“Al muro del tempo”: le profezie di Ernst Jünger sull’Era dei Titani

125 anni fa, il 29 marzo 1895, nasceva ad Heidelberg Ernst Jünger, uno dei più importanti e originali pensatori del secolo breve. Sessant’anni sono invece trascorsi dalla pubblicazione della sua opera “Al muro del tempo” che, riletta oggi, non può che stupirci per la puntualità delle profezie in essa contenute sul mondo che verrà, mondo in cui oggi ci troviamo a vivere: dalla figura paradigmatica del «milite ignoto» all’avvento del cosiddetto «uomo-massa», passando per il fenomeno della «scomparsa dei confini» e giungendo infine a mettere in rilievo l’opera di distruzione dei ritmi naturali in cui l’uomo è sempre stato inserito, compiuta per mezzo del «titanismo» della Scienza.


di Marco Maculotti
copertina: Rudolf Schlichter, ritratto di Jünger

Abbiamo già sottolineato, nel primo articolo dedicato all’opera di Ernst Jünger Al muro del tempo, pubblicata nel 1959, la capacità del suddetto di aver saputo leggere la crisi del mondo moderno alla luce della cosiddetta questione storiografica. A tal fine abbiamo messo in relazione alcune delle sue intuizioni con quelle di altri autori (Eliade, Guénon, Evola, Spengler), grossomodo ascrivibili al filone di pensiero del cosiddetto Tradizionalismo. In questo secondo articolo ci concentreremo su quelle che potremmo definire vere e proprie profezie sulla strada discendente che avrebbe preso la società occidentale nell’atto di appropinquarsi a quello spartiacque storico che Jünger definisce «Muro del Tempo». Profezie che, come avremo modo di vedere, suonano oggi, a sessant’anni di distanza dalla loro formulazione, di una precisione disarmante.

In una di queste profezie Jünger aveva previsto che «mediante trattati, sottoscritti vuoi sulla base di un’intesa pacifica, vuoi con mezzi coercitivi, ovvero in entrambi i modi, [venisse] sancita l’unità del mondo» [§93]. Questo organismo super-statale e super-nazionale, nella sua ottica, avrebbe tratto forza dagli stessi singoli Stati, che avrebbero «rinuncia[t]o ad alcuni settori della loro sovranità, i quali vengono smantellati a favore della società, della societas humana» [§93]. «Le forze democratiche prevarranno sulle altre, a tutti i livelli: dal governo mondiale sino alle cellule più piccole, sino alla famiglia»; diminuisce il pericolo di guerra fra nazioni ma aumenta quello delle guerre civili e dei conflitti razziali [§179].

In alternativa, sostiene Jünger, si potrebbe giungere a questo governo mondiale attraverso una terza grande guerra, al termine della quale sarà «un’unica potenza a detenere la sovranità e l’equipaggiamento adeguato»; l’autore si spinge ad affermare che se «nella prima guerra mondiale furono eliminate le monarchie, nella seconda gli Stati nazionali, con la terza a rimanere integra sarebbe solamente una delle grandi aree continentali» [§93]. Verrà, insomma, a delinearsi un nuovo stato, «promosso in nome dell’umanità e in nome dell’umanità combattuto; uno stato che, di fondo, mette in discussione e muta il concetto stesso di umanità» [§153].

E, dal  momento che «parole come guerra e pace mutano, è probabile che al di là del muro del tempo muteranno anche parole come ‘Stato’. Probabilmente lo Stato Mondiale indicherà uno status, una stazione di cui non si possono prevedere né forme né durata» [§165]. «A partire dal Duemila dovremmo vivere, allora — dice altrove l’autore [§40] —, in un’epoca di pace mondiale, in città smisurate, circondati da opere d’arte ellenistiche e avendo a disposizione una tecnica potente e perfezionata. Per la prima volta ci sarebbe una sola mano a reggere il globo terrestre; non esisterebbero più ‘margini’ nel senso antico». In quest’ottica, in un mondo senza Stati, la cittadinanza mondiale diventerà semplicemente uno status, con la conseguenza — aggiungiamo noi — che i cittadini degli stati che si opporranno al suo avvento, saranno de facto considerati come facenti parti di una sorta di “mondo di serie B”, ormai considerato “fuori dalla Storia”. Già Nietzsche, d’altronde, come rileva Jünger, aveva previsto la creazione di uno Stato Mondiale — ma ne aveva anche predetto il suo ineluttabile declino.

