L’interiorità si forma in cronosfere

Nella nostra psiche, soprattutto nell’inconscio, il tempo non è solo scandito da intervalli misurabili numericamente, come quelli di un cronometro, né dalle relazioni di causa ed effetto, ma anche da tanti istanti qualitativi che riverberano l’un con l’altro con ritmi propri.


di Alessandro Mazzi
articolo originariamente pubblicato su L’Indiscreto
copertina: Max Ernst, “Birth of a Galaxy”, 1969

«All’alto anelò il mio spirito, ma l’amore / Lo riportò indietro; più potente lo curva il dolore; /così percorro l’arco / della vita e torno di dove venni»

Friedrich Hölderlin, Corso della vita (prima stesura).

«Partii ragazzo, invecchiato ritorno, / con immutato accento, ma canuto. / Ridono i bimbi / venendomi intorno: / da dove viene questo sconosciuto?»

He Zhizhang, Ritorno al paese natio.

«E quando viaggiai entro l’anima non vidi che Luna / finché svelato fu tutto della manifestazione / eterna il mistero! / I nove cerchi del cielo s’erano immersi in quella luna, / e la barca dell’essere/ mio s’era tutta in quel mare nascosta»

Gialal ad-Din Rumi, Poesie Mistiche.

 

Nell’introduzione alle cronosfere, ho descritto come l’esistenza umana non viva lo spaziotempo solo come qualcosa di informe, ma lo riporti a geometrie-simbologie dinamiche che proiettiamo dentro e fuori di noi attraverso immagini sferiche e spiraliformi. Viviamo in cronosfere, cioè in realtà fisiche e vissuti psichici che si intersecano ripetutamente gli uni con gli altri, sovrapponendosi come cerchi nell’acqua, ritagliando le nostre esistenze in immagini che risuonano assieme nello spazio e nel tempo. Lo scopo delle cronosfere è quello di offrire un orizzonte esistenziale flessibile per la condizione umana dopo il postmoderno.

Filosofi come T. Morton ed E. Thacker, scrive C. Kulesko, si relazionano con la realtà attraverso geofilosofie mostruose e oggetti inquietanti, da cui non siamo in grado di distanziarci. Tra disastri ecologici e prese di coscienza della natura irrazionale del reale, l’uomo sembra aver perduto ogni possibilità di essere al mondo. Se per Thacker il mondo è impensabile, non significa che ci è precluso, ma che finora ci siamo basati su modi d’essere e prospettive inadeguate. Trasformare i simboli significa trasformare la relazione col mondo, perché dice Lacan nel suo Seminario II (1954-55), «questo reale non abbiamo nessun altro mezzo di apprenderlo – su tutti i piani, e non solo su quello della conoscenza – se non grazie all’intermediario del simbolico». L’anima del mondo non permette la fine, ma la transizione.

Takeshi Murata, Melter 3-D, scultura cinetica, 2014

Il filosofo M. Ghilardi definisce il nostro modo di pensare e vivere il tempo attraverso la cronografia, che significa disporre i fatti in ordine cronologico e storico: fin da piccoli ci viene insegnato a parlare di passato, presente e futuro, di tempo cronologico, di istanti ed eventi dalle durate misurabili, come se si svolgessero tutti verso un’unica direzione. Ghilardi ricorda che plasmiamo i nostri vissuti temporali con il linguaggio che adoperiamo. Il linguaggio, che sia artistico, matematico o altro, è la cronosfera in cui viviamo. Il cinese e il giapponese per esempio non coniugano i verbi, non hanno propriamente passato, presente o futuro. La coscienza però, per riprendere E. Cassirer nel suo Filosofia delle forme simboliche (1923), anche se fatica a rappresentare il tempo nel linguaggio, ha la naturale capacità di tradurre questi vissuti in forme simboliche. Un momento si dispiega in una sfera di cristallo che accarezziamo nella mano, perfettamente compiuto, nonostante esso risuoni assieme all’eternità. Canta W. Blake:

«Vedere il mondo in un granello di sabbia,
e un paradiso in un fiore selvaggio,
Tenere l’infinito nel palmo della mano
E l’eternità in un’ora»

