Percy Bysshe Shelley: Prometeo nel Vento

8/7/1822 — 8/7/2020: quasi due secoli dall’annegamento di Percy Bysshe Shelley, la cui figura divenne subito ammirata e venerata dagli spiriti più irrequieti. Il Prometeo che ruba il Fuoco per farne dono agli uomini, nel poeta inglese trovò una versione agli estremi dell’alta idealità, in nome di un radicale rinnovamento sociale e spirituale. Una stagione irripetibile, qui raccontata attraverso lati poco noti del Nostro e attraverso la profonda influenza su personalità molto distanti tra loro, quali d’Annunzio, Crowley e Carducci.


di Stefano Eugenio Bona
copertina: Louis Edouard Fournier, “Il funerale di P.B. Shelley” 

« Death is the veil which those who live call life. »

(Prometheus Unbound, III)

Il Prometeo Liberato” si può dire sciolga dai vincoli gli spiriti più ardenti dell’Ottocento e del primo Novecento. Nella triade del secondo romanticismo inglese, Shelley rappresenta lo spirito dell’apoteosi, Byron il demoniaco e Keats l’ingenuità della Natura. Il Prometeo che non ancora trentenne trova la morte al largo di Viareggio, è una delle figure più magnetiche della storia della letteratura, nella sua breve vita sempre tesa sul filo delle esperienze più disparate: dallo spiritismo all’ardimento fisico, dall’eroismo di penna alle gesta nel vortice del mondo, dai proclami anarco-socialisti ad una teodicea della storia. – Tutto provai. Tutto compresi e tutto / abbracciai col mio genio [1] la cifra espressa nell’irriducibilità che trita i giorni, le ore e le opere, divorando faustianamente i giovani romantici inglesi, per riferirsi al Manfred di Byron. Eco di ciò si avrà opportunamente nel Vate e nel suo famoso Tutto fu ambìto / e tutto fu tentato… [2] Intravediamo subito un Filo teso ed inevitabile.

In quei suoi versi e in quei suoi atti, due Prometei specifici trassero l’ “orma dell’indicibile” che la sapienza di Giorgio Colli nomina in “Dopo Nietzsche”: ovvero linfa per andare all’enigma prima delle parole e poi trasporlo nella condizione estatica momentanea, attraverso stati della coscienza in cui la parola sorta non può mai essere riferita ad una logica di utilizzazione [3]:

L’enigma compare, secondo Platone, quando il suono delle parole, nella sua significazione immediata, non restituisce quanto è inteso da chi parla.

Ovvero: per tradurre certi stati si dovrà usare una forma verbale percepita come incongrua, da chi è esterno alla dimensione ove “‘ntender no la può chi no la prova” di dantesca memoria…

Joseph Severn, Shelley scrive il Prometeo Liberato presso le terme di Caracalla
Joseph Severn, “Shelley scrive il Prometeo Liberato presso le terme di Caracalla”

I.

Parliamo di Gabriele d’Annunzio e di Aleister Crowley. Il Vate e il Mago, alla fonte di Shelley, trassero questa linfa stuporosa di enigma piena, e la trasfusero a contatto con i propri geni. Shelley dona, non a caso, la potestà della trasfigurazione nel (e pel) nome: Ariel e Alastor sono riproposti nei furori di vita del duo, e in questo “figlio del vento” situano la loro accensione. Arielspirito dell’aria nella Tempesta di Shakespeare, fu caro al Poeta e percepito dalla speciale sensibilità di d’Annunzio. Shelley così appellò lo schooner costruito a Genova, con cui partì da Livorno l’8 luglio 1822, alla volta di San Terenzo. Alastor – o lo spirito della solitudine – si riferisce invece al poema del 1815 e risuona prepotentemente nella scelta stessa di mutare il nome da Edward Alexander in Aleister…

