L’orrore sovrannaturale di Montague Rhodes James

Lungi dal poter essere classificati semplicemente nell’ambito della “hauntology”, i racconti di Montague Rhodes James, ben più che semplici “storie di fantasmi”, anticiparono la mitopoiesi “cosmic-horror” di H.P. Lovecraft e Thomas Ligotti, presentando l’Orrore in termini “totalmente altri”, del tutto estranei all’antropomorfismo e alla dimensione fisico-corporea tipicamente umana.


di Marco Maculotti
copertina: Montague Rhodes James

Già in passato sulle nostre pagine, nella categoria “H.P. Lovecraft e dintorni”, abbiamo provveduto a rendere omaggio, oltre al Sognatore di Providence, anche al genio di alcuni suoi colleghi (nonché più o meno suoi contemporanei) la cui visione del mondo e le cui mitopoiesi li rendevano ai suoi occhi non solo meritevoli di essere letti, ma altresì di essere studiati come sommi esponenti del filone letterario dell’Orrore Sovrannaturale. Nel suo saggio Supernatural Horror in Literature [ed. it. Teoria dell’Orrore, Bietti, Milano 2011], redatto nel 1927, è Lovecraft stesso a tratteggiare il vademecum su come scrivere efficacemente questo tipo di letteratura, citando all’occorrenza il parere autorevole di qualche gigante che lo anticipò in questa sorta di “staffetta” per tenere accesa la scintilla di questo particolare “cordone dorato” che attraversa i secoli: ora un Edgar Poe, ora un Coleridge, ora uno Stevenson.

Tra i più validi esponenti del filone horror sovrannaturale all’interno dell’ecumene britannico della sua epoca, Lovecraft riconobbe l’importanza sopra tutti di quattro autori; di due di questi abbiamo già parlato sulle nostre pagine, e questi sono Arthur Machen e Algernon Blackwood. Gli altri due grandi maestri contemporanei erano a suo parere da rintracciarsi nell’irlandese Lord Dunsany, particolarmente importante per il Nostro per quanto riguarda il suo ciclo di racconti più onirici, e in uno scrittore «diametralmente opposto al genio» del primo, e altresì «dotato di un potere quasi diabolico nell’evocare l’orrore con tocchi delicati partendo dalla più prosaica realtà quotidiana» [Teoria dell’Orrore, p. 421]: l’erudito Montague Rhodes James, nato nel Kent nel 1862 e destinato a passare a miglior vita nel 1936, pochi mesi prima di Lovecraft, di cui tratteremo in questa sede. Secondo Lovecraft [Teoria dell’Orrore, p. 427]:

« Il dottor James, nonostante il suo tocco lieve, evoca terrore e repulsione nelle forme più sconvolgenti; e rimarrà certamente come uno dei pochi, veri maestri e creatori di questo tenebroso genere letterario. »

Storico e bibliografo, rettore per decenni dell’Eton Collage, celebre antiquario, noto studioso di paleografia e archeologia, autorità riconosciuta in fatto di manoscritti medievali e storia delle cattedrali, che nei suoi racconti era in grado di descrivere nei più minimi particolari con la competenza dello specialista (ecco, principalmente, da chi fu influenzato il giovane HPL in questo tipo di descrizioni, così care anche a lui: si vada con la mente, ad es., a quella contenuta ne L’abitatore del buio): questo e molto altro fu Montague Rhodes James, tipico esponente intellettuale dell’Inghilterra vittoriana. Eppure oggi, nonostante tutte le sue occupazioni e competenze, a quasi un secolo dalla sua morte egli viene ricordato dai più per aver scritto racconti di fantasmi.

Paul Lowe, ritratto di Montague Rhodes James


Quali fantasmi?

Questa, perlomeno, la dicitura usuale: pare infatti che nei circoli letterali di allora non si facesse troppa distinzione tra le storie ‘classiche’ di presenze spettrali e case infestate, così inflazionate a partire dalla nascita del romanzo gotico nella seconda metà del XVIII secolo, e un altro tipo di racconti, di cui Montague Rhodes James potrebbe essere visto a buon diritto come uno dei massimi esponenti in Europa (in aggiunta, eventualmente, ad un altro grande genio del XIX secolo per molti versi accostabile a James, ovvero il baltico E.T.A. Hoffmann). Come cercheremo di dimostrare in questa sede e in un altro articolo di prossima pubblicazione, le creazioni letterarie di un James o di un Hoffmann si distaccano sensibilmente dalla canonica “storia di fantasmi” di scuola gotica, a partire dalla caratteristica di essere profondamente incentrate sull’elemento sovrannaturale-esoterico-magico piuttosto che su quello di natura sentimentale-psicologica.

