terra pare in qualche modo avviarsi verso una nuova fonte di luce, prima della grandezza di Giove, poi man mano più vasta. Ben presto, il protagnosta si trova al cospetto di un’enorme stella verde, un vero e proprio nuovo Sole, che irraggia della sua strana luce la carcassa della casa e il deserto gelato circostante. All’uomo balena un’idea meravigliosa: che quella stella altro non sia che il vasto Sole Centrale attorno al quale ruota il nostro universo?

Questa idea, che potrebbe sembrare un semplice parto della fervida immaginazione di Hodgson, ha invece una probabile origine pitagorica. Nel sistema filosofico di Filolao, il cosmo (compreso il Sole), ruota attorno a un βωμός, a un “fuoco centrale” (lett. “altare”) che lo vivifica, imprimendogli il moto circolare [4]. Non è impossibile che Hodgson, frequentatore di circoli teosofici, si fosse imbattuto in questa idea antichissima.

Ad ogni buon conto, l’immagine desolante della morte del sistema solare non è un sipario calato, ma un sipario che si solleva. L’ultima visione del protagonista, pronipote diretta di quella di Gordon Pym, nel punto dove il romanzo di Poe termina (o piuttosto s’interrompe?), ci conduce ai confini della metafisica. Il capitolo 21 ha un titolo eloquente: I globi celestiali. Dalla stella verde cominciano a scaturire delle sfere di un luminoso traslucido. In alcune di esse si intravedono dei volti indistinti. È senza dubbio la parte più indecifrabile del romanzo. Che cosa sono quelle sfere? Forse una versione delle idee platoniche? Che non ci si trovi più al cospetto della semplice materia, è comunque chiarito:

“E intanto capivo di essermi inoltrato in un nuovo grande mistero, di essere entrato in una regione mai prima immaginata… un luogo sottile, intangibile, o forse una nuova forma di esistenza… Che la Stella Verde fosse abitata da una grande Intelligenza? Era un’idea sconvolgente. Ero davanti alla sede dell’Eterno?… E il Paradiso? Che fosse un’illusione? Il Mare del Tempo… e la mia amata! Forse il Paradiso era ciò che avevo incontrato…”.

Inizia a farsi strada nella mente del lettore l’ipotesi che il viaggio extracosmico ed extratemporale non fosse altro che un viaggio interiore verso l’illuminazione (moksha nella tradizione indù). Non è forse l’idea gnostica cardine? La prigione cosmica si trascende solo attraverso l’introversione in sé stessi. Solo visitando le interiora terrae è possibile risalire alla luce dell’ineffabile.

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La visione ha termine nella tranquillità familiare dello studiolo nella casa sull’abisso. Le ere innumerevoli e poi l’eternità si sono dissolte davanti agli occhi del protagonista, che si ritrova nella sua poltrona preferita, come se nulla fosse. Solo un particolare è rimasto lo stesso: Pepper ridotto a un cumulo di cenere [5]. L’ultima barriera di salvezza crolla. Il nuovo cane non riesce in alcun modo a salvarlo dalla fine incombente: i mostri suini, tornati all’assalto, aggrediscono l’animale nella sua cuccia all’esterno del giardino, infliggendogli una ferita purulenta che lo conduce a morte. Tutte le cure dell’uomo e di Mary non valgono a nulla. Finché di lì a poco, mentre si trova a scrivere nel suo studiolo (e sono le ultime pagine del diario, ciò che sta scrivendo), sente che qualcosa di mostruoso penetra nei sotterranei della casa, laddove c’è la botola che dà sull’abisso. Sente la botola sollevarsi, un rumore prima di passi, poi di una maniglia che viene girata.

Così termina la lettura del manoscritto, con Berregnog e Tonnison comprensibilmente esterrefatti. “Che fosse pazzo?”, è ciò che si chiedono. Le ricerche condotte l’indomani non sono molto proficue. L’unica cosa che si riesce a sapere dagli abitanti più anziani del villaggio è che, da un giorno all’altro, la sinistra casa era come sparita nel nulla. Nessuna traccia anche dei suoi occupanti:

“Questo fu tutto quanto ci riuscì di sapere riguardo alla casa sull’abisso. Quanto all’autore del manoscritto, nessuna ricerca, probabilmente, potrà dirci mai chi fosse e da dove venisse. Quella stessa sera ripartimmo in treno da Ardrahan, dove poi non sono più tornato. Ma spesso, nella mia memoria, vedo riaprirsi la buia voragine circondata da quel giardino in rovina, da quella campagna selvaggia; odo il fragore dell’acqua che cade; e quel fragore si fonde nel ricordo, o nel sogno, con altri e più sinistri gorgoglii, mentre su tutto aleggia un eterno turbinio di vapore”.

Così, con un congedo che è già lovecraftiano, termina La casa sull’abisso. Nel corso di questo articolo ci siamo lungamente interrogati sulla sua simbologia; eppure, la sensazione è che, come per Berregnog e Tonnison, molte siano le questioni irrisolte, e probabilmente irrisolvibili.  Quel che rimane nel lettore, sballottato attraverso gli abissi del tempo e dello spazio, visitando con la mente orrori inimmaginabili, è un senso di profondo mistero. Hodgson ci ha parlato di cose che egli stesso ha visto, magari in sogno, o si tratta solo di horror fiction? Con questo romanzo era sua intenzione dirci qualcos’altro, come fosse una tetra allegoria della sua idea di cosmo, o non si tratta, in fondo, che di intrattenimento?