Poniamo giusto quattro dei tanti passaggi dove d’Annunzio chiarisce il proprio amore verso Shelley (onnipresente nel Piacere); una piccola ossessione financo, una nostalgia viola di morte (per citar Landolfi), una vera e propria accensione di furore, nelle opere giovanili, mutata poi in una chiamata verso la risacca delle gesta. La lingua degli spiriti che sembra tratteggiare il gioco di luce sfingea degli interni dannunziani, ne “Il Piacere” reca note di grande intensità visiva:

L’ombra, ovunque, era diafana e ricca, quasi direi animata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno i santuari oscuri ov’è un tesoro occulto. Il fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle sue fiamme era, secondo la imagine di Percy Shelley, come una gemma disciolta in una luce sempre mobile…

Sempre ne Il Piacere, Maria Ferres (non a caso l’amante spiritualizzante, contrapposta alla femme fatale Elena Muti…) annota sul suo diario:

Leggo Percy Shelley, un poeta ch’egli ama, il divino Ariele che si nutre di luce e parla nella lingua degli spiriti

Poi nel “Trionfo della Morte”, agogna in chiave superomistica una trasfigurazione (sono gli anni del massimo spregio aristocratico e del più fondo influsso di Nietzsche):

La fine di Percy Shelley, già più volte invidiata e sognata sotto l’ombra e il fremito della vela, gli riapparve in un immenso baleno di poesia. Quel destino aveva una grandiosità e una tristezza sovrumane.

Il più tardo e sofferto Libro Segreto” è un risguardo tra l’eroismo della maturità, ove palpita sempre l’esempio di Ariel:

Fra tre giorni posso essere in fondo al Carnaro, e rigettato sopra una spiaggia di Veglia, di Cherso, dell’Istro orientale, fra tre giorni posso alfine essere anch’io, come lo Shelley della mia adolescenza, qualcosa di ricco e strano, “something rich and strange”, o un livido cadavere introvabile, in una casacca di pelle, come Roberto Prunas. [4]

La definizione dello Shelley come maggior lirico moderno (nelle Faville del Maglio) si deve primariamente ad Enrico Nencioni e a Giuseppe Chiarini, insieme al De Bosis (che consacrò tutta la vita a tradurre Shelley) a stretto contatto col Vate, nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo. In questo scritto lancia un peana illuminante su uno Shelley nascosto e comprensibile solo in una spiccata elezione del gusto e di alcune capacità “sottili” che non passano da libri, cultura e gravami sociali:

Prometeo è il più grande poema di questo secolo, più grande forse anche del Faust goethiano… Pare che veramente questo figlio dell’Oceano abbia risvegliata una voce che dormiva sconosciuta nel mondo. Anche le sue odi meno curate hanno qualcosa di sovrumano. Certe note sembrano uscite non dalla bocca d’un mortale ma da quella di un dio o di un dèmone. Certi versi paiono tessuti dell’elemento imponderabile d’un qualche sogno elisio… Mentre egli possiede le più alte virtù dei più alti maestri antichi, tutto è nuovo in lui. Le sue immagini non si ritrovano in alcun altro poeta: scaturiscono dal suo cervello con tale prodigiosa abbondanza che i più ricchi sembrano miseri al confronto di lui.

D’Annunzio vive sulla propria pelle quella sorta di “calore animico” di Ariel, ovvero uno stato di rischiarante coscienza, intensificazione viva del fuoco noetico. Tale non-concetto essenziale viene reso alla fonte ermetica di Giuliano Kremmerz [5]:

L’angelo della volontà è ARIEL, forza o volontà, perché la più potente forza è la volontà dell’uomo che sappia quel che vuole… Virtù è Ariel, è la forza, è la purificazione…. Ariel, intelligenza di Marte e démone, diventa attivo nella zona elevata dell’intellettualità, mentre nel mondo materiale è attivo in conflitto o bellicoso…

Ariel_(Fuseli,_c.1800-1810)
Johann Heinrich Füssli, “Ariel”