Così, per James come per Hoffmann (ma anche poi, in seguito, per Machen, Lovecraft e Blackwood) le apparizioni spettrali diventano una ‘spia’ per introdurre e per mettere in scena orrori ben più grandi e indefinibili, dalle caratteristiche spiccatamente anti-umane e anti-razionali: il mondo della magia (nera) è una sorta di mondo alla rovescia in cui regna il caos assoluto e in cui i valori del mondo degli umani non sono né riconosciuti né vigenti. Come annotò Lovecraft [Teoria dell’Orrore, pp. 422-3]:

« Inventando un nuovo genere di fantasma, egli si è considerevolmente distaccato dalla convenzionale tradizione gotica; perché, laddove i vecchi fantasmi di repertorio erano pallidi e solenni e venivano percepiti soprattutto attraverso la vista, il tipico fantasma di James è scarno, basso e irsuto: una infernale, indolente abominazione notturna a metà strada fra la bestia e l’uomo, e di solito viene toccato prima che visto. A volte lo spetto è ancora più abnorme: un rotolo di flanella con occhi di ragno, o un’entità invisibile che si modella con un lenzuolo e mostra una faccia di lino gualcito. »

Paul Lowe ‘The Tractate Middoth’ 2019
Paul Lowe, illustrazione per “The Tractate Middoth” di M.R. James, 2019

Similmente a Lovecraft, anche un altro noto continuatore del filone dell’orrore sovrannaturale, il britannico Ramsey Campbell ha sottolineato come de facto in Montague Rhodes James vada individuato uno dei primi, veri iniziatori della corrente letteraria dalle cui fonti primigenie egli stesso si abbeverò [introduzione a Racconti sinistri, ed. Sylvestre Bonnard, Cremona 2006, p. 11]:

« La sua definizione di fantasma non si limitava ai morti che tornano sulla terra. I suoi racconti sono affollati di ragni […], di insetti immensi, di demoni coi tentacoli o, ancora peggio, di esseri maligni annidati nei pozzi oppure […] sotto il cuscino. »

Cuori strappati (“Lost Hearts”, 1895), racconto che dà il titolo all’antologia curata da Dino Buzzati per la Bompiani (Milano, 1967), è paradigmatico al fine di realizzare come, in ultima analisi, il più delle volte le apparizioni spettrali siano nei racconti di James più propedeutiche ad altri elementi narrativi piuttosto che centrali per sé. In questo caso, ad esempio, è più che altro il ritratto del cugino Abney, signore di Aswarby, a rimanere nella mente del lettore, nonché la sua nutrita biblioteca, che lo rende un tipico personaggio lovecraftiano ante-litteram: essa conteneva infatti «tutti i libri a quell’epoca reperibili sui Misteri, i poemi orfici, il culto di Mitra e i neoplatonici», oltre al Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto e ad altri trattati i quali (come viene lasciato intendere al lettore) sono senza ombra di dubbio inquadrabili sotto la dicitura della “magia nera”, le cui pratiche vengono sperimentate del cugino Abney al fine di ottenere l’eterna giovinezza.

Le pratiche magiche d’altronde sono un elemento ricorrente nei racconti di James, come cercheremo di mettere bene in mostra nel proseguo di questo nostro articolo. Conseguenza e/o fine di queste pratiche proibite è, nella maggior parte dei casi, l’evocazione di un’entità proveniente dall’Altro Mondo, che il più delle volte si presenta alla stregua di un demone o di un essere vampirico che si appresta a suggere progressivamente tutta l’energia vitale della persona a cui è stato legato con la magia, vuoi per una maledizione vuoi per una mossa avventata dello sventurato, fino alla inevitabile morte.

Ne L’albo del canonico Alberico (“Canon Alberic’s Scrap-Book”, 1894) vengono descritte alcune illustrazioni raffiguranti queste creature demoniache: solo in parte antropomorfe, simili a scheletri «con i muscoli sporgenti come fili metallici» ed unghie sporgenti, completamente ricoperti da un «disgustoso arruffio di peli». Una descrizione che ci porta alla mente sia il Wendigo del folklore nordamericano (e dell’omonimo racconto di Algernon Blackwood, di cui torneremo a parlare più avanti in questo articolo) che il ghoul descritto da Lovecraft ne Il modello di Pickman. Queste entità, d’altra parte (viene lasciato intendere) erano ben note nell’antichità, persino agli antichi profeti: «Isaia era un uomo sensibilissimo; — sentenzia in chiusura di narrazione uno dei personaggi del racconto in questione — non parla egli di mostri notturni che vivono tra le rovine di Babilonia?».

