La Māyā: una comparazione tra lo Śivaismo non-dualista kashmiro e l’Advaita-Vedanta sankariano

Il presente saggio si propone di indagare, attraverso un’indagine comparativa, la consistenza che assume la māyā nella dottrina upaniṣadica dell’Advaita-Vedanta sankariano e nelle tradizioni śivaite non-duali sviluppatesi nella regione del Kashmir, in particolar modo faremo riferimento alla posizione espressa nel Tantrāloka di Abhinavagupta e negli Śivasūtra di Vasugupta.


di Claudio Capo

Dalla prospettiva sankariana l’osservazione della realtà fenomenica è determinata da uno sguardo che tende a descrivere l’universo manifesto come irreale dotando di significato unicamente il Brahman; oltre a questo altro non vi è nulla che sia connotato come Reale. Per Śaṅkara l’apparente realtà non è nient’altro che “gioco” divino (līlā) senz’alcuna finalità estrinseca [1]. Nello sivaismo non-duale kashmiro, invece, la realtà viene riempita di significato in quanto dovuta alla volontà stessa di Śiva. Tuttavia questa viene considerata come illusoria in quanto la Realtà Assoluta non viene colta nella sua forma originale, ma attraverso lo schermo del sensibile e delle potenze offuscatrici dell’Io puro, che creano e sorreggono il mondo sensibile [2].

Nella tradizione śivaita non-dualista espressa nel Tantrāloka, Abhinavagupta – il più noto esponente dello sivaismo kashmiro – si pone come continuatore della dottrina del Riconoscimento (Pratyabhiñā) iniziata da Uptaladeva all’interno della quale si indica una Via che pone al centro lo sforzo verso il riconoscimento dell’identità dell’individuo con il Signore Supremo: il mondo e la molteplicità sono espressioni di Śiva il quale si realizza nelle pienezza della sua libertà proprio attraverso la pluralità dei fenomeni. Tutto ciò che vediamo come duale, in realtà non è che Śiva stesso. Questa identità, tuttavia, non è normalmente resa manifesta a causa della forza produttrice della realtà sensibile (māyā) che permette all’Io, il pensiero, di offuscare se stesso.

Per Abhinavagupta, infatti, la Realtà Assoluta o Coscienza è unica e onnicomprensiva. Essa, come tale, appena cade sotto il nostro conoscere discorsivo non può essere colta nella sua interezza, ma ci si articola davanti in una molteplicità di aspetti apparentemente distinti e, secondo le esigenze del momento e del discorso, sceglieremo questo o quello, isolandolo necessariamente dagli altri elementi [3].

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Śiva è presente in tutte le creature; chi è offuscato, tuttavia, non lo vede. Il mondo sotto il giogo della māyā è rappresentazione molteplice. Questa viene presentata come la causa per cui soggetto fruitore e oggetto fruito appaiono come distinte proiezioni di una realtà che è essenzialmente una e che le sintetizza. Questo principio viene espresso in una formula così elaborata da Vasugupta [4]:

“Il sé è un danzatore. Il sé interiore è la scena. I sensi sono gli spettatori.”

Il Sé manifesta, con il libero gioco dei suoi movimenti, tutta una varietà di figure di cui la sua natura più nascosta ed interiore rimane ultimo sostrato. Tutti gli stati di coscienza mondani sono danze del Sé. Il Signore Supremo è chi, consapevolmente, mette in scena il dramma del mondo. Non soltanto il Sé è danzatore ma comprende al suo interno anche il luogo dove il Sé danza e si colora nell’intento di dispiegarsi attraverso il libero gioco (līlā). La scena è il principio individuale (jīva) dove il Sé si stabilisce e rappresenta il mondo manifesto. Vasugupta conclude infine affermando che gli occhi dei sensi volgendosi all’interno sono in grado di percepire la vera natura del Sé che si diletta nella danza. Scomparsa ogni divisione che rappresenta il rafforzarsi della rappresentazione avviene un vero e proprio svuotamento delle rappresentazioni mentali e si realizza, così, lo stato pienamente libero: svātantrya.