Ariel fu il nome iniziatico all’interno del martinismo, e chissà se lo Shelley ne intese le peculiarità esattamente nei termini di cui sopra, quel che è certo è che negli anni del prestigioso Eton College intraprese assidue letture esoteriche (procurandosi libri rari di magia), partecipò a sedute spiritiche ed ebbe pure una esperienza negromantica (senza successo), come testimonia attendibilmente l’amico e biografo Thomas Jefferson Hogg (col quale pubblicò anche “The Necessity of Atheism”) in “Life of Percy Bysshe Shelley”. Notiamo di sfuggita l’opera giovanile (termine vago, data la prematura morte) “St. Irvyne; or, the Rosicrucian: A Romance”: essa si basa sulle peregrinazioni e gli incontri con un fantomatico alchimista Rosa Croce.

LEGGI ANCHE  Il pensiero abissale: Friedrich Nietzsche e l'eterno ritorno

Dall’altra parte il demone Alastor, dal divin Shelley trasposto in potestà come “lo Spirito della Solitudine” nel giuoco per varcare i mondi, cementò ulteriormente il nome scelto dalla Bestia 666, ovvero una variante scozzese di Alexander, ieronimo con cui metteva in evidenza le sue presunte ascendenze gaeliche. In questo poema, la voce narrante del poeta trova “strane verità in terre sconosciute”, mentre il demone del poeta, Alastor appunto, ispira peregrinazioni al di là della materia, passando sopra le distese della Persia, dell’Arabia, e ancora tra le montagne del Caucaso e del Kahsmir. Tutto ciò deve esser rimasto impresso nel viaggiatore Crowley, proprio per la valenza tutta interiore e misterica di un inabissarsi pel mondo a contatto col proprio demone. Si autonominò “wanderer of the waste”, sempre mutuando la concezione shelleyana di una corsa contro il tempo, la società, le convenzioni, e soprattutto, “the waste”, in lui fu la fine del “residuo” dell’Eone di Osiride…

In De Poetis (Liber Aleph), è chiara l’importanza dei precursori-martellatori alla fine di questo ciclo cosmico [6]:

Per questa ragione il Poeta è detto essere un’incarnazione dello Zeitgeist, cioè dello Spirito o Volontà del suo periodo. Così ogni Poeta è anche un profeta, perché quando ciò che egli dice è riconosciuto dagli uomini come l’espressione del loro stesso pensiero, essi traducono questo nell’atto, cosicché nella parlata del popolo volgare e ignorante, “ciò che egli ha predetto è accaduto”. Ora quindi, il Poeta è l’interprete dei geroglifici della Volontà nascosta dell’uomo in molte questioni, alcune leggere, alcune profonde, come può essere dato a lui fare. Inoltre, non è tutto considerato nella parola di ogni poema che tu puoi cercare questa profezia, ma nel quintessenziale gusto del Poeta. E questa è un’arte estremamente necessaria per ogni statista. Chi se non Shelley predisse la caduta del cristianesimo e l’organizzazione del lavoro e la libertà della Donna? E chi se non Nietzsche proclamò il principio alla radice della Guerra Mondiale? Allora osserva chiaramente che in questi uomini ci furono le chiavi degli oscuri cancelli del futuro; non avrebbero dovuto fare attenzione a ciò, i Re e i loro ministri, adempiendo alla loro parola senza conflitto?

Il romanticismo stesso della Bestia 666 si trova in quella poesia siglata da Shelley dopo la visita a Firenze del 1819, ove agli Uffizi vide la Medusa un tempo attribuita a Leonardo (ora ad un ignoto fiammingo): Nessun quadro fece impressione più profonda sull’animo di Shelley, della Medusa, sottolinea Mario Praz. Nei seguenti versi troviamo un manifesto della sensibilità romantica ormai pronta ad un abbraccio con l’informe e a considerare parametri del bello in una diversa armonia, andando a tastare quei recessi di repulsione fino ad allora proibiti [7]:

Il suo orrore e la sua bellezza sono divini
Sulle sue labbra e sulle sue palpebre posa
la venustà come un’ombra: ne irradiano
ardenti e fosche, le agonie dell’angoscia
e della morte che sotto si dibattono.