Robert Anning Bell, La Boule de cristal, 1900 circa

Parlare dello spaziotempo nella nostra interiorità richiede abbandonare un linguaggio che distingue tre tempi diversi disposti in sequenza lineare e progressiva (prima il passato, poi il presente e infine il futuro). Nella nostra psiche, soprattutto nell’inconscio, il tempo non è solo scandito da intervalli misurabili numericamente, come quelli di un cronometro, né dalle relazioni di causa ed effetto, ma anche da tanti istanti qualitativi che riverberano l’un con l’altro con ritmi propri. In questo saggio vedremo come nasce l’anima, e come l’origine dalla madre si unisca allo scandire rotondo dei ritmi celesti. Questi vissuti formano la simbologia di fondo dei movimenti della nostra interiorità, tesi tra temporalità diverse vissute miticamente e ritualmente nelle esperienze di picco della nostra vita.


Prima del Tempo: cronosfere matriarcali

«Una scintilla fuori del fuoco, una goccia fuori del mare: / che cosa sei mai, uomo, senza il tuo ritorno?»

Silesius, Il pellegrino cherubico.

L’antropologo M. Augé individua fin dall’inizio il paradosso temporale della nascita e della morte. In Che fine ha fatto il futuro? (2009) dice, «Il primo paradosso del tempo è inerente alla consapevolezza che ognuno ha di vivere in un tempo che precedeva la sua nascita e che continuerà dopo la sua morte». La nostra vita è un rotondo scandito dai due grandi estremi di ciò che c’era prima della venuta al mondo e di ciò che sarà dopo la morte, i poli dove l’esistenza umana ritorna con un circolo a se stessa. In questo intermezzo, come scrivono i poeti Hölderlin e He Zhizhang, si staglia l’arco della vita, che ritorna su se stesso trasformato una volta compiuto il nostro tempo nell’esistenza terrena.

Parallelamente ad Augé, nella trilogia Sfere (1998, 1999, 2004) P. Sloterdijk ritrova il primo spazio circolare che tutti abitiamo nell’utero materno. Assieme al collega T. Macho, Sloterdijk riformula la psicanalisi freudiana spostando l’asse biografico dalle impressioni dell’infanzia alla gestazione prenatale. Il corpo della madre è l’ambiente dove si imprimono nella nostra psiche inconscia le prime protopercezioni somatiche, quelle che A. Damasio chiama il sé originario, di uno spaziotempo acquitrino, umido, ctonio, al di là di ogni misura. Scendendo nell’innominabile della mistica, «non esiste altro cammino», dice Sloterdijk, «che quello consistente nell’iniziare dal proprio monocromo nero. Quando si ha a che fare con quest’ultimo, si capisce subito che la vita è più profonda dell’autobiografia».

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Kazimir Severinovič Malevič, Cerchio nero, 1915

La psicanalisi prenatale ha messo radici a partire dal lavoro di O. Rank, Il trauma della nascita (1924), dove lo psicanalista ritrova l’origine di diverse nevrosi e traumi nella separazione tra feto e madre. Nascere è l’evento della caduta nel tempo cantata da E. Cioran, la rottura dell’eternità e l’inizio della caducità. La temporalità prenatale viene esaminata da A. S. Nutricati in La psicologia prenatale e il tempo (2009). Il feto non è un essere inerme, ma possiede una vita psichica ricchissima di percezioni sonore, tattili e visive, che andranno a costituire il fondamento su cui si svilupperà poi la nostra coscienza temporale. Nell’inconscio si trovano le tracce di una atemporalità uterina in cui eravamo sospesi prima di vedere la luce, a cui ciclicamente torniamo lungo il nostro processo di individuazione. Dice Nutricati «il precedente prenatale pesa sul dopo all’interno di una dimensione “sfumata”: in quanto il precedente e il successivo, il passato e il presente non presentano contorni chiari e definiti, ma l’uno sembra sfociare nell’altro».

Leonardo da Vinci, “Studio anatomico del feto nell’utero, particolare”, 1504-1508

Questa eternità originaria modella il rapporto che abbiamo con il mondo dell’altrove. Per lo psicanalista L. Janus in Come nasce l’anima (1991) l’esperienza inconscia prenatale segna, senza riduzionismi, tutta la mitologia e ritualità dei gruppi umani. Il viaggio spirituale degli sciamani si serve di una simbolica prenatale quando raccontano di discendere «in una caverna del tutto sconosciuta. Attorno a me si aprivano tanti cerchi concentrici, composti di luce e ombre, che sembravano trascinarmi via con loro». Il loro tamburo riporta al battito cardiaco materno ascoltato nell’utero. Lo stesso vale per la fiaba, le saghe e il mito.