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Il milite ignoto

Tra gli obiettivi fondamentali del “Nuovo Ordine Mondiale” rientrerà, in ogni caso, quello di «limitare la vita eroica, e i legami che ne conseguono, a favore della prestazione produttiva» [§153]. Per quanto concerne il primo punto, si pensi solo alla guerra nel mondo moderno; come sottolinea F. Volpi [1]:

« La prospettiva di Jünger scardina le tradizionali interpretazioni della guerra per esibirci il fenomeno allo stato puro. Dove altri vedevano allora la lotta per la patria, gli interessi del capitalismo o le rivendicazioni dello chauvinismo, egli coglie l’esperienza primordiale in cui la vita scopre le sue carte, in cui, nel suo pericoloso sporgersi verso l’insensato nulla, essa manifesta la sua essenza più profonda e contraddittoria. »

Nell’economia di questa visione jüngeriana, il milite ignoto, paradigma dell’uomo in perenne lotta con i demoni impersonali di questa epoca oscura, non è un definibile stricto sensu un eroe, non potendo vantare una personalità o un’individualità ben definita. Nessun epos narra delle sue gesta; «non ha nome e, in fondo, non ha patria alcuna». Egli è semplicemente «un figlio della terra, un oscuro reduce, non è fondatore né edificatore; piuttosto, è colui che feconda la Madre Terra» [§52], vale a dire Kālī la Nera, «colei che ha dominio sul divenire». L’immagine della Grande Madre che, scandendo con la sua danza forsennata il passaggio delle ère fino al momento della deflagrazione definitiva, che avverrà al muro del tempo, ritorna altre volte, tra le righe, in questa eccezionale opera jüngeriana, notevolmente influenzata dalla concezione ciclica della storia nelle tradizioni antiche.

L’archetipo del milite ignoto come rappresentazione dell’uomo moderno permeava la filosofia jüngeriana fin dagli anni trenta; già ne L’Operaio, il Nostro riconobbe l’esistenza di processi proprî della guerra persino nella vita in tempo di pace, in tutta l’esistenza moderna altamente meccanizzata delle metropoli alienanti, i quali miravano, come ben riassunse Evola, a [2]:

« […] colpire l’individuo e soppiantarlo con un ‘tipo’ impersonale e sostituibile caratterizzato da una certa uniformità — visi di uomini e di donne assumenti appunto il carattere delle maschere, ‘maschere metalliche negli uni, maschere cosmetiche nelle altre’; nei gesti, nell’espressione, qualcosa come una ‘astratta crudeltà’, in correlazione con lo spazio sempre più grande occupato nel mondo d’oggi da tutto quel che è tecnicizzazione, numero e geometria e da quanto si riferisce a nessi oggettivi. »

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Il milite ignoto, il ‘Senza Nome’, compare pure nel Trattato del Ribelle (1951), saggio in cui Jünger lo descrive come «un eroe, un domatore di mondi fiammanti, capace di reggere enormi fardelli nel mezzo delle devastazioni meccaniche», «degno discendente della cavalleria occidentale» [3]. Da parte sua Evola, recensendo Ore fatidiche europee (1936) di K.A. Rohan pochi anni dopo l’uscita de L’Operaio di Jünger, scrisse, sicuramente influenzato dall’immagine del milite ignoto [4]: «Anche in una vicenda spietata di sterminio operata prevalentemente da forze meccaniche e impersonali, simili a forze telluriche scatenate, è possibile un eroismo: un eroismo collettivo e anonimo più che personale e luminoso, l’eroismo che si può pur avere nel caos di una catastrofe senza speranza». F. Lamendola rileva che, alla fine della Prima Guerra Mondiale [5]:

« Smobilitato dopo la sconfitta della Germania, nel 1918, [Jünger] esalta una nuova figura di eroe tragico, l’Operaio, così come aveva esaltato quella del combattente, dell’uomo dell’età della tecnica, che (secondo la profezia di Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente) è ancora in grado di strappare qualche sprazzo di luce corrusca dalla crisi irreversibile della civiltà europea, sullo sfondo dl fumo delle ciminiere e delle futuristiche masse lanciate in una frenesia di movimento, di attività, di ribellione — singolare mescolanza di motivi socialisti della lotta di classe, anarcoidi della rivolta contro ogni autorità e ultra-nazionalisti della terra e del sangue. »

Si tratta, riprendendo il discorso sviluppato in altri capitoli de Al muro del tempo, della cosiddetta prova iniziatica, individuale e collettiva, che secondo Jünger avrebbe dovuto affrontare la civiltà europea da quel momento in poi: la prova della cosiddetta «regressione nel Caos», nell’indifferenziato, la discesa agli Inferi popolati dalle potenze titaniche, giganti e forme proteiche, figli di Gea, la Mater oscura. È la «Lunga Notte dell’Anima» che, nella visione pessimistica dell’ultimo Eliade — che si rifà alla letteratura sciamanica dei popoli arcaici —, l’Europa dovrà affrontare, come se fosse «inghiottita da un mostro», masticata, smembrata e ri-composta.

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L’avvento dell’uomo-massa

Con concetti simili, Evola espresse le stesse preoccupazioni, ravvisando nell’integrazione in un fagocitante meccanismo sovrastatale e sovraculturale, vale a dire nella «disintegrazione del singolo nel cosiddetto collettivo», «l’eliminazione nell’uomo di tutto ciò che abbia valore di personalità autonoma»; tra i mezzi utilizzati per giungere a tal fine l’autore elenca «la meccanizzazione, la disintellettualizzazione e la razionalizzazione di ogni attività, su tutti i piani» [6]:

« Ristretto ogni orizzonte a quello della economia, la macchina si fa centro di una nuova promessa messianica e la razionalizzazione si presenta anche come una delle vie per liquidare i ‘residui’ e le ‘accidentalità individualistiche’ dell’‘èra borghese’. »

Il fine è, — non è difficile comprenderlo — «la realizzazione dell’uomo-massa e del materialismo integrale, in ogni dominio» [7]: la «Morte di Dio» di nietzschiana memoria estesa dall’esperienza collettiva a quella individuale. Evola rintracciò il tipico esempio storicizzato di questo processo di dissoluzione dell’individuo nell’Unione Sovietica, precisamente nella fase staliniana, durante la quale «la società diviene una macchina nella quale vi è un unico motore, lo Stato comunista» e in cui «l’uomo non è che una leva o ruota di questa macchina, e basta che egli si opponga per esser immediatamente travolto o spezzato dall’ingranaggio, nel quale il valore della vita umana è nullo e ogni infamia è permessa […]. È l’ideale del Superstato, come inversione sinistra dell’ideale tradizionale organico» [8].

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Bisogna comunque ricordare che, a parere di Evola — così come pure di altri tradizionalisti —, non solo l’URSS ma anche gli Stati Uniti [9] avrebbero giocato un ruolo fondamentale nell’azione nefasta volta al ribaltamento della visione culturale europea avvenuto con l’avvento del XX secolo: l’America devota al capitalismo sfrenato altro non sarebbe se non l’altra faccia della medaglia del comunismo sovietico, che sommate rappresenterebbero le due teste dello stesso Leviatano. Seppure con mezzi diversi, a ben vedere, le due correnti della «contro-tradizione» (così come la definiva Guénon) del Novecento hanno condotto vertiginosamente verso la medesima, agghiacciante prospettiva: quella di un mondo in cui il singolo, privato di un qualsivoglia valore al di là del suo ruolo all’interno di un sistema fagocitante, appare non diversamente da una vittima sacrificale destinata ad essere ‘triturata’ dal Sistema mediante la messa in azione perpetua dei suoi ciclopici ingranaggi.