E dal suo capo, come se fosse da un sol corpo, sorgono,
pari all’erba da un’umida roccia,
capelli che son vipere, e si attorcono e si distendono,
e intrecciano i nodi tra loro
e in infiniti avvolgimenti mostrano
il loro splendore metallico, quasi a irridere
la tortura e la morte interiori…

Per dirla con Mario Praz, Crowley apprende la bellezza medusea e poi attua alcune metamorfosi di Satana, prendendo a modello il vitalismo e l’energia del Satana di Milton.

Anche su Shelley arrivò lunga l’ombra del “Paradise Lost“, eppure ci tenne a precisare (nella prefazione) come il suo Prometeo sopravanzi Satana, poiché reca l’istanza di un amore verso gli uomini, fattore che nel secondo è assente, mosso dall’orgoglio e dalla competitività. Giove (che rappresenta il Credo e la Corona) viene irriso e detronizzato dallo strenuo ideale di Prometeo, ed infatti utilizza scientemente una licenza rispetto al “Prometeo Liberato” di Eschilo, ove si suppone una riconciliazione tra Giove e la sua vittima. Qui no, nel Poema scritto principalmente sopra le rovine delle Terme di Caracalla, tra quegli archi vertiginosi all’epoca liberamente accessibili giorno e notte, si compie la vittoria del Titano in nome di una umanità libera dal Padre Giove e in possesso di una autonomia normativa, con accesso altresì libero al fuoco animatore, di cui riparleremo a breve.

Il secondo atto è quello che tocca i livelli supremi dell’elevatezza morale: il Titano mostra compassione per le Furie che lo torturano, Il Prometeo-Shelley, nel sommo eroismo dispregia la propria vita materiale, così rispondendo alla Prima Furia: Mio elemento è ‘l dolore, come tuo, l’odio. Laceratemi. Non mi curo. E in questa rivolta radicale contro l’establishment dell’epoca, il vate-titano qui ipostatizzato persevera in tono financo socratico: Io non considero ciò che fate, ma ciò che soffrite, essendo voi cattive. Crudele fu il Potere, che voi e qualunque altro essere così scellerato evocò dall’Erebo alla luce. Nel terzo atto, con la liberazione del mondo si arriva all’apoteosi. Poi, nel finale, i canti corali esprimono questo tripudio, come in un concento sinfonico ove la natura e gli orbi planetari animano la trascendenza e sembrano echeggiare la musica delle sfere.

Jean Delville, Prometheus
Jean Delville, “Prometheus”

II.

Fino ad oggi non ci sono state letture che hanno accomunato due personalità così distinte come quella di D’Annunzio e di Crowley. Eppure la fonte stessa delle loro trasfigurazioni poetiche attinge ad un nome che svetta su quasi la totalità delle loro influenze (accostabile, tra i pochissimi, a Swinburne e a Nietzsche per l’influenza avuta su entrambi).

“Ode To The West Wind” sarebbe da leggere tutta d’un fiato, così come travolse gli Yeats e i Pound, oltre che i d’Annunzio e i Crowley… E sì che ci si faccia vaso e si raccolga alla fine dell’arcobaleno

l’incanto di questi miei versi disperdi
come da un focolare non ancora spento,
le faville e le ceneri, le mie parole fra gli uomini!

Il dardo qui lanciato è la malinconia e la sfida al contempo, il poeta vibra la scossa e lo Spirito selvaggio del Vento Occidentale (tu che dovunque t’agiti, e distruggi e proteggi: ascolta, ascolta!) viene invocato per recare un rinnovamento. Il Vento Occidentale stordisce e permane selvaggio, e i poeti successivi che sentono la possanza sono come lui:

Un’onda palpitante alla tua forza, e potessi
Condividere tutto l’impulso della tua potenza,
Soltanto meno libero di te, oh tu che sei incontrollabile!