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Odilon Redon Beneath the shadowy wing the black creature inflicted a deep bite 1891
Odilon Redon, “Beneath the Shadowy Wing the Black Creature Inflicted a Deep Bite”, 1891

L’oggetto-portale sull’Altrove

Non meno inquietante è Fischia, e correrò da te, ragazzo mio (“Oh, Whistle, and I’ll Come to You, My Lad”, 1904), di cui nel 1968 venne realizzata una trasposizione televisiva per la BBC. Con tutta probabilità influenzato dalle prime pubblicazioni di Arthur Machen (Il grande dio Pan I tre impostori), il racconto è incentrato sul ritrovamento da parte del protagonista di un antico zufolo metallico rinvenuto tra le rovine di una chiesa medievale, caratterizzato dalla infausta proprietà di richiamare e far giungere alla velocità della luce quello che viene definito come un «terrificante demonio» con «una faccia assolutamente orribile, di tela gualcita». Come in altri racconti del terrore di James (ad es. L’incantesimo dei runi Un monito per i curiosi, analizzati più avanti in questa sede) anche qui la presenza dell’ospite sgradito, che segue il protagonista nei suoi spostamenti senza che questi quasi se ne accorga, è invece notata dalle persone che lo circondano.

Ruolo analogo al fischietto in “Oh, Whistle” lo ricopre in un’altra delle sue opere migliori, Una vista dalla collina (“A View from a Hill”, 1925; da questo splendido racconto nel 2005 fu tratto un mediometraggio) un antico binocolo. Se ne L’uomo della Sabbia di E.T.A. Hoffmann il cannocchiale che Nataniele acquista dal venditore di barometri Giuseppe Coppola — alter ego del mefistofelico Mago Sabbiolino — contribuirà in modo decisivo a precipitarlo verso l’abisso della follia, non dissimile sarà il destino del signor Fanshawe da quando inizierà a guardare il mondo attraverso il medium del binocolo costruito dall’ormai defunto signor Baxter, personaggio bizzarro che vita natural durante si interessò di antichi culti e pratiche proibite. Laddove nel Sandmann le suggestioni esoteriche, per quanto rilevanti, rimanevano occultate dietro l’impianto narrativo di stampo psicologico, qui ci troviamo invece nel campo delle pratiche stregonesche e della magia nera nel senso più lampante del termine (tematiche che lo stesso Hoffmann non mancò di trattare in altri racconti), come si evince dall’agghiacciante finale. In entrambe le storie lo strumento oculistico apre nuovi spiragli all’organo della vista, in senso letterale e al tempo stesso esoterico (la visione): Fanshawe col suo ausilio inizierà a vedere una misteriosa abbazia che non dovrebbe esistere, nonché un patibolo sulla sommità di una collina, non visibile a occhio nudo.

Ne La mezzatinta (“The Mezzotint”, 1904) è un’opera d’arte figurativa, un’acquaforte o mezzatinta per l’appunto, a fungere da portale per l’Altrove assoluto. Lo schizzo suscita la perplessità degli osservatori in quanto la scena raffigurata dall’artista sembra cambiare progressivamente, come se si trattasse di una sorta di cortometraggio formato da diverse diapositive, che rivela agli occhi inorriditi dello spettatore quello che sembra essere il rapimento di un bambino terrorizzato da parte di un’entità spettrale simile a uno scheletro, dalle gambe «spaventosamente sottili». Qui come in altri racconti di James (e nei decenni a seguire di Lovecraft) i segreti più sinistri sono sovente in connessione con le vicende di certe famiglie aristocratiche che avevano dimorato precedentemente nei luoghi in cui il protagonista si trova casualmente ad alloggiare.

Odilon Redon Death- It Is I Who Makes You Serious Let Us Embrace 1896
Odilon Redon “Death – It Is I Who Makes You Serious, Let Us Embrace”, 1896