L’azione congiunta di queste due correnti all’interno del «piano della sovversione mondiale» porterà, secondo Evola [10], all’Armageddon sociale, reputato necessario dagli agenti della contro-iniziazione perché si realizzi a pieno l’ultima fase dell’involuzione fino alla quarta e ultima casta, la massa informe, che condurrà dunque all’«avvento di un’umanità collettivizzata», su cui governerà quella che nell’antica India era considerata la terza casta: quella dei vaishya, o mercanti. Così che [11]:

« […] anche se non dovesse verificarsi la catastrofe temuta da alcuni in relazione all’uso delle armi atomiche, al compiersi di tale destino tutta questa civiltà di titani, di metropoli di acciaio, di cristallo e di cemento, di masse pullulanti, di algebre e macchine incatenanti le forze della materia, di dominatori di cieli e di oceani, apparirà come un mondo che oscilla nella sua orbita e volge a disciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi, dove non vi è più nessuna luce, fuor da quella sinistra accesa dall’accelerazione della sua stessa caduta. »

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L’incremento demografico e il motivo della «stanchezza cosmica»

Si deve notare come, ritornando a Jünger, questo processo di uniformazione delle masse sia strettamente connesso alla necessità, avvertita dai ‘piani alti’ della piramide sociale, di aumentare oltre ogni limite la produzione; ciò conduce inevitabilmente e fatalmente — e condurrà sempre più — ad un «brusco incremento demografico del pianeta» [§155]. È sotto gli occhi di tutti come ciò sia effettivamente avvenuto: la popolazione mondiale dall’uscita di Al muro del tempo ad oggi si è quasi triplicata.

Un tale aumento improvviso e inarrestabile della popolazione, ci viene da notare, è tradizionalmente legato alla fine dei cicli e al giungere di catastrofi: nei miti andini si dice che Viracocha sterminò i giganti che si erano riprodotti sino ad occupare tutta la terra; nel Mahābhārata indiano, la terra personificata nella dea Prthivī, chiede a Brahmā di ridurre il numero delle creature dal momento che non è in grado di sopportarne il peso ormai divenuto insostenibile; i Guarani del Mato Grosso pensano che la natura sia «vecchia e stanca di vivere» e più volte in sogno i loro medicine-man hanno inteso la Terra implorare: «Ho divorato troppi cadaveri, ne sono sazia e sfinita. Padre, fa’ che ciò finisca!» [12].

Si tratta del motivo eliadiano della «stanchezza cosmica»: il tema della terra oppressa dal peso dell’umanità proliferata a dismisura, senza alcun ritegno degli equilibri cosmici e naturali del pianeta ospitante.  In tutti questi miti, la Terra implora il dio creatore di essere alleggerita dal peso di una popolazione che non cessa di moltiplicarsi [13]; la divinità uranica, invocata, invierà un cataclisma purificatore, in forma di alluvione/diluvio o di distruzione attraverso il fuoco (ekpyrosis). L’evenienza di una simile catastrofe segnalerebbe, come afferma Jünger [§92], «non solamente che l’ordine è stato turbato, ma altresì che […] vuol essere ristabilito»; in altri termini: non solo la fine di un ciclo, ma anche l’inizio del successivo.

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«L’uomo-che-non-ha-tempo»

In questa orgia caotica l’individuo, alla stregua di una marionetta in mano al Leviatano, subisce una mutazione quasi darwiniana, diventando «l’uomo che non ha tempo», a cui sfugge «ciò che del lavoro è il coronamento» [§23], ossia il «non-lavoro», o — potremmo dire eliademente — la capacità di uscire dal tempo storico-profano e di accedere al tempo sacro. Di questo «tempo sacro», Jünger scrive: «Le religioni insegnano che questo tempo è il nostro vero campo da coltivare, che questo tempo può essere portato a compimento e a pienezza in modo fecondo. E in ciò esse concordano, indipendentemente dal fatto che ipotizzino la fine dei tempi oppure un ritorno» [§181]. Questo «tempo sacro» è l’equivalente dell’illud tempus eliadiano, il vero tempo, che è un istante statico che non scorre: l’istante agli albori della creazione stessa, di cui l’individuo può fare esperienza solo con una fuga dal tempo storico e profano.

Mancando ormai quasi del tutto il rapporto con questo «tempo sacro», la società attuale formata da tanti «uomini che non hanno tempo» e che non conoscono il valore del non-lavoro si configura in ultima analisi come una prigione da cui è impossibile evadere; in questo senso probabilmente Jünger concordava con la nota affermazione di Evola secondo la quale [14]:

« Se vi è mai stata una civiltà di schiavi in grande, questa è esattamente la civiltà moderna […]. E poiché la visione moderna dalla vita, nel suo materialismo, ha tolto al singolo ogni possibilità di conferire al proprio destino qualcosa di trascendente, di vedervi un segno e un simbolo, così la schiavitù di oggi è la più tetra e la più disperata di quante mai se ne siano conosciute. Non fa dunque meraviglia che nelle masse degli schiavi moderni le forze oscure della sovversione mondiale abbiano trovato un facile, ottuso strumento pel perseguimento dei loro scopi: mentre dove essa ha già trionfato, nei cosiddetti, sterminati ‘campi di lavoro’ noi vediamo usato metodicamente, satanicamente l’asservimento fisico e morale dell’uomo ai fini di una collettivizzazione e dello sradicamento di ogni valore della personalità. »

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Rudolf Schlichter, “Ritratto di Ernst Jünger”, 1929

La scomparsa dei confini e del Nomos

In questo scenario, a parere di Jünger, fondamentale sarà anche il fenomeno da lui definito «scomparsa dei confini» [§149]:

« […] non solo in quanto fenomeni, ma nel loro stesso significato, nel loro intrinseco valore. E con essi scompare il nomos, la potenza deputata a loro salvaguardia. Qui, e non nella minaccia fisica, va cercato l’abisso di quel brivido che coglie l’uomo alla vista della creazione di Proteo. In ciò egli presagisce più della mera distruzione di forma creata, che del resto anche la morte distrugge, presagisce i messaggeri di un attacco generato dal fondo originario. È lo stesso brivido che lo assale alla vista del serpente. »

Si deve anche sottolineare come Jünger metta in relazione reciproca confini, dèi tutelari dei medesimi e forma: gli dèi tutelari sono a suo modo di vedere non solo garanti dei confini territoriali, ma anche della forma: «ecco perché gli dèi non tollerano neppure gli esseri caotici e ctonii, la mostruosa deformità dei giganti» [§149], ovvero le potenze mitiche inferiori. Per questo, una volta scomparsi i confini, una volta crollate le barriere tra lecito e illecito, ciò darà il via libera agli «esseri caotici e ctonii»: a quel punto non ci rimarrà che tendere l’orecchio al Corno Risonante di Heimdallr e constatare l’avvento definitivo del Ragnarökkr.

Durante i tempi prossimi «la legge si allenterà, il richiamo al padre diverrà via via più debole e da ultimo persino assurdo» [§173]: così il Nostro prevede il crollo della società patriarcale e di tutti i «confini» e le «barriere» da essa erette, in favore di una società matriarcale fondata sull’appiattimento demografico: «I vincoli del diritto paterno dovranno perdere potere a vantaggio di quelli del diritto materno» [§179]. In questo scenario caratterizzato dalla scomparsa del nomos e dalla caduta della distinzione fra il giusto e lo sbagliato, non sorprenderà il fatto che «la pena di morte perde la sua ragion d’essere, mentre va prosperando l’omicidio privo di motivazioni» [§179].

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Horst Janssen, “Ritratto di Ernst Jünger”, 1990

Non solo i confini territoriali, pertanto, ma anche quelli giuridici saranno sottoposti a revisione: il discernimento tra lecito e illecito diventerà sempre più impercettibile. Fenomeno paradigmatico di questo nuovo scenario saranno i sempre più numerosi conflitti che sorgeranno nel mondo del diritto: «la natura è in procinto di infrangere anche le barriere del diritto; sempre più frequenti sono i casi in cui considerazioni tecniche e biologiche prevalgono su quelle giuridiche» [§145]. Al pericoloso ambito della sperimentazione genetica, ad es., si riferisce l’autore quando fa riferimento al «brivido che coglie l’uomo alla vista della creazione di Proteo», quest’ultimo essendo, secondo il mito, una divinità marina dalla natura ibrida, metà uomo e metà pesce.