Non dimentichiamo poi di guardarci alle spalle di Shelley, oltre i classici e oltre Shakespeare, ove sta lo snodo fondamentale per cui la Tradizione Celeste parlò ai più puri fiori d’Inghilterra: Thomas Taylor, il grande neoplatonico albionico. Shelley avrà letto attentamente un passaggio come questo, molto profondo sulla funzione misterica del titanismo e di Ercole:

Il disegno dei misteri è di riportarci alla perfezione dalla quale, all’inizio, abbiamo cominciato la nostra discesa (κατάβασις)… L’anima discende alla maniera di Kore nella generazione, ma è distribuita nella generazione dionisiacamente; ed è legata nel corpo prometeicamente e titanicamente: si libera quindi dai suoi legami esercitando la forza di Ercole. (Thomas Taylor, A dissertation on the Eleusinian and Bacchic Mysteries)

La concezione prometeica è iniziatica ove agisce potestà di Ercole (la forza che fissa i composti alchimici), ci illustra Taylor, eppure Shelley si spinge ancora oltre e sembra trarre il surplus energetico dall’intervento di Demogorgone, che nel Prometeo Liberato detronizza Giove.

LEGGI ANCHE  La bipolarizzazione sessuale, il “femminile” e l’avvento della corporeità umana
365491bc-ec17-4a25-a278-9fe6facbdc5f_large
William Butler Yeats (1865 – 1939)

Tramite ciò si comprenderà meglio la trasmissione in Blake, Wordsworth, Keats e Byron, fino agli esoteristi e studiosi successivi (dalla Blavatsky a Yeats), che si rifecero alle sue interpretazioni della spiritualità antica. Le riflessioni di Yeats in “Per Amica Silentia Lunae“, sono figlie di questa tradizione e di un rovello sapienziale:

Quando penso che Shelley (Adonais, stanza LIV) chiama la nostra mente “lo specchio del fuoco che ci asseta“, non posso fare a meno di chiedermi quello che già in molti si sono chiesti: “Chi o che cosa ha infranto lo specchio?”. Inizio con lo studiare la sola persona che mi è dato conoscere, me stesso, e riavvolgere il filo intorno alla spola…

E ancora il grande bardo irlandese:

Il Sé Universale è una fontana, non una cisterna, il Bene Supremo deve donarsi perpetuamente. Il mondo è necessario al Sé, e in quel Sé sono presenti tutti i sé liberati, che ordinano tutte le cose, dalla Stella Polare al vento che passa. Essi sono certamente gli spiriti che Shelley immaginò visitare, nel suo Adone, l’ispirato e l’innocente. (Appunti sulla Māṇḍūkya Upaniṣad)

In Italia ci furono un paio di altri poeti, particolarmente vicini al Prometeo inglese: Carducci e Rapisardi. Il primo, assai distante da chiavi interpretative dannunziane, si accompagnò allo spirito di Shelley in “Alle fonti del Clitumno”, “Canto dell’amore” e “Presso l’Urna di Percy Pysshe Shelley”. In quest’ultima (nelle Odi barbare) immortala l’inglese come “poeta del liberato mondo”, “spirito di titano / entro virginee forme”.

Shelley è un contemplatore della natura e ne trae materia poetica, e ciò fa sorgere un paragone, alla penna del Carducci, per quel tratto pre-nietzscheano d’innocenza del divenire:

L’oggettività in lui è quanto in Goethe, con questa differenza che nel tedesco prevale l’intelletto dell’uno e dell’io, nell’inglese quello del tutto e dell’altrui.