Suggestioni lovecraftiane

È egualmente un elemento artistico e figurativo, segnatamente una finestra di un’abbazia, ad aprire scenari ‘altri’ in un altro dei più significativi racconti del terrore di James, Il tesoro dell’abate Thomas (“The treasure of abbot Thomas”, 1904), incentrato su un enigmatico codice da risolvere secondo l’esempio de Lo scarabeo d’oro di Poe. Per raggiungere il “tesoro” di cui nel titolo, i protagonisti dovranno compiere una vera e propria discesa agli inferi accedendo a un pozzo di pregiato marmo italiano, impreziosito da rilievi rappresentanti alcune delle più note figure veterotestamentarie, (Elia, Giacobbe, ecc.), a dimostrazione del fatto che nei racconti più esoterici di James spesso giudeo-cristianesimo e “paganesimo” (e/o “magia nera”) sono legati a doppio filo. Il demone “guardiano” (vale a dire messo a guardia del tesoro dall’abate Thomas) in cui infine gli avventurieri si imbattono potrebbe aver influenzato in una certa misura l’anatomia degli Antichi lovecraftiani, al punto che uno di essi descrive con disgusto «l’impressione che svariate braccia o gambe o tentacoli [corsivo ns.] o chissà cos’altro, [gli] si fossero aggrappate al corpo» (stessa identica descrizione si ripeterà anche in “The residence at Whitminster”, vedi oltre), e che un altro descrive la testa scolpita sul pozzo, ritratto del Guardiano, come «qualcosa di molto simile a un rospo», anticipando così gli ibridi umano-batraci di Dagon e La maschera di Innsmouth.

Sia “The treasure of abbot Thomas” che il successivo Un episodio della storia di una cattedrale (“An episode of cathedral history”, 1914) hanno inoltre ispirato uno dei film horror più validi nel panorama italiano di fine anni Ottanta: La chiesa di Michele Soavi. Nel racconto ambientato in una cattedrale precedentemente edificata su una palude è la rimozione del pulpito a far piombare sulla comunità una valanga di orribili incubi e morti inaspettate; ad accompagnare questa atmosfera di inquietudine sempre più opprimente si aggiunge un raggelante urlo che risuona nelle profondità della notte — che qui sostituisce la più classica, sinistra risata proveniente dagli spazi cosmici, che così spesso, nelle storie di James, si prende gioco delle vittime designate.

Odilon Redon Death- My iron surpasses all others 1889
Odilon Redon, “Death – My Iron Surpasses All Others”, 1889

Come il lettore avrà ormai intuito, non sono solo streghe e “pagani” a nascondere abominevoli segreti nei racconti di James: spesso, come nei già analizzati L’albo del canonico Alberico Il tesoro dell’abate Thomas, sono proprio i prelati ad apparire come personaggi sinistri in possesso di conoscenze indicibili destinate a portare l’orrore nella vita di chi osi riesumarle dalla loro tomba o dai lasciti che hanno consegnato ai postumi. È il caso anche de Gli stalli della Cattedrale di Barchester (“The stalls of Barchester Cathedral”, 1910), dove a fare «una stranissima fine» è l’arcidiacono Haynes. Tra tutti i racconti di James è con tutta probabilità questo ad aver ispirato maggiormente Lovecraft, a partire anche dall’enumerazione degli eventi a mo’ di diario, soprattutto in racconti quali L’orrore di Dunwich e Il diario di Alonzo Typer. A fungere da porta d’accesso al terrificante mondo ‘altro’ che si cela dietro a quello ordinario sono qui tre piccole statue scolpite in modo grottesco, una delle quali raffigura una figura seduta in trono, evidentemente in possesso dei crismi della regalità, ma che presenta al tempo stesso caratteristiche “demoniache”: i piedi sono «studiatamente nascosti da un lungo mantello» e «né la corona né il cappuccio che porta bastano a celare le orecchie puntute e le corna ricurve che ne tradiscono l’origine tartara» (vale a dire infera); la sua mano, inoltre, è «armata di artigli spaventosamente lunghi e acuminati».

Anche in questo caso notiamo una commistione di elementi provenienti dall’ecumene culturale giudaico-cristiano con altri più tipicamente “pagani”: le statuette predette sono state incise nel legno del Bosco Sacro di querce limitrofo al villaggio: uno in particolare di questi alberi, che si leva al centro del boschetto, è conosciuto come la “Quercia della Forca” per la grande quantità di ossa umane rinvenute fra le sue radici. Viene anche menzionata la consuetudine, tipica del folklore britannico, di appendere ai suoi rami «piccole immagini o rozzi fantocci di paglia [o] vimini» per assicurarsi il successo in affari di cuore o di altro genere: ancora oggi tale abitudine resiste in gran parte dell’Irlanda e gli alberi in questione così addobbati (solitamente biancospini, due dei più famosi ubicati nelle vicinanze della collina sacra di Tara e presso il sito megalitico neolitico di Creevykeel) sono usualmente chiamati “alberi delle fate” (fairy-tree).