Altrove, Jünger fa riferimento anche alla questione della fecondazione artificiale come qualcosa che «viene presentato dalla scienza e accettato dalla coscienza comune» [§150]: ciò, naturalmente, sarà ancora una volta diretta conseguenza dell’impoverimento progressivo e sempre più accelerato del nomos, vale a dire del «divenir la terra priva di confini», da intendersi come abbiamo visto sia in senso fisico che giuridico, e persino ontologico. Il Nostro sottolinea anche il carattere assolutamente nuovo — e chiaramente titanico — degli «esperimenti che intervengono sull’economia geologica, e persino cosmica», affermando che «mai l’uomo si era preso l’arbitrio di fare alcunché di simile» [§122]: influenzare il clima, nelle tradizioni antiche, era prerogativa di sfere «sovrumane e oltreumane»: Titani e dèmoni, e in seguito «streghe e fattucchieri». Nel mondo che verrà saranno sempre più i governi e gli eserciti a intervenire su di esso, utilizzando le armi della scienza razionalistica, che della tradizione magica e “stregonesca” sembra dunque aver preso solo la titanica ambizione del controllo degli elementi, eliminando di fatto tutto ciò che ad essa poteva porre dei limiti di tipo religioso.

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Francisco Goya, “El Coloso”, 1918-25

Le forze infere della civiltà delle macchine

Di non diversa opinione era Guénon [15], il quale fu tra i primi a mettere in risalto la pericolosità della «rapidità incessantemente crescente» delle invenzioni, per il fatto che esse «mettono in azione forze, la vera natura delle quali è interamente sconosciuta a quelli stessi che le utilizzano; e tale ignoranza è la migliore prova della nullità assoluta della scienza moderna per quanto riguarda il suo valore esplicativo, cioè in quanto conoscenza» [16]. Le conseguenze di azioni tanto tracotanti, in un futuro più o meno prossimo, non possono che essere disastrose, poiché [17]:

« Chi ha scatenato le forze brute della materia perirà schiacciato da queste stesse forze, di cui ha cessato di essere davvero il signore dal momento in cui le ha messe imprudentemente in moto e di cui egli non può nemmeno presumere di frenare indefinitamente la marcia fatale. »

In questi termini, la crociata meccanicistico-scientista occidentale assume i contorni di una vera e propria marcia folle verso gli inferi, intesi non solo in senso involutivo/discendente ma anche miticamente come luogo altro, una sorta di fornace in cui giacciono assopite forze titaniche e ciclopiche che l’uomo ha disgraziatamente risvegliato «senza essersi elevato al di là della materia». Questa osservazione venne fatta trent’anni prima della pubblicazione di Al muro del tempo dal vate dell’orrore cosmico H.P. Lovecraft, il quale in una missiva a James Ferdinand Morton (19 ottobre 1929) si scagliò in un’appassionata filippica contro la «civiltà delle macchine standardizzata e rigidamente programmata», asserendo che [18]:

« Chi pensa che l’uomo viva per mezzo della ragione e che sia perfettamente in grado di controllare gli effetti e le conseguenze delle cose che inventa, sostiene una posizione che la psicologia dimostra sorpassata. L’uomo per un certo periodo può realmente usare le macchine, ma dopo un po’ si abitua mentalmente alla meccanizzazione e lo stato di dipendenza dalla macchina diventa tale che sono poi le macchine a usare l’uomo — appiattendolo sulla loro perfetta efficienza e sulla loro assolutamente inutile esattezza di azione e di pensiero. »

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Mircea Eliade, da parte sua, in Arti del metallo e alchimia (1956) denunciò il carattere titanico insito nell’accelerazione della scienza moderna, giungendo a teorizzare che [19]:

« Nel diciannovesimo secolo, dominato dalle scienze fisico-chimiche e dal decollo industriale, l’uomo giunse a sostituirsi al Tempo, nei suoi rapporti con la Natura. Si realizza allora, in proporzioni fino ad allora inimmaginabili, il suo desiderio di precipitare i ritmi temporali, attraverso uno sfruttamento sempre più rapido ed efficace delle miniere, dei giacimenti di carbon fossile, delle risorse petrolifere […]. Veniva così dimostrato, per la prima volta, come sia possibile abolire il Tempo, preparare in laboratorio e in fabbrica sostanze in quantità tali che la Natura avrebbe impiegato millenni per ottenerle. »

Eliade interpreta tutto ciò come una grave violazione del «ritmo cosmico», che dà luogo ad un «tempo astratto» (una locuzione che utilizza anche Jünger), artificiale, accelerato e «compresso»: tali sono le caratteristiche della stessa società moderna occidentale. Frithjof Schuon era dello stesso parere di Eliade, dal momento che scrisse che «respingendo o perdendo le misure celesti, l’uomo è divenuto la vittima del tempo: inventando le macchine che divorano la durata, l’uomo si è sottratto alla pace dello spazio e si è buttato in un vortice senza sbocco» [20]. Occupandosi della questione dell’avvento dell’èra meccanizzata, egli mise in guardia il lettore di fronte al rischio sempre maggiore di de-umanizzazione in un mondo sempre più dominato dalle macchine [21]:

« La macchina traspone il bisogno di felicità su un piano puramente quantitativo, che è senza relazione con la qualità spirituale del lavoro; essa toglie al mondo la sua omogeneità e la sua trasparenza e stacca l’uomo dal significato della vita. »

Non di diverso parere era Guénon, quando scriveva che «volendo dominare […] la materia e piegarla ai loro fini, gli uomini, […] sono riusciti solo a farsene gli schiavi; non solo essi hanno limitato le loro ambizioni intellettuali […] a un inventare e un costruire macchine, ma han finito col divenire essi stessi delle macchine» [22]. Jünger, dal canto suo, riguardo al Progresso scientifico e tecnologico, parla del «parco macchine nel quale essi stanno trasformando il mondo» [§43], mettendone in risalto gli sgradevoli caratteri di monotonia, livellamento e disincanto, «senza con questo tener conto della potenzialità distruttiva che le macchine possiedono in tempo di guerra e di pace». L’entusiasmo dell’uomo moderno di fronte ai miraggi della scienza e della tecnologia, in ultima analisi, ricorda al filosofo «lo stupore del selvaggio al quale vengono mostrati specchietti, orologi e armi da fuoco, oggetti tali da suscitare ora incanto ora terrore nel suo animo. E costui offre i frutti della sua terra, i suoi ornamenti, si fa schiavo, pur di possederli» [§43].

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Note:

[1] F. Volpi, Jünger, una vita vissuta come esperienza primordiale

[2] J. Evola, Cavalcare la tigre, p. 105

[3] E. Jünger, Trattato del Ribelle, §10

[4] J. Evola, Il mondo alla rovescia, p. 74

[5] F. Lamendola, Ernst Jünger. Testimone inquieto del nostro tempo

[6] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, p. 420

[7] Ivi, p. 422

[8] Vi è qui un rimando alla dottrina della Sinarchia, propugnata tra gli altri dal Marchese J.A. Saint-Yves d’Alveydre — una sorta di via di mezzo tra un occultista e un filosofo politico —, il quale sosteneva che lo Stato debba essere «trattato al pari di un essere vivente, con un’élite spirituale e intellettuale come cervello, e il tronco e le membra — gli operai, i soldati e i tecnici — pronti a eseguirne gli ordini» [W. Kafton-Minkel, Mondi sotterranei, p. 237]. Tale dottrina era tenuta nel massimo conto anche da molti tradizionalisti del Novecento, tra i quali Evola, che ebbe modo di scrivere [Sulla caduta dell’idea di Stato in Apolitia, p. 52]: «L’idea-base […] è quella di uno Stato non solo come organismo, ma altresì come organismo spiritualizzato […]. Si tratta dunque di una gerarchia politico-sociale con fondamento essenzialmente spirituale, nella quale ognuna casta o classe corrispondeva a una determinata forma tipica di attività ed a una funzione ben determinata nel tutto […] Così per esempio nella tradizione vedica le quattro caste sono fatte corrispondere a quattro parti fondamentali del ‘corpo’ dell’‘uomo primordiale’».