Carducci intuisce quel che d’altronde fa innamorare il Vate, ovvero che Shelley è troppo classico per gli italiani dell’Ottocento, quindi poco letto, seppur molto sbandierato. Inoltre ravvisa una questione fondamentale, che eleva le interpretazioni:

Per lo spirito e il pensiero egli procede dalla filosofia del secolo decimottavo e dalla rivoluzione; ma l’iniziale materialismo di Holbach trascende in lui per le spire del sistema spinoziano a un panteismo che sale di grado in grado illuminandosi a un raggio di purità divina

A ciò aggiunge un paragone proveniente senza meno dal mondo massonico [8]:

Il socialismo suo sta in vetta alla sua altissima idealità: come il mistico uccel pellicano, egli sbranasi con la forza del genio il giovine petto, e versa a fiotti il sangue della sua poesia ad abbeverare il secolo arido[9]

Ma la prima versione del Prometeo Liberato si ebbe solo nel 1892, per mano di Mario Rapisardi, poeta fortemente polemico con lo stesso Carducci (reo a suo dire di un certo conformismo e di un appiattimento dei furori “satanici” e socialisti della prim’ora) e vivace accentratore delle istanze anticlericali e repubblicane. Parliamo di un altro emulo, memore ancora della ribellione miltoniana, e in ciò ammantò di un certo qual fascino il suo “Lucifero”.

Se il Prometeo è da intendersi come liberatore dell’individuo nel suo autodeterminarsi, è altresì nella riapertura di possibilità dimenticate, che si dà questa possibilità: non è ripartendo dalla filosofia di una liberazione (la fase passiva della libertà…) – da vincoli (l’opposto della vera libertà come conquista interiore) che si diedero la bellezza medusea e gli aneliti di una rivolta contro il marcescente mondo intorno ai Lumi (non importa nemmeno quanto pro o contro, essendo manifestazione e sintomo di un processo storico ormai terminato). Shelley è l’apoteosi della funzione del Vate nel mondo moderno, per una visuale olimpica, la sua libertà è quella di chi nel deserto conquista la propria oasi.

Famoso lo stato ideale del Prometeo: un azzeramento, una tabula rasa epperò non da considerare come una licenziosa macchietta che si bea di ateismo e socialismo, non almeno nella valenza di queste parole al giorno d’oggi. Per lo Shelley designavano primariamente uno stato di rivolta, sì di rivolta in nome di una grecità nel sangue vissuta. Il Prometeo che lui fu si arrocca e poi lancia segnali, e in quella ripartenza senza connotati civili e religiosi tra le righe comanda una libertà più grande e definitiva. Poiché Prometeo è ribellione all’esistente, anche e soprattutto contro la finitezza, la forma di ateismo di Shelley essendo non l’assenza del divino, ma una profonda e netta avversione pel principio creazionistico. A suo modo sfociò dunque in un deismo emanazionistico.

Franz-von-Stuck-Testa-di-Medusa-1892-ca.
Franz von Stuck, “Testa di Medusa”

III.

In cauda, una considerazione supplementare. Figlio del titano Giapeto e dell’oceanina Climene [10], Prometeo meravigliò Minerva per la propria abilità nel formare l’uomo dal fango. Infatti ella lo fece ascendere al Cielo, affinché potesse scegliere un dono, ma tra tutti scelse di prelevare una scintilla dal Carro del Sole, in modo da portare il fuoco animatore sulla terra. Zeus decise così di punire l’autore del furto, insieme a tutto il genere umano. Robert Graves, nel suo scrigno di segreti “I Miti Greci” nota opportunamente un parallelo [11]:

Nella versione talmudica della creazione, l’arcangelo Michele (che corrisponde a Prometeo) crea Adamo dalla polvere non per ordine della Madre di Tutti i Viventi, ma per ordine di Geova. Geova poi soffia in lui la vita e gli dà come compagna Eva che, simile in ciò a Pandora, apporta sciagure al genere umano.