Raggiungere la Realtà Assoluta vuol dire sintonizzare la “corde” del Sé realizzando la vera natura di Śiva che costituisce la consapevolezza di fondo di tutti gli stadi della coscienza non mondani. L’avere una visione equanime (samānadī) equivale a individuarsi come Śiva senza secondo. Viene così scoperto che la natura ontologica del Sé corrisponde a quella di Śiva stesso, e che questa contiene la pluralità dei fenomeni apparenti: fruitore, fruizione e fruito coincidono e si risolvono nella della non-dualità.

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Per i Tantra, il mondo della contingenza – afferma Padoux – non è irreale, dal momento che è una creazione divina, ma ha solo una realtà relativa, empirica: consiste di immagini che la Coscienza divina proietta su sé stessa in un’apparizione luminosa (ābhāsa), come su uno schermo, o come un riflesso su uno specchio. Il mondo è così una manifestazione della divinità che lo anima e penetra completamente [5]. Se l’individuo muta il proprio essere, allora percepirà la stessa realtà, che prima percepiva in modo offuscato e caotico, nella sua vera forma. Ragion per cui non esiste un mondo relativo e un mondo assoluto, ma una posizione del soggetto che si consideri assoluta ed una che si consideri relativa. Per tanto i momenti distinti non sono affatto irreali, tutt’altro. Questa molteplicità e queste distinzioni sono reali nella misura in cui rappresentano lo stesso attuarsi della coscienza come unità ed identità.

Nelle dottrine metafisiche śivaite non-duali la manifestazione di Śiva, nella quale si articola il cosmo, viene classificata in base ad un sistema di trentasei principi organizzati in maniera gerarchica e verticale (tattva). Nella coppia al vertice del Sāṃkya (sistema filosofico che propone un secco dualismo di venticinque categorie che, però, nelle dottrine non-duali śivaite è superato e rielaborato) vengono presentate due massime categorie poste l’una accanto all’altra. Nello Spirito (puruṣa) vi è rappresentato ciò che illumina, priva di contenuto, fuori dai nessi di causali, nella Natura (prakṛti), invece, si dispiegano tutti gli elementi costituenti la manifestazione a partire dall’intelletto (buddhi) fino al principio più tellurico posto alla base del sistema, la terra (pṛthivī).

Nella costruzione di senso non-duale queste due massime preposizioni, non vengono rappresentate su di uno stesso piano orizzontale e distinto, ma vengono sovrapposte ed oltrepassate: la Natura viene posta in subordinazione allo Spirito il quale non rappresenta più la Pura Coscienza, e a sua volta viene trasceso dalla Realtà Assoluta. In altre parole, ciò che nel Sāṃkya è coordinato, nella trattazione śivaita viene subordinato: prakṛti diventa una premessa per giungere fino al puruṣa. Le due dimensioni dello Spirito e della Natura vengono ridotte a tattva modificando, così, strutturalmente il sistema del Sāṃkya.

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Sopra lo Spirito vi sono i fattori della sua limitatezza, le corazze (kaṅcuka) che formano la “pelle” del puruṣa. Queste, simultaneamente, mettono in contatto con ciò che vi è oltre, e limitano la relazione con i principi superiori, impedendo così di trascendere immediatamente le categorie che la māyā produce. Le corazze agiscono come trait d’union tra la sfera puramente materiale e quella spirituale. Superata la māyā troviamo il “cammino puro” – non da intendere né in senso moralistico né in senso ritualistico, ma solo come enunciazione dei principi che valicano il sistema del Sāṃkya – che conduce a śiva-śakti dove il primo rappresenta la Pura Coscienza, la condizione irrelata ed eternamente libera, la seconda, invece, è l’esplicarsi di questa stessa coscienza e di questa stessa libertà in un’espressione dinamica ed energetica.

Se si procede in una direzione vettoriale discendente, questa stratificazione rappresenta il movimento emanatore della divinità; procedendo in senso inverso, questa delinea il riassorbimento del cosmo nei principi divini. L’uomo che segue la Via proposta dai Tantra – afferma Padoux – non è liberato in quanto ha abolito il mondo della manifestazione, ma perché ha imparato a viverlo come la forma reale in cui la divinità-energia liberamente si manifesta [6].