[9] «Anche l’America — scrisse Evola [Rivolta contro il mondo moderno, p. 424] —, nel modo essenziale di considerare la vita e il mondo, ha creato una ‘civiltà’ che rappresenta la precisa contraddizione dell’antica tradizione europea. Essa ha introdotto definitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l’interesse al guadagno, alla grande produzione industriale, alla realizzazione meccanica, visibile, quantitativa, al disopra di ogni altro interesse. Essa ha dato luogo ad una grandiosità senz’anima di natura puramente tecnico-collettiva, priva di ogni sfondo di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiritualità; anch’essa ha opposto alla concezione, in cui l’uomo è considerato come qualità e personalità in un sistema organico, quella, in cui egli diviene un mero strumento di produzione e di rendimento materiale in un conglomerato sistema conformista». Più avanti [Ivi, p. 428] aggiunge: «Nella grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo — ‘nomade dell’asfalto’ — realizza la sua nullità dinanzi al regno immenso della quantità, ai gruppi, ai trust e agli standard onnipotente, alle selve tentacolari di grattacieli e di fabbriche, mentre i dominatori sono incatenati alle cose stesse che essi dominano, in tutto ciò il collettivo si manifesta ancor di più, in una forma ancor più senza volto, che non nella tirannide esercitata dal regime sovietico su elementi spesso primitivi e abulici».

[10] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, p. 432

[11] Ivi, pp. 432-3

[12] M. Eliade, Mito e realtà, pp. 84-5

[13] L. Sanjakdar, Mircea Eliade e la Tradizione, p. 293

[14] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, pp. 143-4

[15] Scrisse Evola nell’introduzione alla prima edizione italiana di La crisi del mondo moderno (1937): «In nessun autore moderno è così recisa, inattenuata, quanto nel Guénon, la rivolta contro la nostra civiltà materialista, scientista, democratica, contro un ordine ‘occidentale’, che invero era solo un disordine malamente organizzato e recante in sé il principio delle crisi più tragiche».

[16] R. Guénon, La crisi del mondo moderno, p. 142

[17] Ivi, p. 147

[18] H.P. Lovecraft. L’orrore della realtà, p. 146

[19] M. Eliade, Arti del metallo e alchimia, p. 160

[20] F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, p. 33

[21] Ivi, pp. 20-1

[22] R. Guénon, La crisi del mondo moderno, p. 139


Bibliografia:

Mircea ELIADE, Arti del metallo e alchimia (Bollati Boringhieri, 1987)

Mircea ELIADE, Mito e realtà, Borla, Torino 1966

Julius EVOLA, Apolitia. Scritti sugli “orientamenti esistenziali” 1934-1973, a cura di R. Paradisi (Fondazione Julius Evola, Roma; Controcorrente ed., Napoli, 2014)

Julius EVOLA, Cavalcare la tigre (Mediterranee, Roma, 2012)

Julius EVOLA, Il Mondo alla rovescia. Saggi critici e recensioni 1923-1959, a cura di Renato Del Ponte (Arya, Genova, 2008)

Julius EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno (Mediterranee, Roma, 1984)

René GUÉNON, La crisi del mondo moderno (Mediterranee, Roma, 2015)

Ernst JÜNGER, Al muro del tempo (Adelphi, Milano, 2012)

Ernst JÜNGER, Trattato del Ribelle (Adelphi, Milano)

Walter KAFTON-MINKEL, Mondi sotterranei. Il mito della Terra Cava (Mediterranee, Roma, 2012)

Francesco LAMENDOLA, Ernst Jünger. Testimone inquieto del nostro tempo (Centro Studi La Runa, 21 maggio 2010)

H.P. LOVECRAFT. L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica, a cura di G. de Turris e S. Fusco (Mediterranee, Roma, 2007)

Lara SANJAKDAR, Mircea Eliade e la Tradizione. Tempo, mito, cicli cosmici (Il Cerchio, 2013)

Frithjof SCHUON, Sguardi sui mondi antichi (Mediterranee, Roma, 1996)

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11 commenti su ““Al muro del tempo”: le profezie di Ernst Jünger sull’Era dei Titani

  1. I più vivi complimenti all autore degli ultimi due articoli. È stata una rara emozione leggerli. Interessantissima anche la ri-scoperta di Eliade.
    Davvero grazie di cuore all’autore.

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