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L’Autore presso il Fairy-tree limitrofo al sito neolitico di Creevykeel, nella contea di Sligo in Irlanda

Un altro celeberrimo racconto di Lovecraft, I topi nel muro, potrebbe aver stuzzicato l’immaginazione di James per la stesura del quasi omonimo Topi (“The Rats”, 1929), che a sua volta anticipò certe suggestioni messe in scena dallo scrittore di Providence nel successivo La maschera di Innsmouth: si pensi alla “maledizione marina”, all’albergo in cui il protagonista si trova suo malgrado bloccato, alla stanza misteriosamente sigillata che sembra nondimeno abitata da un sinistro inquilino.

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Come in Rats in the wall, d’altro canto, i topi non sono affatto responsabili dell’orrore vero e proprio: se nel racconto lovecraftiano essi figuravano come spie di un orrore immensamente più terrificante, nel racconto di James addirittura essi non hanno alcun ruolo, venendo inseriti unicamente nel titolo per accennare alla natura dei sinistri rumori uditi dal protagonista; ma che non siano i topi i responsabili viene messo nero su bianco fin da subito, tanto è vero che in apertura del racconto si legge: «Ma era davvero per i topi? Lo chiedo perché altrove [vale a dire nella storia che il narratore si sta apprestando a raccontare, ndr] non fu per quello». La descrizione della reale fonte del rumore, in chiusura del racconto, costituisce uno dei punti più alti della narrativa nera jamesiana:

« E così, il più silenziosamente possibile, si avvicinò furtivo alla porta e l’aprì. Il crollo delle illusioni! Quasi non scoppiò a ridere. Appoggiato, si potrebbe dire quasi seduto, sul bordo del letto, non c’era niente altro al mondo che… uno spaventapasseri! Uno spaventapasseri dei campi, naturalmente, cacciato in una stanza deserta… sì, ma a questo punto il divertimento finì. Gli spaventapasseri hanno piedi nudi e ossuti? Le loro teste dondolano sulle spalle? Hanno collari di ferro e anelli di catene al collo? Possono alzarsi e muoversi, e neppure tanto rigidamente, agitando la testa e le braccia? E fremere?

Puramente lovecraftiano è anche il mefistofelico signor Karswell de L’incantesimo dei runi (“Casting the Runes”, 1911), segmento narrativo da cui fu tratto uno dei film horror più cult degli anni Cinquanta: Night of the Demon di Jacques Tourneur (1957). A metà strada fra il Mago della Sabbia del celebre racconto di E.T.A. Hoffmann e il Nyarlathotep nato dalla penna (e prima ancora dalle esperienze oniriche) di Lovecraft, di Karswell viene narrato di come spaventò a morte un gruppo di bambini della parrocchia locale con l’ausilio di una sorta di “lanterna magica”, con cui proiettò immagini tanto realistiche quanto terrificanti di sventurati ragazzini inseguiti e fatti a pezzi da creature demoniache, nonché di «serpenti, millepiedi e disgustose creature alate» brulicanti in un modo così veritiero da sembrare di uscire letteralmente dallo schermo per invadere la sala. Similmente ai villain più iconici nati dalla fantasia di Lovecraft, di Karswell si diceva inoltre che avesse fondato una propria religione, i cui «spaventevoli riti» venivano celebrati dall’abietto individuo con l’aiuto dei domestici, anch’essi definiti «gente orribile».

La biblioteca pubblica è uno dei luoghi favoriti da James per calare gli sventurati protagonisti delle sue storie nell’orrore più inaspettato: a tal riguardo, oltre al racconto appena analizzato, è paradigmatico anche Il Trattato Middoth (“The Tractate Middoth”, 1911), caleidoscopico episodio a metà strada tra Borges e Meyrink. Anche questi ultimi due racconti menzionati possono definirsi “storie di fantasmi” solo in senso molto lato: come il lettore avrà compreso ci troviamo ancora nel pieno campo della magia nera e dell’occultismo più che nell’hauntology stricto sensu.

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Odilon Redon, “The Crying Spider”, 1881

Folklore e Orrore

Ne Il frassino (“The Ash Tree”, 1904), racconto ispirato in parte alle superstizioni popolari irlandesi, è lo spirito irrisolto di una strega — tale signora Mothersole, eliminata in seguito alla condanna capitale — a portare il terrore e la morte tra gli attuali abitanti della magione, i quali subiscono loro malgrado una progressiva devitalizzazione che ricorda quella delle sventurate vittime in racconti lovecraftiani scritti nei decenni a seguire quali La casa sfuggita Il colore venuto dallo spazioIl frassino è uno degli svariati racconti dell’orrore di James in cui le entità demoniache, famigli in questo caso della strega rediviva, vengono descritte con caratteristiche simili a quelle dei aracnidi («vide i resti di un enorme ragno, bitorzoluto e bruciacchiato»).

Egualmente ispirato alle pratiche stregonesche e alle credenze del folklore irlandese (segnatamente qui si menziona la “seconda vista”, vale a dire la preveggenza e la capacità di visione remota di veggenti e stregoni, di cui trattò anche il reverendo Robert Kirk nel suo epocale trattato The Secret Commonwealth, scritto alla fine del XVII secolo) è il racconto La residenza di Whitminster (“The residence at Whitminster”, 1931), alcuni passaggi del quale non possono non portare alla mente del lettore le atmosfere che si ritrovano tipicamente nei racconti più paradigmatici di Arthur Machen (“The White People”). Si prenda a titolo di esempio questo estratto:

« Ti assicuro, Emily, nel nome di ciò che è più caro a noi due, che le esperienze che ho avuto questo pomeriggio trascendono i limiti di quel che fino a oggi avevo giudicato credibile. […] una visione, strana ai miei occhi, di una collina d’erba selvatica con al centro delle rovine in pietra grigia e tutt’intorno un muro di rozza pietra. E c’era una donna, lì dentro, vecchia e bruttissima, con un manto rosso e una veste a brandelli, che parlava con un ragazzo vestito alla moda di più o meno cento anni fa. Gli ha messo qualcosa di luccicante in mano ed egli qualcosa a lei […] Poi la scena è svanita […] »

Odilon Redon. The Chimera Regarded All Things with Terror 1886
Odilon Redon, “The Chimera Regarded All Things with Terror”, 1886

Tipicamente macheniano è anche Il roseto (“The rose garden”, 1911), in cui si fondono le visioni oniriche e quelle ad occhi aperti di due coppie speculari di personaggi, visioni identiche tra loro nonostante le distanze cronologiche e spaziali. L’inquietudine che qui opprime i personaggi — conseguenza, come spesso accade nei racconti di James, di vicende terribili che accaddero in passato nel luogo in cui essi si trovano ad essere — sembra qui andare di pari passo agli effetti devastanti della cosiddetta paralisi ipnagogica: ansia incontrollata, un senso indefinito di oppressione, tempo sospeso e dilatato all’infinito, la sensazione che qualcosa di orribile stia per accadere e che nulla possa essere fatto per evitarlo.

L’accenno alle civette come ricordo fittizio per coprire quello reale, ben più agghiacciante, anticipa sorprendentemente la casistica medica delle cosiddette abduction aliene. A tal proposito si può citare Communion di Whitley Strieber, resoconto di incontri ravvicinati del III e del IV tipo che l’autore afferma essergli realmente accaduti, scritto sul finire degli anni Ottanta: curioso in questa sede rilevare come il narratore, prima di tornare in possesso dei suoi ricordi grazie all’ipnosi regressiva, fosse solito “occultare” il ricordo delle abduction subite dietro presunti incontri notturni con gufi o civette. In aggiunta a ciò non è fuori luogo riportare una celeberrima citazione della serie televisiva Twin Peaks: «I gufi non sono quello che sembrano»!

Odilon Redon. The Sinister Command of the Specter Is Fulfilled. The Dream Is Realized by Death 1887
Odilon Redon, “The Sinister Command of the Specter Is Fulfilled. The Dream Is Realized by Death”, 1887

Ma probabilmente il racconto di Montague Rhodes James che maggiormente strizza l’occhio alle atmosfere folk-horror care a Machen è da individuarsi ne Il signor Humphreys e la sua eredità (“Mr. Humphreys and his inheritance”, 1911), storia ambientata  all’interno di una villa che il protagonista riceve improvvisamente in eredità da uno zio mai conosciuto, e soprattutto nel labirinto di tassi, di forma circolare, edificato nel parco limitrofo ad essa. All’interno del suddetto labirinto, quando scendono le tenebre, il signor Humphreys sperimenta situazioni di angoscia che richiamano da molto vicino i racconti del collega gallese (“A fragment of life”), nonché le tradizioni popolari dell’intero arcipelago britannico:

« Quando le tenebre si infittirono, gli parve che a spiarlo fossero in più di uno, e poteva essere persino un’intera combriccola; così giudicò dai fruscii che facevano tra i cespugli. E poi, ogni tanto, si udivano dei sussurri, come se tenessero dei conciliaboli tra di loro. Ma chi fossero o quale forma avessero, non voleva dirlo. »

Ancora più efficace è la descrizione dell’oggetto misterioso che si erge, all’estremità di una colonna perfettamente liscia e solitaria, nel sancta sanctorum del labirinto, vale a dire al suo centro: un globo di rame finemente intarsiato, con tutta probabilità il manufatto ‘magico’ più sensazionale dell’intera produzione letteraria del Nostro, i cui motivi ornamentali vengono così descritti dalla voce narrante (si noti, tra le altre cose, la descrizione del Polo meridionale come una valle “sovrannaturale” e “infernale” che si spalanca all’interno di una catena montuosa; descrizione che anticipa sorprendentemente l’Antartide di Lovecraft nel romanzo Alle montagne della follia, in cui viene lasciato intendere che esso equivalga a una sorta di “doppio terrestre” del famigerato Altopiano di Lang):

« Una figura gli sembrava familiare, Draco, un serpente alato che circondava la sfera nel punto che, sul globo terrestre, corrisponde all’Equatore: d’altra parte, però, buona parte dell’emisfero settentrionale era coperta dalle ali spiegate di una grande figura la cui testa era nascosta da un anello che sovrastava l’insieme. Intorno alla testa si leggevano le parole Princeps Tenebrarum. Nell’emisfero meridionale, invece, c’era una zona ombreggiata da linee verticali, contrassegnata come umbra mortis. Vicino a questa c’era una catena montuosa, e tra le montagne si apriva una valle dalla quale si sollevavano delle fiamme. La valle veniva definita […] Vallis filiorum Hinnom. Intorno a Draco c’erano varie figure non dissimili dalle costellazioni celesti, ma non le stesse. Ad esempio, un uomo nudo con una clava sollevata non veniva descritto come Ercole, bensì come Caino. Un altro, conficcato al centro della terra fino al busto e con le braccia aperte in gesto di disperazione, non era Ofiuco, ma Kore, e un terzo, appeso per i capelli a un albero ritorto, era Assalonne. Vicino a quest’ultimo c’era un uomo che portava una lunga tunica e un alto cappello, e stava eretto al centro di un cerchio, dal quale chiamava due demoni che gli volteggiavano intorno, e che veniva chiamato Hostanes Magus […]. La scena, nell’insieme, doveva rappresentare l’adunata dei Patriarchi del Male, e si ispirava, forse, a Dante. »

Odilon Redon. Pilgrim of the Sublunary World 1891
Odilon Redon, “Pilgrim of the Sublunary World”1891

Il folklore britannico la fa da padrone in Un monito per i i curiosi (“A warning to the curious”, 1925), in cui le disgrazie del protagonista hanno inizio con l’avventata esumazione presso la località costiera di Seaburgh, da parte del protagonista, di una vera e propria reliquia sacra: una corona che, secondo la tradizione, avrebbe il potere di difendere le coste di Albione dalle invasioni dall’esterno. La leggenda vuole che inizialmente fossero tre le corone disseminate sulla costa inglese a tal uopo (da cui le tre corone visibili nello stemma dell’Anglia Orientale): ma con il passare dei secoli le prime due si persero irrimediabilmente e rimase solo quella di Seaburgh. Come “The residence at Whitminster”, anche “A warning to the curious” è impreziosito da suggestioni squisitamente macheniane: dal momento dell’insano gesto il signor Paxton — questo il nome del protagonista — si sente fatalmente seguito da oscure presenze, il cui operato ricorda quello dei Fair Ones nei racconti del gallese: egli può avvertire l’odiosa presenza solo con la coda dell’occhio mentre, come spesso accade nelle storie dell’orrore di James, altri lo vedono in modo nitido, come una sorta di parassita astrale che segue ovunque la sua vittima designata.

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Strabiliante è inoltre il parallelismo che intercorre fra gli episodi conclusivi di questo racconto e certi passaggi del già menzionato Wendigo di Blackwood, scritto 15 anni prima. In quest’ultimo la voce narrante descrive le impronte del malcapitato Défago, rapito dal Wendigo (entità demoniaca del folklore algonchino), accompagnate da altre misteriose orme, «segni sinistri… lasciati nella neve dalla creatura sconosciuta che aveva adescato un essere umano per portarlo alla rovina»; «E la vista di queste stranissime tracce che correvano fianco a fianco, silenziosa prova di un viaggio in cui il terrore o la pazzia avevano portato a risultati impossibili, era profondamente sconvolgente. Ne era turbato fin nei segreti abissi dell’anima». Ed ecco, a dimostrazione della nostra ipotesi, un passaggio quasi speculare di Un monito per i curiosi di James:

« E sulla sabbia c’erano tracce: di qualcuno che portava scarpe e camminava di corsa; e altre davanti a queste, perché ogni tanto le scarpe calcavano le impronte che le precedevano, impronte di piedi scalzi. […] La sola cosa che potemmo fare fu di notare quelle impronte mentre continuavamo a correre. Ma si ripetevano con sempre maggiore frequenza e ormai non avevamo più alcun dubbio che ciò che vedevamo, lì sotto ai nostri occhi, erano le impronte di piedi nudi, piedi che mostravano più ossa che carne. L’idea di Paxton che rincorreva… rincorreva una cosa del genere, convinto che fossero gli amici che egli aspettava, era semplicemente agghiacciante. »

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Odilon Redon, “A strange Juggler”, 1885

Quali “storie di fantasmi”?

Come “storia di fantasmi” stricto sensu si potrebbe forse inquadrare, almeno in prima battuta, La camera numero 13 (“Room 13”, 1899), racconto ambientato in un albergo in cui nottetempo sembra andare in scena un misterioso episodio ivi accaduto nel passato. Eppure anche in questo caso, oltre alle urla animalesche, ai canti spettrali e alle risate sinistre, James non rinuncia a una vaga descrizione dell’entità sovrannaturale che la avvicina più ai demoni presenti in altri racconti piuttosto che all’anima rediviva di un trapassato («la pelle nuda… coperta di lunghi peli grigi»). Il lettore apprende infine che anche qui c’è di mezzo la magia nera, e segnatamente un patto che il defunto della stanza numero 13 aveva stretto con il Maligno. Come nei racconti di fantasmi e di fairies, il canto del gallo e il sorgere del sole mette fine alle sinistre apparizioni.

“Di fantasmi” si può forse definire senza remora alcuna Il recinto di Martin (“Martin’s close”, 1911), racconto processuale incentrato sull’assassinio della giovane Ann Clark, che ricorda da molto vicino le storie “infestate” del contemporaneo statunitense Ambrose Bierce, delle quali tuttavia non riesce a raggiungere il pathos. È evidente che la definizione di “scrittore di racconti di fantasmi” a James va davvero stretta, e come ulteriore dimostrazione non si può fare a meno di sottolineare come le sue fatiche narrative che non implicano orrori “altri” e più difficilmente definibili ed inquadrabili (come la maggior parte di quelle menzionate in questa sede) si pongano su un livello significativamente inferiore.

Ma allora, in fin dei conti, quali “storie di fantasmi” nate dalla geniale penna di Montague Rhodes James, che abbiamo visto in ultima analisi essere uno dei grandi iniziatori della letteratura dell’orrore sovrannaturale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, possono essere effettivamente definite in tal modo? Ben poche, a ben vedere, in quanto le apparizioni spettrali su cui altri scrittori più tipicamente gotici (si pensi, per esempio, all’omonimo Henry James) incentrano le loro trame risultano essere per Montague una ‘spia’ di un’orrore ben peggiore, che si annida dietro le quinte non solo del razionale e dell’umano, ma finanche del reale.

Anticipando i dettami del cosmic-horror reso celebre prima da Lovecraft e poi, negli ultimi decenni, da Thomas Ligotti, Montague Rhodes James tratteggiò l’Orrore (il vero orrore, con la O maiuscola) in termini “totalmente altri”, del tutto estranei all’antropomorfismo e alla dimensione fisico-corporea tipicamente umana, in una maniera speculare alla creazione da parte del Sognatore di Providence di un quantomai nutrito e variegato pantheon, nonché in linea con l’idea macheniana della “regressione protoplasmatica” tipica dei Fair Ones e di coloro che hanno avuto la disgrazia di scorgere il volto del Grande Dio Pan.

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Montague Rhodes James (1862 – 1936)

Edizioni consultate:

  • Montague Rhodes James, Cuori strappati, a cura di Dino Buzzati, Bompiani, Milano 1967
  • Montague Rhodes James, Fantasmi e altri orrori, a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Newton, Roma 1995
  • A.A.V.V., Racconti sinistri nella tradizione di M.R. James, a cura di Ramsey Campbell, Sylvestre Bonnard, Milano 2006

10 commenti su “L’orrore sovrannaturale di Montague Rhodes James

  1. Hai accennato ai mediometraggi della BBC della serie A Ghost Story for Christmas, bhe consiglio vivamente di reperirli tutti perché sono molto belli e diversi sono tratti dai racconti di M R James

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