Śiva è luminoso indipendentemente dal fatto che illumini qualcosa (prakāśa), dipende solo da sé stesso (svātantrya) ed è caratterizzato da una libertà incondizionata che si espande continuamente. Tuttavia, la sua assoluta libertà coincide – tra le tante cose – anche con la possibilità di non essere libero: il dipendere totalmente da sé si realizza eternamente con la scelta di non essere libero. L’attuazione di questa massima espressione di libertà consiste nel posizionare un’alterità che lo rende non più totalmente libero. Questo porre un altro da sé si personifica nella Potenza (śakti). Śiva è talmente libero da porre un altro sé stesso. Tutto ciò che apparentemente sembra distaccato da Śiva a causa dell’opera di offuscamento della māyā non è altro che lo stesso dio che pone la condizione della sua limitatezza con un atto di estrema libertà.

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Shiva

Dunque, per le scuole śivaite non-duali le cose intorno a noi altro non sono se non immagini (ābhāsa), libere manifestazioni della forza dell’Io che attraverso di esse si esprime e si identifica quando non ha realizzato la comunione in Śiva. Il soggetto limitato, infatti, si identifica costantemente con le produzioni delle immagini. Questa identificazione dell’Io è dovuta al potere offuscante della māyā. Tra l’individuo e l’esperienza della luce si frappone una specie di schermo che offusca nell’apparenza la totalità. Questo schermo non è un’entità a sé stante, non è quindi scissa dalla prakāśa stessa ma, di contro, è la rappresentazione della stessa libertà della coscienza che vela se stessa a se stessa. Tutto questo è māyā. 

Vasugupta afferma che il Sé è Coscienza [7], questa precede il mondo manifesto poiché, la percezione – che è alla base del mondo – è resa possibile solo laddove ci sia la luce della coscienza ad illuminarne le forme. È dall’anima individuale che ha origine la percezione e, di conseguenza, è questa che dà sostanza al tutto, è da questa che sorge ogni cosa. A presentarsi come realtà fruibile è sempre è solo il fruitore. Rendendo il concetto plastico [8]:

“Uno può cercare quanto vuole di oltrepassare col piede l’ombra del capo, ma l’ombra del capo sempre sopravanzerà la posizione del piede: lo stesso vale per la Coscienza suprema. ”

Prima della manifestazione dell’universo nella forma in cui viene percepito dai nostri sensi, il principio dinamico di Śakti e quello statico di Śiva non erano differenti essendo l’uno l’altra e viceversa. In una fase successiva viene offuscata la Realtà Assoluta a causa della māyā che produce la posizione del soggetto dell’esperienza e quella l’oggetto esperito.

Tuttavia l’Io partecipa a questa realtà, ma lo fa in maniera personale e con un atteggiamento dovuto alla conoscenza limitata. I testi tantrici, per tanto, pur classificando lo stato di coscienza mondana come una “caduta” nello spazio e nel tempo, parziale ed ingannevole, non precludono che l’individuo possa risalire la china e pacificarsi con la Realtà Assoluta proprio attingendo da quei principi che riempiono il mondo fenomenico: mokṣa e bhukti sono inseparabili.

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Śaṅkara

Se per i Tantra non-dualisti la diversità ontologica tra Sé personale e Śiva sarebbe solo apparente, ma reale nella misura in cui, ignorando ciò, si è percettori del mondo e fruitori della manifestazione, la dottrina di Śaṅkara arriva a sostenere l’esistenza di una sola realtà indifferenziata che è quella del Brahman. La māyā – per tanto – non rappresenterebbe un qualcosa di illusorio da oltrepassare con i mezzi che questa mette a disposizione, ma del tutto irreale e priva di significato. Per Śaṅkara né il dharma, né l’azione rituale né – tantomeno – la mistica devozionale assurgono ad un ruolo soteriologico. Solo mediante un atto di conoscenza (jñana) si può riconoscere la vera natura del Reale e del Brahman. Per tanto, si tratta di una relazione di perfetta identità, senza residui, non è supponibile che l’atman sia parte del brahman, in quanto in un essere puramente spirituale non sono possibili divisioni di sorta [9].