Orbene, se anche ammettessimo una lettura solo orizzontale della consequenziale libertà dai dogmi e la facessimo sostare tra le nostalgie di un autentico socialismo, tuttavia non sarebbe ammissibile limitarsi a concepire il fuoco del ratto dal punto di vista meramente elementare. Evidenza suggerisce un furto molto più profondo [12]:

Fuoco celeste, quando si tratta di Scienza Ermetica, è il mercurio dei Filosofi. In fisica è il fuoco solare.

Il fuoco sacro inteso come tra i Caldei, che nella città di Ur mantenevano un fuoco perpetuo, quando invece i persiani avevano i Pirei, templi destinati a conservare unicamente il fuoco sacro. Se vogliamo stringere il significato, andremo sul Gruppo di Ur, precisamente a Giulio Parise, ieronimo Luce [13]:

È opportuno accennare, tra i moltissimi simboli che al fuoco si riferiscono, quello analogico dell’ignis centrum terrae, il fuoco centrale, comune ad ogni tradizione.

L’elemento fuoco è il più importante in quanto purifica, eleva, trasmuta ogni altro composto interno dell’uomo, ignis sacer si accende solo quando la parte più elevata del piano intellettuale si apre, ed infatti, all’Opera del Fuoco ci si riferiva nell’azione teurgica dei magi caldaici [14].

LEGGI ANCHE  Da Pan al Diavolo: la 'demonizzazione' e la rimozione degli antichi culti europei
Tomba Shelley
La tomba di P.B. Shelley

Quello che Prometeo porta tra gli uomini è quello che Shelley non smette di trasmettere con la sua testimonianza. Oggi stiamo celebrando il suo passaggio terreno e al contempo il suo lascito enorme, alcune personalità ci hanno dato spunti per perpetuarne la memoria, ora però lo sguardo volge tra Viareggio e Lerici, lì nella beneamata “Baia dei Poeti”. Oggi come ieri.

Siamo a lunedì 8 luglio 1822, il cielo si annuvola, ma la brezza sembra spirar benigna pel ritorno a Lerici, dopo una gita a Livorno. Tra l’una e le due il battello lascia il porto e resta visibile fino a 10 miglia verso Viareggio, dopodiché dispare nell’infittirsi del plumbeo temporale estivo. La moglie Mary e Giovanna Williams vegliano, nell’ansia chiedono notizie a Byron e Hunt a Pisa, per sapere se il battello possa esser stato sospinto verso la Corsica o l’Elba. Tornano a Lerici, mentre Trelawny promette di cercare in direzione di Livorno, il quale la sera del 19 luglio torna e fuga i dubbi: li hanno trovati annegati lungo la costa. Si riconosce Shelley per la figura slanciata e pei volumi di Sofocle e Keats raggomitolati nei vestiti. Per la legge della quarantena del 1822, i cadaveri restano sotto la calce viva nelle sabbie, e solo per un permesso speciale si esegue la cremazione. Ad assistere si notano Byron, Hunt (il cui arrivo in Italia aveva donato tanta gioia a Shelley) e Trelawny, il quale toglie il cuore del poeta dalle fiamme (leggenda vuole che non volesse bruciare), mentre vengono raccolte le ceneri. L’urna è interrata nel Cimitero dei Protestanti di Roma, ove riposa già il figlio. Mary gli sopravviverà trent’anni, fino al 21 febbraio del 1851. 

Oltre a certe suggestioni non solo letterarie, l’influenza dello Shelley più recondito si avrà proprio sul capolavoro della moglie. Lo scienziato Victor Frankenstein è infatti totalmente imbevuto di autori a lui molto cari, recepiti dalla moglie e cuciti su misura nella missione di “penetrare i segreti della Natura”. Una Natura da manipolare sempre prometeicamente (titolo completo “Frankenstein – or the Modern Prometheus”), in un accordo perduto di scienza e magia, in una curiosità d’indagine sperimentale che non può essere ristretta ad un campo soltanto. Agrippa, Alberto Magno e Paracelso sono i Numi tutelari del protagonista: i tre sapienti rinascimentali ricorrono anche nella corrispondenza con il precursore dell’anarchismo, il suocero William Godwin, ispiratore di opere come il “Prometeo Liberato” e “La Rivolta dell’Islam”.