Sciamano Sami con tamburo

Riprendendo il mito sumerico di Etana, Janus commenta la simbologia dell’aquila e del serpente come simboli della placenta e del cordone ombelicale percepiti dal feto nell’utero. «A quei tempi [illo tempore] l’aquila e il serpente vivevano insieme e tra loro regnava pace e concordia. Il tempo storico inizia con il loro combattimento, che dal punto di vista psicologico rappresenta la contrapposizione tra forze positive e negative che si viene a creare quando si spezza l’unità tra la placenta e il cordone ombelicale». Anche la beatitudine celeste del Paradiso e la dannazione eterna dell’Inferno possono essere ricondotti a sensazioni di benessere o malessere vissute nella gestazione. Il Paradiso è quel “luogo recintato”, perfettamente compiuto in sé, dove siamo sospesi eternamente, come siamo stati una volta nel liquido amniotico.

Non lasciamo mai questa cronosfera, ma di volta in volta ci ritorniamo. Basta poco per farla riemergere, come quando cerchiamo di isolarci nella nostra stanza sotto le coperte o nelle vasche di isolamento. Lo psicanalista russo S. Groff, noto per aver sperimentato la psicoterapia con l’LSD, ha annotato nei suoi scritti intitolati Quando accade l’impossibile (2006) regressioni temporali dei suoi pazienti che giungevano fino allo stadio prenatale. Così il caso di Richard, un giovane che soffriva di depressione cronica, arrivato al punto di rivivere in terapia la propria fase fetale: sentì una forte sensazione di benessere simbiotico, il rumore del sangue scorrergli dentro, le voci e la musica della festa di paese a cui andò la madre ancora incinta di lui, poco prima del parto.

Richard Serra, fuori-dal-rotondo X, pittura su carta hiromi, 1999

Il cammino dell’eroe: circoli dell’individuazione

«Nel mio principio c’è la mia fine. […] / Nella mia fine c’è il mio principio»

Thomas S. Eliot, East Coker (Quattro Quartetti).

Dopo la nascita, la nera cronosfera uterina si rompe, dall’atemporale della mistica scivoliamo nel regno della successione storica, fatta di cicli temporali, fasi lunari ed eterni ritorni spiraliformi. L’uomo entra nella cronosfera del pianeta Terra, che come ho detto altrove ritrova nel moto astronomico della volta celeste. L’origine materna e il ciclo eonico degli astri si sovrappongono in due cronosfere che vibrano all’unisono nella psiche umana. Dal Paleolitico superiore (40.000 a.C. ca.) troviamo le Veneri aurignaziane, nelle quali M. Gimbutas ritrova le prime immagini della Dea Madre, che si faranno più numerose nel Neolitico (12.000 a.C. ca.). Nel Paleolitico il corpo materno è originariamente simbolico e geometrico: tutto il mondo e le fasi della vita sono racchiuse nelle rotondità cronosferiche del femminino. La madre è vaso, uovo cosmico, contenitore universale.

Neumann in La Grande Madre (1956) parla in questo senso del Grande Cerchio, ricollegando l’archetipo femminino alla circolarità eternamente rinnovatrice dell’uroboro. Troviamo questa unione esemplificata nel complesso templare più antico a noi noto, Göbekli Teple in Turchia, eretto attorno al 10.000 a.C. I pilastri della camera centrale riportano simboli animali che corrispondono alle costellazioni dell’epoca: per M. Sweatman e A. Coombs il tempio segna l’evento dello schianto di alcune comete che diedero inizio alla glaciazione del Dryas recente. La struttura ovoidale del tempio richiama l’Origine uterina di colei che genera ogni forma, il cui corpo sono le immagini animali delle costellazioni. L’eternità non è una, ma duplice: il tempo indicato dai pilastri animali non è cronologico, ma è fatto di tante intensità particolari che esprimono le qualità degli eventi testimoniati. Lo spaziotempo primitivo è caratterizzato da tante temporalità cronosferiche che definiscono, nel momento in cui avvengono, le possibilità e intensità esistenziali degli uomini.

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Ricostruzione archeologica di Göbekli Teple

Dal Paleolitico al Neolitico la Dea Madre inizia a prendere forme teriomorfiche. Nel suo lavoro La civiltà della Dea (1991), Gimbutas isola in particolare quattro forme di dea: la Dea madre partoriente associata alla forma taurina è l’attimo della nascita, la Dea uccello dal collo lungo e dalle grosse mammelle come dea della vita, la Dea serpente che svolge la continuità dell’arco della vita, infine la Dea avvoltoio, l’aspetto terribile che indica la morte. Queste rappresentazioni sono le protofasi del ciclo vitale, perché la Grande Madre è anche Signora del Tempo.

Così nasce il fato, inizialmente legato agli astri e tessuto dal principio femminino alla nascita di ogni uomo. Le stagioni, il giorno e la notte, vita e morte sono cronosfere che percorriamo dall’utero alla tomba, dal mondo infero alla luce solare, un filo che si svolge tra le stelle dentro di noi. Continua Neumann sul motivo delle dee, «queste filatrici sono in origine le grandi signore del fato, la forma trina della Grande Madre», mentre il mitologo K. Kerényi nota «che l’espressione “tessere” possa valere per la generazione della vita o del corpo umano» operata dalla Madre. Le Moire della grecità, le Norne degli scandinavi, ma anche Neith, Netet e Iside degli egizi, e le dee tessitrici dei Maya sono tutte fasi temporali che intrecciano il nostro cammino (inizio-centro-fine, passato-presente-futuro) attorno al fuso dell’eternità. Platone parlerà nel mito di Er della Repubblica di un grande cerchio che muove intorno al fuso dagli otto vasi della dea Ananke (Necessità), mentre su un altro cerchio vicino siedono le tre dee lunari Lachesi, Cloto, Atropo. «Di lì, senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità», o anche del grembo, come alcune volte è tradotto.

Fromm scrive in Psicanalisi e buddhismo zen (1970) che «la nascita non è un atto unico, bensì un processo». L’anima ha bisogno di nascere e rinascere compiutamente, in un flusso temporale continuo, sebbene in questo processo preservi un nucleo atemporale. Tra i corpi celesti della Madre, è la luna con le sue fasi a offrire la cronosfera adatta all’uomo arcaico per ritornare sempre a se stesso, fondando la base cronologica e rituale dei calendari di tutte le culture umane ben prima che si instaurasse il calendario solare. Qui matematica, mistica e anima sono tutt’uno. Il calendario più antico al mondo, l’Osso di Blanchard scoperto da A. Marshack, risale alla cultura europea del Paleolitico superiore (32.000 a.C.). Si tratta di 69 incisioni su osso aurignaziane delle varie fasi lunari disposte su un pattern fluviale e protospiraliforme, dell’arco temporale di due mesi lunari e mezzo.

Alexander Marshack, “Rilievo di calendario lunare”, 32.000 a.C.

Essere nel mondo per i grandi gruppi animali, uomo compreso, vuol dire sincronizzarsi cronologicamente e simbolicamente sui movimenti lunari che guidano gli spostamenti e i fenomeni naturali. In questo senso la luna insegna la caccia. M. Eliade, nel suo Trattato di storia delle religioni (1948), esplora la mistica lunare come vita dell’anima primitiva che si protrae nel ritmo dell’esistenza. Tutti i piani cosmici di realtà sono governati anticamente dalla Luna: la fertilità dei vegetali, delle acque generatrici, della donna; la rigenerazione periodica delle forme, che regola i cicli naturali di morte e rinascita iniziatiche; soprattutto il tempo e il destino, «la Luna ripartisce, fila, misura; oppure alimenta, feconda, benedice; o riceve le anime dei morti, inizia e purifica, essendo vivente, e di conseguenza in eterno divenire ritmico». Di conseguenza il tempo e il destino sono, come ricordano anche le filosofie orientali, processi del ritmo dell’esistenza, trame della rete cosmica in cui ci muoviamo. «La Luna rivela all’uomo la propria condizione umana; che, in un certo senso, l’uomo guarda se stesso e si ritrova nella vita della Luna», al punto da diventare il paese dei morti, o anche «ricettacolo rigeneratore delle anime».

František Kupka, “Il Primo Passo”, 1909

Ogni dualismo, compreso quello tra corpo e anima, si ritrova simbolicamente per Eliade nelle fasi lunari, «Il mondo inferiore, mondo delle tenebre, è raffigurato dalla Luna calante (corna = falci di luna, segno della doppia voluta = due falci in senso opposto, sovrapposte e saldate assieme = mutamento lunare, vecchio decrepito e ossuto)». Il mondo superiore, o anche il mondo della vita, è invece reso dalla Luna nuova, e la nascita dell’uomo nuovo o del bambino divino sono la Luna rinascente.

In questo frangente G. Sermonti parla nel suo Misteri Lunari (2014) della presenza lunare nella struttura narrativa delle fiabe, nelle favole, e nella simbologia religiosa, filosofica e mitica. Così per esempio Cappuccetto Rosso racconta la sinusoide delle fasi lunari: la bambina col cappuccio indica la falce di luna, la nonna è immagine del novilunio o luna calante, mentre il lupo si rifà alla parte nera della luna, che divora nella sua ombra la luce lunare, per poi rinascere. «Dal dio lunare Men viene il latino mensis, il mese, e da mensismensura (misura) e menstruus. Filando il destino la luna conta gli anni della vita, è profetessa, indovina, maga. Come l’algebra la luna compita simboli, lettere».

Carlo Montarsolo, “Eclissi di sole e luna”, 1993

Nell’animismo arcaico d’altronde, scrive L. Zoja in Psiche (2015), «la mente quasi non percepiva “oggetti” esterni: tutto era “soggetto”», cioè l’anima dell’individuo è anima del mondo. Quando Jung riferisce della sua esperienza con gli indiani Pueblos, il capo Lago di Montagna gli spiega che «siamo i figli del padre Sole, e con la nostra religione aiutiamo nostro padre ad attraversare il cielo ogni giorno. Se cessassimo di praticare la nostra religione, nel volgere di dieci anni il sole non sorgerebbe più. E allora sarebbe notte per sempre». In La dinamica dell’inconscio (1927), Jung scrive «la nostra psiche è costruita in armonia con la struttura dell’universo; ciò che accade nel macrocosmo accade ugualmente negli infinitesimali recessi dell’anima». Se la Luna offre all’anima fasi di morte e rinascita, il Sole ne segue lo stesso ciclo, restando sempre uguale a se stesso. Entrambi hanno ospitato su di sé immagini di eroi e divinità mascoline e femminine che raccontano il cammino dell’anima singola dal mondo superno al mondo infero attraverso piani diversi di coscienza, e dell’anima universale attraverso cicli di inaridimento e rigenerazione.

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Frida Kahlo, “La nascita dell’eroe (Mosè o il nucleo solare)”, 1939

Nelle visioni di F. Kahlo, l’eroe solare nasce corrispettivo degli astri. Joseph Campbell isola questo ciclo in particolare nel monomito eroico nel suo bestseller culto, L’eroe dai mille volti (1949). Composto di diciassette tappe, il cammino dell’anima scandisce un ciclo temporale ritornante. Il monomito eroico, con le dovute differenze, determina il percorso iniziatico che dall’ignoranza porta al raggiungimento di una conoscenza matura, punto di fine del vecchio cammino e d’inizio del nuovo. Chiamata dalla vocazione, dice Campbell, l’anima supererà la soglia del mondo storico, «la fantasia rassicura e promette che la pace del Paradiso, conosciuto dapprima nel ventre materno, non è perduto; esso supporta il presente e si ritrova nel futuro così come nel passato (è l’omega e l’alfa)».

L’eroe che compie il cammino segue la temporalità degli accadimenti esterni, «Finché l’azione dell’eroe coincide con ciò per cui la sua società è pronta, sembra che egli cavalchi il grande ritmo del processo storico». Solo al raggiungimento di un guardiano della soglia, cioè colui che «rappresenta i limiti della sfera presente dell’eroe, o orizzonte della vita», si entra nel mondo inconscio dell’abisso, in cui si trova il tesoro dell’immortalità. Questo tesoro si raggiunge per Campbell attraverso l’esperienza interiore dell’apoteosi, «coloro che sanno che l’imperituro riposa in loro, ma che ciò che loro e tutte le cose sono è l’imperituro, e ascoltano ovunque l’inascoltata musica della concordia eterna».

Carl Gustav Jung, “L’albero della Vita”

La fine del viaggio permetterà di ritornare nel mondo quotidiano, e la novella consapevolezza verrà trasmessa agli altri uomini, per svolgere «il lavoro di rappresentare l’eternità nel tempo, e di percepire il tempo nell’eternità». Il mito e il rito sono le cronosfere principali che scandiscono gli eventi che viviamo nell’anima, fatto di corsi e ricorsi, storie che si rinnovano in più eventi e si adattano in continuazione a nuove narrazioni. Diceva Sallustio, il filosofo latino, che «il mito non è mai accaduto, ma è sempre». Questo perché il mito e il rito sono connaturati alla psiche umana. Non può esistere uomo senza mito, e non può esserci fioritura senza rito di passaggio, ma queste sono realtà sempre rinnovantesi.

William Blake, “Scala di Giacobbe”, 1806

Una volta compiuto un giro di ronda, la storia non finisce. L’anima continuerà a svolgersi ininterrottamente attraverso nuove fasi e luoghi che si approssimano sempre più attorno al centro dove risiede la quiete senza tempo. Questo è stato ripreso dal movimento spiraliforme che contraddistingue uno dei simboli più antichi dell’umanità. Nel suo studio sul Simbolismo della Spirale: la Via Lattea, la conchiglia, la rinascita (2017), Marco Maculotti riprende l’origine neolitica della spirale, presente in tutto il mondo presso la stragrande maggioranza delle culture primitive. La spirale, in verità legata al moto selenico della Luna e ai circoli spiraliformi della Via Lattea, scrive Maculotti «era considerata la rappresentazione simbolica della “Fonte Primigenia” dell’universo, adorata sotto forma di Dea Madre, dal cui “Utero Cosmico” tutte le anime provengono per poi ritornare». Questo implica che nel moto dell’anima esista un doppio movimento, che da nascita-vita-morte prevede anche un’inversione temporale, per così dire, che dalla morte riporta alla vita. Non a caso nel processo di individuazione J. Hillman commenta che «ciascun personaggio nel suo individuarsi porta con sé la sua trama scrivendo la sua storia in avanti e a ritroso».

Roccia megalitica con incisioni spiraliformi, Newgrange, Irlanda, 3200 a.C. circa

Il percorso interiore dell’uomo si svolge quindi su uno sviluppo complessivo spiraliforme che sempre ritorna su se stesso, ma ad una diversa intensità. L’anima pellegrina perfeziona la propria spaziotemporalità rifacendosi al ritmo con cui circola attorno al centro sempiterno del suo cammino. In La Spirale mistica. Il viaggio dell’anima (1971), J. Purce distingue la spirale archimedea, che cresce con un movimento costante attorno al centro, e la spirale logaritmica, che si allontana progressivamente dal centro. Entrambe le dinamiche sono scandite dal ritmo e dalla velocità dei vortici che riuniscono circolare e lineare assieme.

Per Purce la spirale non ha un naturale inizio o fine, né un centro o una periferia uniformi: questi elementi fluiscono in verità l’un nell’altro. «I cicli del divenire, i rotondi dell’esistenza, si spiralizzano e rivelano la loro origine creando un punto di vantaggio: dal suo stesso polo opposto, la sorgente può guardare e divenire cosciente di sé». Lo svolgimento lungo la spirale ha così il suo inizio nella sua fine e viceversa, riunisce in un singolo momento ciò che accade una volta sola e ciò che è accaduto per sempre. Invece di dividere il piano eterno e il piano cronologico, interiorità ed esteriorità, la spirale assume attraverso di sé un’immagine cosmologica essenziale.

Un angelo avvolge la volta celeste, Giudizio Universale, particolare dell’affresco, Chiesa di San Salvatore, Chora, Istanbul, XIV secolo.

Vedremo in seguito come questo ci porti ad esplorare in noi stessi una sensibilità universale per la rappresentazione dello spaziotempo anche in altre correnti animistiche, religiose e spirituali, come quelle orientali. L’anima non è solo legata alla nostra interiorità, ma determina il nostro ordinamento storico e secolare. I suoi moti sono i moti che scandiscono il tempo e rivelano lo spazio che chiamiamo mondo. Nella prossima parte delle cronosfere dell’anima, esploreremo l’interiorità attraverso le cronosfere dell’Oriente, assieme alle religioni occidentali, alla ricerca delle forme per guidarci nella crisi del contemporaneo.


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