La nostra opinione è che si tratti di entrambe le cose. Si tratta di un’opera d’intrattenimento, e al contempo di un’opera filosofica, al culmine di quella lunga strada, partita dall’epoca romantica, che aveva infine condotto l’uomo sulle soglie dell’abisso della disperazione, alla nietzscheiana morte di Dio. Chi ha letto il romanzo non può fare a meno (e chi scrive l’ha sperimentato) di rievocare la grande arena nebbiosa dell’altra dimensione, quella che è come il negativo della positiva realtà, con la casa speculare al suo centro; quella sulla quale incombono, istupidite dalla propria ottusa eternità, le gigantesche figure di Kali e Set, della Morte e del Caos.

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William Hope Hodgson (1877 – 1918)

Note:

[1] Senza dubbio, il padre del motivo del libro misterioso e terribile, come motore della narrazione, è Robert William Chambers (1865 – 1933), con il suo ciclo de Il Re in Giallo. In questa serie di racconti, i protagonisti si imbattono loro malgrado ne Il Re in Giallo, una strana opera teatrale, sottoposta alla più severa censura dalle autorità, che sembra in grado di condurre alla pazzia i suoi lettori. L’opera è citata solo in frammenti, eppure, tutti ormai conoscono, come se li avessero visti (ciò anche grazie alla fortunata prima serie di True Detective), gli utopici luoghi e gli inquietanti personaggi della fantomatica opera.

“Lo lessi e lo rilessi, e piansi e risi e tremai in preda ad un orrore che talvolta mi assale ancora oggi. Ed è questo che mi turba, perché non posso dimenticare Carcosa, dove stelle nere si librano nei cieli; dove le ombre dei pensieri degli uomini si allungano nel pomeriggio, quando i soli gemelli scendono nel Lago di Hali; e la mia mente conserverà per sempre il ricordo della Maschera Pallida. Prego Iddio perché maledica l’autore, così come l’autore ha maledetto il mondo con la sua creazione bellissima e tremenda; terribile nella sua semplicità, irresistibile nella sua verità… un mondo che ora tremava al cospetto del Re in Giallo” (R. W. Chambers, Il riparatore di reputazioni).

[2] Si pensi a Cerbero o a Xolotl. Nello Zoroastrismo il morto veniva sempre posto alla presenza di un cane. C’è una ragione cosmologica di questo universalismo, in quanto Sirio, posta sulla linea dell’orizzonte, sembra custodire l’accesso al regno dei morti, sito nell’emisfero meridionale. Secondo Plutarco, gli Egizi chiamavano Anubi l’intera linea dell’orizzonte.

[3] Ne La terra dell’eterna notte, il Sole, nostra primaria fonte di vita, si è spento. L’avvento della notte perpetua reca con sé la comparsa di entità mostruose, che prendono possesso della superficie terrestre, stringendo d’assedio gli ultimi brandelli di umanità, arroccata in poche fortezze sparse e sostentata dalla corrente tellurica, una forma di energia ricavata dalle viscere della terra. L’aspetto dei mostri è il più assortito. Si varia dalle Cose Gialle, amorfe e coperte di aculei, ai terrificanti Cani della Notte; dagli ibridi Uomo-Bestia, ai Silenti, enormi figure avvolte in sudari, silenziose e minacciose. All’esterno delle rare fortezze inespugnabili regnano il pericolo e la morte. Il pericolo maggiore sembra provenire dalla terribile Casa del Silenzio, un edificio forse un tempo umano, sopravvissuto al trascorrere delle ere, e dal quale ora fuoriescono innominabili orrori. Romanzo potentemente evocativo, per certi versi ancor più de La casa sull’abisso, La terra dell’eterna notte opprime il lettore con un costante sentimento della caducità e della fine. Si sa già che gli ultimi esseri umani non possono sopravvivere ancora a lungo, in quanto la corrente tellurica è in via di esaurimento. Il male si appresta a stendere il suo drappo funereo sul mondo. Eppure, Hodgson non si fa scrupolo di propinarci un lieto fine. Tutto questo orrore non è che uno sfondo, sul quale si intreccia la storia d’amore tra il protagonista e Naani, una ragazza da lui salvata grazie a un richiamo telepatico che ella gli invia da una remota fortezza rimasta senza corrente tellurica. Il legame tra i due non è accidentale, ma fu stabilito secoli addietro: i due si amarono già in una vita antecedente; fatto a loro noto attraverso i sogni. I due giovani si scoprono essere le reincarnazioni di due amanti di un tempo passato, miracolosamente ritrovatisi in quel degradato futuro. La faccenda amorosa stona alquanto con l’orrore intollerabile che la circonda, ma tant’è. Il romanzo si chiude con un melenso: “Possedere l’Amore equivale a possedere tutto, perché il vero AMORE genera Onore e Fedeltà, e tutti e tre, insieme, erigono la Dimora della Gioia”. Inutile dire che cosa ne pensasse Lovecraft, pur grande estimatore del romanzo. 

[4] Cfr. nell’opera dell’autore sulla cosmologia arcaica: A. Casella, Alle radici dell’albero cosmico, Lulu, 2018, pag. 187, nota 357.

[5] Che Pepper fosse un cane con qualcosa di soprannaturale è testimoniato dal fatto che, a differenza di quanto accade al secondo cane che il protagonista prende con sé, la ferita infertagli dai mostri suini non lo uccide, ma, anzi, prodigiosamente si rimargina. Certo, alla fine i mostri, tramite l’accelerazione sconfinata del tempo, riescono a sbarazzarsene, ma solo in questo modo niente affatto ordinario.


Bibliografia:

  • W.H. Hodgson, La casa sull’abisso, Newton Compton Editori, prima ediz. ebook, 2012

3 commenti su ““La casa sull’abisso” di William Hope Hodgson

  1. Letto secoli fa, ma sinceramente non m’era piaciuto per niente, nonostante riconosca la sua importanza capitale. Diversi passi mi facevano addirittura sorridere.

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