La polvere del tempo passa, gli esperimenti falliscono e nuove genìe sorgono, c’è chi permane in piedi sopra le rovine, mentre altri assecondano la distruzione. Tra tutti costoro uno sguardo va sempiterno a quei colossi di Ramses II e in quell’apogeo egizio Shelley indica la nostra caducità:

Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine.
(Ozymandias)

Vano domandare e vaticinare, ci dice nell’ “Inno alla Bellezza Intellettuale”:

Nessuna voce, da un più eccelso mondo, ha mai
dato risposta a tali domande del saggio e del poeta
laonde i nomi di Demonio, Fantasma e Cielo
rimangono testimoni del loro vano sforzo:
incantesimi frali, il cui magico accento non giova
a scevrare da tutto quel che si vede e si ode
il dubbio, il caso e l’instabilità.

L’epifania dell’esistenza si ode attraverso la quantità di bellezza volta nelle opere:

La tremenda Ombra d’un invisibile Potere
fluttua, pur invisibile, tra noi
percorrendo questo vario mondo sopra ala lievissima,
da somigliar quella de’ venti estivi che trasvolano di fiore in fiore.

Attingere il corpo pulsante che trasvola ombra distesa sul globo, è rinascere nello Spirito della Bellezza: tale culto sarà riacceso costantemente, fino ad un successivo e palingenetico ratto del Fuoco.

Il colosso di Ozymandias presso il Ramesseum di Ramses II Necropoli di Tebe
Il colosso di Ozymandias presso il Ramesseum di Ramses II Necropoli di Tebe

Note:

[1] Nella versione di Carmelo Bene, data per il suo spettacolo teatrale

[2] Gabriele d’Annunzio – Lavs Vitae, in  “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, Libro Primo – Maia”

[3] Giorgio Colli – Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974, p. 174

[4] Capitano del genio navale, morto durante l’inaugurazione dell’idrovolante (progettato per fronteggiare gli austro-ungarici)  insieme a Luigi Bresciani

[5] Giuliano Kremmerz, La Scienza dei Magi – Volume IV, Mediterranee, Roma, 1993, p. 40

[6] Edito da S.O.T.V.L. Traduzione di Marzio Forgione

[7] Il commento di Praz e la poesia “On the Medusa of Leonardo da Vinci in the Florentine Gallery” (ritrasposta in rima dall’autore dell’articolo) si trovano in – Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze, 1976, p. 19

[8] Cfr. il simbolismo di caritas  insito nel Pellicano e il grado 18 del Rito scozzese antico e accettato: Sovrano principe Rosa-Croce o cavaliere dell’aquila e del pellicano

[9] Sono tutte citazioni presenti nella Prefazione al Prometeo Liberato che Carducci scrisse il 13 gennaio 1894, in Giosuè Carducci – Prose, Zanichelli, Bologna, 1954, pp. 1245-1246

[10] Esiodo, Teogonia 507

[11] Robert Graves, I Miti Greci, Longanesi, Milano, 1993, p. 28

[12] Dom Antoine Joseph Pernety, Dizionario Mito-Ermetico, Rebis, Viareggio, 2019, p. 172

[13] Luce – Opus Magicum: Il Fuoco, in “Introduzione alla Magia – a cura del Gruppo di Ur”, Vol.I, Fratelli Bocca Editori, Roma, 1955, p. 53

[14] Cfr. l’introduzione d iAngelo Tonelli agli Oracoli Caldaici, Classici Bur, Milano, 1955, p. 5


3 commenti su “Percy Bysshe Shelley: Prometeo nel Vento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *