Aure e luci interiori

Siccome la percezione di un chiarore caratterizza l’apparizione del divino, da sempre al numinoso si è associato il luminoso. Il grande dilemma che Walter Benjamin propone è se l’impressione visiva sia determinata esclusivamente dalla biologia dell’occhio umano o sia anche connotata da specificità culturali e storiche. In questo contributo si cerca di ricostruire come l’esperienza della luce in Occidente sia mutata nei secoli per intensità e repentinità e come le sue modalità di manifestazione si siano modificate.


di Alessandro Gabetta
copertina: Nicholas Roerich, “The Mother of the World”, 1924

 

Prima dell’avvento della modernità un alone luminoso avvolgeva gli oggetti della visione. Una cortina ricopriva come nebbia le impressioni e l’esperienza stessa della percezione, filtrando e modulando la luce. Era l’epoca dell’aura, che baluginava come una lanterna magica attraverso l’atmosfera e i colori soffusi degli acquarelli, le trasparenze dell’arcobaleno, le macchie di china e di rossetto, le aureole dei santi e degli angeli. L’atmosfera eterea si solidificava come un involucro attorno alle opere d’arte o agli oggetti carichi di valore cultuale. Nel fondo dell’umano le metafore della brezza e dell’alone luminoso erano radicate da tempo immemore; già sulle pareti delle caverne preistoriche si dipingevano esseri divini circondati da un’aureola.

Sia nella pittura induista che nella cultura cinese la veste e la chioma delle creature soprannaturali fluttuavano avvolte da un cerchio lucente. Si veniva condotti a respirare le immagini, come se l’aura fosse assunta nel senso di aria, in accordo con l’etimo greco αὔρα, un alito o un soffio vitale. Nella pittura sacra dell’Occidente si diffusero allora il vortice di vento, l’aureola a corona sul capo o la mandorla attorno al corpo intero per delimitare l’effetto auratico. Anche per un trovatore medievale come il provenzale Arnaut Daniel il nudo dell’amata aureolato contro il lume della lampada era un’anticipazione delle gioie del Paradiso.

In tutto l’Ottocento si utilizzava il termine per svariati usi: un trattato del 1836 attribuiva la fecondazione all’aura del seme, ed aura era denominata l’irradiazione delle punte metalliche cariche di elettricità, lo stordimento che precedeva l’attacco epilettico e per estensione lo smarrimento che annunciava la possessione nella macumba e nel voodoo. Come ricorda Elémire Zolla, fino alla metà del ventesimo secolo l’Europa era ancora una fabbrica d’aura; persisteva nei grandi monasteri, vibrava ancora in alcuni castelli, ville e giardini, perché si manteneva in quei luoghi il costume della cortesia e del cerimoniale.

Nei chiostri e nei rituali il raccoglimento permetteva ancora la condensazione del suo splendore, e non a caso in sanscrito aura si traduce con srì, il lustro, la gloria, la maestà, rimandando alla sua radice sra, ovverosia «scaldare», «far sudare»: la concentrazione sovrumana del calore interno, il tapas, che avvampa e riluce. Da qui l’espediente estetico dell’utilizzo dell’ovale, non solo in ambito religioso, che compariva ancora nelle prime fotografie del Novecento e che circondava i volti, conferendo allo sguardo pienezza e sicurezza.

Cogliere l’aura soggettivamente significava vedere l’oggetto all’interno del suo involucro, apprezzandone la storicità della sua tradizione e appartenenza. Si preservava così l’unicità dell’esperienza, scandita e delimitata come un rito, in cui veniva celebrata la dimensione magica connessa all’epifania del sacro e dell’originale. L’aura appariva come caratteristica propria dell’oggetto, non vincolata alla memoria volontaria dell’osservatore ma manifestazione della soggettività stessa calata all’interno della cosa, come Proust e Valery avevano illustrato. In particolare ad essere trasmessa era la sua autenticità, connessa all’autorità dell’artista che aveva realizzato l’opera, e all’idea stessa di tramandabilità nel corso del tempo, per cui l’oggetto realizzato si inseriva in una tradizione. 

Ma questo stato delle cose non sarebbe sopravvissuto alle esplosioni delle bombe della Prima guerra mondiale, alle irruzioni dei flash fotografici e delle masse sul palcoscenico della storia. Mutavano radicalmente i medium che permettevano alla luce di spandersi: non più i fluidi trasparenti, le lanterne magiche, i diorama e le aure, ma si imponevano la radio, il cinema, il telefono e le architetture di vetro. Per Walter Benjamin si era trasformata la modalità attraverso cui l’esperienza percettiva stessa si organizzava; condizionata non solo da predisposizioni naturali ma anche determinata storicamente.

Nell’epoca della riproducibilità tecnica si dissolveva l’aura, liberando l’oggetto dal suo involucro e dalla sua esistenza unica e irripetibile, declino che si accompagnava però per Benjamin ad un positivo aumento di “spazio di gioco” per chi ne poteva beneficiare. La tecnica sottraeva l’opera riprodotta all’ambito della tradizione, ed alla sua esistenza unica si sostituiva il suo essere disponibile per le masse. Il traffico e la folla, il clic della macchina fotografica e il montaggio della cinepresa riorganizzavano l’esperienza percettiva in modo completamente nuovo: lo choc. La tecnica esponeva continuamente a queste sollecitazioni e collisioni l’apparato appercettivo umano che doveva allenarsi a sopportare questi stress sensoriali e motori nei luoghi di svago e di lavoro.

La fotografia ed il cinema ampliavano il campo visivo al di là dei limiti naturali dell’occhio e i media potevano estendere le regioni della coscienza in zone fino ad allora inesplorate: l’inconscio non era più pulsionale ma ottico. Se l’opera auratica si basava sull’immobilità della dimensione magica e sacra, i proiettili disseminati dal Dadaismo, la pubblicità, il cinema, proponevano una qualità di esperienza fruibile per le masse in cui si era colpiti e manipolati dalla distrazione, dalle interruzioni e dagli scatti.

L’esigenza di fruizione spingeva a portarsi più vicino alla fonte sensoriale per avere una esperienza alla mano, superando l’unicità di qualunque dato per riceverne la riproduzione e impossessarsi di una copia. Troppa vicinanza e avidità da sopportare per dimensioni dello spirito che hanno bisogno di pace e concentrazione. Tra lo scoppio di una granata e la luce al neon delle insegne pubblicitarie si dileguava così l’aura, dall’Occidente alla sua patria di nuvole.

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Living rainbow body of great transference
“Rainbow Body”, arte sacra tibetana

Luci interiori

In tutte le tradizioni religiose la teofania è connessa all’apparizione della luce; laddove compare il numinoso anche il luminoso irrompe sulla scena: nelle folgori celesti, nelle fosforescenze luciferine, nel fulgore solare apollineo e negli splendori delle epifanie miracolose. Il mistero tremendo e fascinoso che si accompagna a tali visioni per Rudolf Otto contraddistingue l’esperienza del sacro che trapassa l’anima inondandola di paura e timore reverenziale. Ma il divino non compare solo al di fuori di sé ma si avverte come luce interiore nel raccoglimento intimo e meditativo.

In molte religioni l’istantaneità dell’illuminazione spirituale appare come un lampo, riempiendo l’anima di sacro terrore. Presso gli Eschimesi e gli Yakuti l’iniziazione istantanea della folgore comporta la morte e la resurrezione attraverso una illuminazione improvvisa per chi è destinato a diventare sciamano. La luce compare come un lampo che si percepisce improvvisamente nel corpo, nel centro della testa, come un faro luminoso che permette di vedere concretamente e metaforicamente nel buio, donando la facoltà di scrutare le tenebre per presagire avvenimenti futuri e segreti. La chiaroveggenza si estende a distanza, al di là di valli e montagne, per recuperare le anime dei malati rapite negli inferi paesi dei morti. La luce interiore conferisce allo sciamano esquimese sia facoltà di tipo paragnomico che conoscenze di ordine mistico.

Nei medicine men australiani si riscontra la medesima iniziazione di luce, derivante però da una aspersione mediante un’acqua sacra che è il quarzo liquefatto con cui il neofita viene mischiato dopo essere stato smembrato. Grazie ai cristalli di rocca, chiusi nel suo corpo e nella testa, il medicine man acquista la capacità di vedere gli spiriti, di leggere il pensiero e di rendersi invisibile e volare. La luce solidificata riempie il medicine man interiormente soffuso di luce sovrannaturale al momento della resurrezione mistica.

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Alcune rappresentazioni della “aureola di luce” nell’arte sacra induista contemporanea

Se l’iniziazione sciamanica di eschimesi e aborigeni australiani è omologabile, più complessa è la mistica della luce della tradizione indiana. Nelle Upanishad l’essere stesso si manifesta attraverso la pura Luce, che brilla

« al di là di questo Cielo, al di là di tutto, nei più alti mondi oltre i quali non ve ne son più altri, è in verità la stessa luce che brilla all’interno dell’uomo. » 

L’identità tra luce interiore e transcosmica si accompagna a fenomeni sottili: il riscaldarsi del corpo e l’audizione di suoni mistici, che comportano una trasformazione esistenziale, dal non essere all’essere, dall’oscurità alla luce e dalla morte all’immortalità, per cui l’atman si fa tutt’uno con la persona posta dentro al cuore dell’uomo, l’immortale impavido. 

Non solo la luce è l’essenza stessa del divino, ma anche gli esseri misticamente perfetti irraggiano la luce. Il segno preannunciante la manifestazione di Brahma è «la luce che sorge e la gloria che risplende» e il Buddha viene rappresentato come una colonna di fuoco che si innalza, per cui il superamento della condizione umana si evidenzia attraverso la luminosità ignea e l’ascesa. Quando nel Buddha si realizza uno stato samadhi, un raggio chiamato «ornamento della Luce della Gnosi» esce dall’apertura della protuberanza cranica e gioca al di sopra della testa. Il corpo che splende è la realizzazione del trascendimento di uno stadio condizionato per cui ci identifica con lo stato ultimo, con l’Essere.

Anche nel tantrismo, durante il maithuna, l’unione sessuale rituale realizza cerimonialmente una unione di ordine mistico in virtù della quale la coppia giunge alla coscienza nirvanica. Il Pensiero di Risveglio a cui si perviene è identico ad una goccia, bindu, che scende dalla sommità del capo e si immerge negli organi sessuali con il getto di quintuplice luce. Se la coscienza nirvanica è esperienza di una luce assoluta, nel maithuna tantrico penetra nella profondità della vita organica e rifulge anche nel seme, la radianza divina che creò il mondo.

Nel loro insieme le esperienze di luci interiori descritte nell’induismo e nel buddhismo indo-tibetano appaiono laddove la realtà suprema si manifesta come coscienza di Sé nell’atman, quando si penetra l’essenza stessa della vita e del cosmo e al momento della morte come nel Bardo Thodol. Gli uomini irradiano luce se riescono a superare i condizionamenti che caratterizzano la vita profana, liberandosi e partecipando della spontaneità divina, giocando come dèi e fiamme nel nuovo piano di esistenza della purezza dell’Essere. La percezione della Luce è il segno della rivelazione della realtà ultima con la quale ci si fonde al di là della propria individualità.

Analogamente in Cina il superamento della condizione profana e il raggiungimento dell’estrema pace sono contraddistinte dall’irradiazione di una luce celeste, che permette la visione dell’Uomo interiore, raggiungibile attraverso una lunga ascesi o spontaneamente. Alcune pratiche psicofisiologiche elaborate dal neo-taoismo danno grande importanza ad una serie di esercizi incentrati sulla meditazione sui soffi e sul loro riassorbimento fino a vederne il colore. Si immaginava che provenissero dai quattro punti cardinali e dal Centro, cioè l’intero universo, e si inghiottivano forzandoli a penetrare nel corpo. L’energia cosmica così, come essenza di vita e germe di immortalità, riempie il corpo illuminandolo e trasmutandolo. Lo stesso risultato si ottiene assorbendo l’immagine del Sole e il suo soffio oppure concentrandosi sulla sua immagine disegnata per ingerirlo e farlo restare nel cuore, che illuminerà tutto l’interno scaldandolo durante il transito nel corpo.

Come riportato nel Mistero del Fiore d’Oro nel taoismo la circolazione della luce interiore è fondamentale per vedere l’Essenza della Vita che è contenuta nella Luce del Cuore. La pratica insiste sull’esercitare gli occhi a guardare verso l’interno andando contro corrente per cui i pensieri si raccolgono nel luogo della coscienza celeste, là dove la Luce è sovrana. Se le si imprime un moto circolare essa cristallizza le potenze cosmiche di Cielo e Terra formando al centro il Fiore d’Oro che germoglia o sboccia, oppure il seme che si sviluppa e diventa embrione e infine la perla, simboli del raggiunto elisir d’immortalità. È una pratica che permette la riacquisizione di una spontaneità primordiale perduta in seguito al processo di civilizzazione, per cui è sia istinto naturale che simpatia mistica con i ritmi cosmici.

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Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, “La fiaba dei re”, 1909

Eclisse del sacro

Se il termine divino designa una manifestazione celeste o una fonte luminosa, questa designazione si esplica mediante l’assimilazione della luce alla sacralità colta nel suo principio, di cui gli dèi stessi sono in realtà emanazione: il sacro è condizione per l’esistenza del divino stesso. Il termine rimanda al radicale *sak, quindi conforme al cosmo e struttura fondamentale delle cose, per cui i sacra costituiscono le realtà fondamentali, il cui uso è essenziale nella vita. Ambiguamente il termine indica da una parte la potenza divina, misteriosa e terribile, vietata al contatto con gli uomini, dall’altra esprime essenzialmente la forza vivificante, l’integrità spirituale e l’accrescimento.

Il sacro, per Mircea Eliade, è «ciò che ha più essere», la dimensione invisibile del mondo che si fonda sul reale colto nella sua essenza, ed esprime l’esigenza di ricomposizione col suo principio come condizione di integrità. La distinzione dal profano implica che il sacro accetti la sua manifestazione in un luogo circoscritto, uno squarcio di luce che fonda però la possibilità stessa di entrare in comunicazione con gli altri livelli: partecipazione del divino al sacrificio, dell’uomo col divino attraverso il legame tra cielo e terra.

Il processo di disincanto in Occidente di questa comunicazione tra natura e sovranatura per Gogarten nasce dalla distinzione originaria fra il Dio giudaico e il cosmo creato, che si trova fin dall’inizio svuotato di tutte le forze vivificanti, per cui la natura e le sue potenze vengono desacralizzate in sé in quanto non più manifestazioni dirette del divino. Anche la luce nell’Antico Testamento non è santificata in quanto analoga alla vita spirituale: è santificata perché è una creazione di Dio. Il mondo come essere viene governato da un dover essere, non un dato da rispettare in sé, ma un insieme da costituire mediante una serie di trasformazioni ed azioni nei confronti dell’oggetto che ormai è dominabile dall’uomo.

«Non essendo più sacro il mondo, l’uomo è libero nei suoi confronti, la desacralizzazione del mondo per lui diventa diritto di sfruttamento»: questa è la prima origine dell’atteggiamento economico verso la natura. Il sacro implica inoltre una forma di innocenza che genera stupore antitetica al pensiero razionale, e non a caso per Schleiermacher è il sentimento ad aprire il soggetto all’invisibile. Anche per Rudolf Otto il sacro è inaccessibile alla comprensione concettuale poiché scaturisce dalla «fonte di conoscenza più profonda che vi sia nell’anima stessa».

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Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, “Scintille III”, 1906

Desacralizzare un oggetto corrisponde a limitarsi ad intenderlo nella sua dimensione utilitaria e razionale, su cui l’uomo esercita il suo potere. Il decollo della scienza classica ha arrestato l’irrazionalità che dava l’accesso al sacro, proiettando sul profano il principio di ragione. L’esigenza di razionalità si sviluppa a spese della coscienza mitica, facendo precipitare il sacro in secondo piano, fino a dissolverlo, trasformando il mondo in un sistema di oggetti: la vittoria dei lumi della ragione in quanto calcolo, rendiconto, ratio.

La tecnica moderna permette lo sfruttamento calcolato della natura che si può assoggettare e riprodurre a proprio piacimento. Le luci d’Occidente baluginano ora seduttivamente nei prodotti, epifanie concretizzate dell’utilizzo della ragione e della scienza. Sullo sfondo riluce il brillio dell’oggetto nuovo di zecca, appena uscito di fabbrica e appariscente, gradevole allo sguardo. Nella società occidentale il meraviglioso non si presenta più, ma nel regno della quantità ha credito l’oggetto posseduto e la reificazione della persona.

Le arti si trasformano in attività industriali e la possibilità simbolica di giocare con le infinite corrispondenze del mondo viene sostituita dalla sua estetizzazione, sempre più intesa come aisthesis, cioè come sensibilità in senso lato, come forma di conoscenza della realtà che passa attraverso i sensi e non mediata dal rapporto con il divino. L’estetizzazione del mondo per Lipovetsky si fa portatrice anche di una serie di valori, in primis la ricerca perenne del Nuovo, la necessità di essere intrattenuti, l’imperativo dell’eccitazione e della stimolazione piacevole, l’obbligo sociale della ricerca di un’esperienza che sia appagante.

L’uomo aestheticus è impegnato in una ricerca nomade, usa e getta, per cui il reale si costruisce ovunque come immagine che integra in sé una dimensione estetica ed emozionale, in cui gli individui strutturano la propria soggettività attraverso i sensi e il loro utilizzo, ma anche a partire da una percezione della realtà che è in sé già velata di immaginario: a tutti gli effetti una ipercostruzione di sé e una moltiplicazione del profano. Si è così eclissato il sacro nell’oscurità, rifugiandosi là dove la luce abbagliante dell’eccesso di ragione e di secolarizzazione non possono raggiungerlo. Nell’interiorità dell’uomo occidentale dimora un’altra luce, quasi timorosa, che emerge quando la coscienza declina.

Anche la natura ha in sé uno spirito, ci ricorda Jung; se così non fosse, l’unica forma spirituale sarebbe la ragione umana. È il lumen naturae, la luce che si sprigiona dalla natura stessa e illumina la coscienza dall’oscurità, la seconda forma di conoscenza che come una scintilla apre le porte alla comprensione alchemica di sé. Dopo l’eccesso razionale dell’Illuminismo, Jung propone una visione del mondo in cui la compresenza della luce sovrannaturale dall’alto e il lumen naturae dell’inconscio dal basso si mantengono in equilibrio. Per Jung tale bilanciamento di concezioni nel ventesimo secolo si è spostato eccessivamente verso l’egocentrismo dell’uomo, che si è innalzato a divinità.

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Di conseguenza il “luminoso” eccesso razionalista ha reso il buio ancor più oscuro e la fiamma del lumen naturae rifulge nell’inconscio in modo tale da riconnettere la coscienza alla sua sapienza istintiva nascosta come una scintilla nel cuore. Il lumen naturae, in particolare durante il sonno, rivela che l’inconscio non è solo natura ma anche una fonte spirituale di anticipazioni sul futuro sviluppo della coscienza attraverso i simboli. Se il fuoco mercuriale per gli alchimisti era una composizione di ciò che è superiore, cioè delle virtù celesti, spirituali, nel basso, nella sfera ctonia, per Jung la rivelazione attraverso il lumen naturae è ora uno svelare ciò che è stato nascosto e, fondamentalmente, un evento psicologico ed abissale: ciò che era superiore adesso riappare nelle profondità dell’anima umana.

Si apre per l’uomo la possibilità dell’autoconoscenza, una luce mattutina che appare dopo la notte in cui la coscienza dormiva avvolta nell’oscurità dell’inconscio.  In ossequio all’intuizione benjaminiana del cambiamento delle modalità di percezione, anche nei sogni dell’uomo occidentale contemporaneo si presentano contenuti onirici che seguono forme esteticamente analoghe al mondo diurno: anche l’inconscio propone choc, esplosioni e flash. Negli stati di trance, nelle esperienze psichedeliche, nelle meditazioni profonde anche in Occidente appaiono i fotismi, luci di vario colore che emergono dal fondo dell’umano come scintille. Queste forme preliminari di epifanie luminose elencate nelle varie tradizioni yogiche come nebbia, il sole, il fuoco, i cristalli, la stella, l’occhio, il disco della luna, devono essere però riassorbite nel cuore, in raccoglimento.

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Agostino Arrivabene, “La grande voce”, 2016

Irradiazioni

La secolarizzazione nel mondo non ha però annullato completamente il gioco segreto tra la luce del mondo e dei suoi oggetti e le impressioni suscitate sull’osservatore. Famosa è l’estasi del mistico Jakob Boehme provocata dal riflesso del sole su un piatto e seguita da una illuminazione intellettuale dei misteri del divino e la notte di fuoco di Pascal, annotata su un foglio che il filosofo cucì per sempre all’interno dei suoi abiti e che segnò la sua definitiva conversione. Durante queste illuminazioni la luce interiore viene percepita inizialmente come proveniente dall’esterno, in un dialogo segreto tra oggetto e soggetto, ma in seguito si annulla temporaneamente ogni separazione, in una gioia immensa.

Per afferrare la luce di queste rivelazioni è forse necessario fare appello alla eccezionale capacità osservativa del poeta e filosofo del Romanticismo tedesco, Novalis:

« Tale manifestazione diviene particolarmente evidente alla vista di alcune figure e visi umani, specialmente di alcuni occhi, gesti, movimenti, ascoltando determinate parole, leggendo alcuni passi, in certi aspetti della vita, del mondo, del destino. Moltissime casualità, alcuni eventi naturali, specialmente parti dell’anno e del giorno, ci offrono quest’esperienza. Alcuni stati d’animo particolari sono privilegiati per tali rivelazioni. La maggior parte sono istantanei, pochi durano, pochissimi restano. C’è molta differenza tra uomo e uomo riguardo a ciò. Qualcuno ha più capacità rivelativa di altri. Uno ha più senso, l’altro più intelligenza per essa. Nel secondo caso si resterà sempre esposti alla sua luce delicata, mentre nel primo si avranno soltanto illuminazioni avvicendantesi, ma più chiare e variate. »

Se l’esperienza quotidiana sfiora queste irradiazioni nella loro poetica sfuggevolezza, esistono però momenti dell’anno e stati d’animo in cui abbandonare la coscienza al suo crepuscolo permette l’emersione di queste luci all’orizzonte del mondo.

Anche l’aura in Occidente non è scomparsa del tutto: appare sfuggevolmente in alcune circostanze di durata istantanea dove si crea una corrispondenza tra una premonizione, una immagine interiore e la realtà esterna, o più raramente, quando la sovrapposizione tra un archetipo e la percezione suscita improvvise illuminazioni. Elementi che erano separati nel tempo e nello spazio si ritrovano improvvisamente riuniti in una coincidenza ricca di significato.

I filosofi della Scolastica erano soliti ricordare una metafora: gli angeli, che sono fuori del fiume del tempo, di quando in quando vi immergono un piede. Quando si verifica l’evento sincronicistico avvertiamo un’orma angelica nel nostro mondo. Anche Schopenhauer nel suo Meditazioni trascendenti sull’apparente finalità del destino individuale, affascinato dal tema, concluse che quando la veglia mostra coincidenze senza un rapporto di causa ed effetto, ma ricche di significato, essa diventa tutt’uno con il sogno.

Le sincronicità, nell’espressione di un segreto legame analogico con la natura, segnalano l’irruzione di un archetipo e generano un’aura numinosa. Il suo rifulgere ci rimanda all’esistenza di una verità nascosta che ha sollevato il suo velo per un istante e ci colpisce con un raggio. Come ricorda Zolla, «archetipo» è in fondo una parola dotta e metafisica per ciò che i fantasiosi un tempo chiamavano «arcangelo». Chi presta più attenzione alla sua vita interiore è più sensibile nel cogliere queste epifanie e al tempo stesso le ricerca come nutrimento per l’anima.

Ma è destino stesso dell’aura il manifestare la sua natura diafana ed ineffabile, sempre sul punto di svanire e dissolversi. Non a caso, quando l’Essere primordiale, Prajàpati, si infervorò e creò gli esseri viventi, da lui, esausto e accaldato, si alzò l’Aura, splendida, rilucente e trepida. Vedendola cosi splendida, rilucente e trepida, gli dèi la presero di mira e la derubarono di tutto.


Bibliografia:

  • Alain De Benoist e Thomas Molnar, L’eclisse del sacro, i libri del Borghese
  • Carl Gustav Jung, Psicologia e alchimia. Bollati Boringhieri.
  • Elémire Zolla, Aure. I luoghi e i riti. Marsilio.
  • Gilles Lipovetsky, Jean Serroy. L’estetizzazione del mondo. Sellerio editore Palermo.
  • Mircea Eliade. Mefistofele e l’androgine. Edizioni Mediterranee.
  • Mircea Eliade. Il sacro e il profano. Bollati Boringhieri.
  • Novalis. Opera filosofica volume 1. Einaudi.
  • Rudolf Otto. Il sacro. SE.
  • Walter Benjamin. Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media. Piccola biblioteca Einaudi.

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