“La rivelazione sacra afferma che il brahman privo di distinzioni consta soltanto di spiritualità ed è senza ogni altra caratteristica distintiva: come un blocco di sale non ha un interno o un esterno (distinguibili), ma è solo un blocco di sapore salato, così neppure questo atman ha un interno e un esterno, è soltanto un blocco di coscienza. Ciò significa: questo atman non ha né dentro né fuori altra proprietà che la spiritualità, la spiritualità è la sua natura esclusiva, così come il blocco di sale, dentro e fuori, ha soltanto un sapore esclusivo di sale” [10].

Śaṅkara, nell’Advaita-Vedānta propone un sistema metafisico indirizzato verso la “conoscenza disidentificante” [11] la quale sembra delineare l’esistenza di una sola realtà che è identificata nel Brahman e si legittima come presupposto della soggettività dell’atman. Una volta entrati in possesso della conoscenza dell’irreale autonomia dell’anima individuale, tolta la falsa identificazione con l’agente, si capisce di non essere mai stati tali. A legare i due principi dell’atman e del brahman ci sarebbe un nesso di totale somiglianza, non essendoci differenze ontologiche – infatti non si può parlare tout court di due soggetti estranei e distinti. Non è supponibile che l’atman faccia parte del brahman in quanto, il primo, non esisterebbe se non a causa dell’ignoranza (ajñana) che occlude la Realtà Assoluta di Brahman. A tal proposito Franci [12]:

“Le grandi fasi della saggezza upaniṣadica sono da intendere nel senso che l’identità è valida in quando «tu» o «io» si siano liberati da ogni vincolo o da ogni convinzione che lega all’ordine contingente. Se esiste una realtà unica spirituale, il mondo non è il reale: questa posizione è stata espressa poi nel detto popolare «brahman è il reale, il mondo è falso».”

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Il mondo in sé avrebbe una sua reale consistenza empirica, gli eventi che lo caratterizzano sono retti su nessi spazio-temporali ben definiti e validi, tuttavia, una volta riconosciuta l’intrinseca complementarità con il divino, questi, si dissolverebbero a favore di un’identificazione completa con la Realtà Suprema. In altre parole l’atto della percezione non è irreale, è irreale ciò che viene percepito.

Sono compresenti in Śaṅkara due dimensioni che sono solo apparentemente contraddittorie ed escludentesi. La dimensione che prevede una netta distinzione tra “Io” e il ‘Tu” e basata su di un nesso di separazione tra la creatura ed il creatore non preclude l’esistenza di una dimensione di infinito che è insita nella natura della creatura stessa e che è ciò che viene fatta emergere è una dimensione di possibile immortalità: la māyā in Śaṅkara è pura irrealtà, il mondo fenomenico non esiste, ma viene percepito a causa dell’ignoranza.

La separazione tra il brahman (l’unica essenza della Realtà) e l’atman (posizione di progressiva presa di coscienza della Realtà Assoluta) è una condizione parziale. Una volta realizzata l’intima identità viene rimosso l’atto del conoscere discorsivo, ovvero la separazione tra oggetto della conoscenza e conoscitore viene contemplata la conoscenza totale.


Note:

[1] A. Rigopolus, Hinduismo, Queriniana, Brescia 2005, p. 250

[2] Abhinavagupta, Luce dei Tantra, Introduzione di Raniero Gnoli, Adelphi, Milano 1999, p. XXXI

[3] Ivi, p.L.

[4] Śivasūtravimarśinī, III, 9-11

[5] A. Padoux, Tantra, Einaudi, Torino 2011, p. 86

[6] Ivi, p. XV

[7] Śivasūtravimarśinī, I, 1

[8] Vasugupta, Gli aforismi di Śiva, Adelphi, Milano 2013, p. 99

[9] G. R. Franci, La bhakti, Unicopli, Milano 2020, p. 82

[10] Bṛhad-āraṇyaka-upaniṣad, IV, 5, 13

[11] G. R. Franci, La bhakti, Unicopli, Milano 2020, p. 10

[12] Ivi, p. 82


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