Virus, vampiri e zombie: il tema della pandemia nel Fantastico moderno

Già presente in opere classiche come l’Iliade e il Decameron, il tema dell’apocalisse pandemica è stato sfruttato e indagato negli ultimi secoli soprattutto nell’ambito del Fantastico, nella narrativa come nel cinema: da E.A. Poe a Conan Doyle, da Meyrink e Lovecraft a Richard Matheson e Stephen King; e ancora, sul grande schermo, da registi del calibro di Bergman, Romero, Carpenter, Cronenberg e Gilliam.


di Jari Padoan
copertina: “The Masque of the Red Death”, Roger Corman, 1964

L’impatto dell’epidemia mondiale di covid-19 e del conseguente terrore del contagio che ha segnato questo 2020 ha rappresentato, in ogni caso (compresi i profondi effetti di psicosi di massa), un brutale ritorno del rimosso collettivo per l’uomo moderno occidentale: quello della consapevolezza della sua finitudine e del confronto con un nemico invisibile.

Fin dai suoi albori l’umanità ha dovuto coesistere con lo spettro delle epidemie, e se dai millenni che hanno preceduto l’invenzione della scrittura non sono pervenute testimonianze dirette sulla questione, la tragica esperienza delle malattie endemiche e la minaccia del contagio ispirano dolenti note fin dai primordi della letteratura occidentale: lo stesso esordio dell’Iliade lamenta da subito gli orrori del «morbo maligno» scatenato da Apollo sull’esercito acheo per le intemperanze religiose di Agamennone; molto più tardi, sempre in terra ellenica, uno storico come Tucidide descriverà la peste di Atene del 430 a.C. (e il terrore della suddetta, al quale viene imputata la vera causa della rovina della città). Secoli dopo, verso il tramonto del Medioevo italiano, anche il Decameron di Boccaccio immortala la leggendaria, devastante Morte Nera del 1348, per quanto posta, smorzata e distante, sullo sfondo della cornice narrativa.

Gli illustri casi citati sono soltanto alcuni tra i più celebri, per non dire archetipici, tramandati dalla grande letteratura, e non sorprende come uno dei più profondi terrori dell’uomo sia divenuto una tematica ricorrente tanto nell’ambito della letteratura realista quanto nei testi religiosi (ad esempio anche nel corposo canone biblico giudaico-cristiano si hanno vari riferimenti a pestilenze assortite, siano esse avvenute o prossime venture, come quelle evocate dall’Apocalisse di Giovanni) o nei classici poetici, fino a ritornare puntualmente nella moderna narrativa dell’Immaginario e del cinema fantastico, attraverso i quali è stata presentata ed esaminata in innumerevoli variazioni.

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Da Poe a Conan Doyle

In questo senso, uno dei primi nomi in assoluto che viene in mente, all’interno dell’intera letteratura moderna, è naturalmente quello di E.A. Poe. Nello stesso XIX secolo che vede l’uscita de I promessi Sposi, in cui Alessandro Manzoni restituisce l’epico ritratto della peste che devastò Milano duecento anni prima (attribuendo però all’evento un ruolo di primo piano come manifestazione di quel Male necessario al Bene, attuato dai disegni della Provvidenza cristiana), lo scettro di primo grande cantore dei terrori del morbo va di certo anche al bostoniano Maestro del brivido, grazie a racconti come The Masque of the Red Death (1845) e il proto-fantascientifico The Colloquy of Eiros and Charmion (1839). L’ingegno acuto e abissalmente inquieto di Poe non può che spingere alle estreme conseguenze il contesto del tema epidemico, raggiungendo i risultati foschi ed agghiaccianti, divenuti ormai proverbiali, a cui ci ha abituato la sua opera.

Nel primo, celeberrimo racconto, il lettore viene inchiodato alla poltrona dalla breve e terrificante storia di come la Pestilenza in persona, in una orribile forma umana, si introduce al ballo in maschera del principe Prospero. In Eiros e Charmion, invece, vengono narrate a posteriori, da due anime disincarnate, le terribili cronache che portarono il genere umano all’estinzione, dopo la catastrofe ambientale causata dalle polveri cosmiche diffuse nell’atmosfera terrestre dal passaggio di una enorme cometa.

Come in pressoché tutti i suoi più celebri racconti dell’incubo, nei quali i protagonisti sprofondano nelle tenebre della follia o dell’ignoto assoluto (fa eccezione forse The Premature Burial con il suo “lieto fine” più unico che raro), Poe ci descrive l’epidemia come una sovrumana condanna senza appello, un castigo divino dalle malsane tinte purpuree oppure in forma di abbacinanti bagliori cosmici: comunque si manifesti, per Poe il Morbo conduce il mondo come noi lo conosciamo ad una inevitabile fine. Non va però dimenticato che accenni al tema si ritrovano anche nell’ironico e futuristico Mellonta Tauta, ovvero «sono prevedibili queste cose». Il racconto (pubblicato da Poe nel 1849, poco prima della scomparsa), è ambientato in un XXIX secolo in cui le vestigia della nostra società attuale non rappresentano niente più che una confusa memoria storica.

L’angosciante tema della pandemia sarà ripreso, agli inizi del secolo successivo, da uno dei più grandi e celebri epigoni di Poe ovvero sir Arthur Conan Doyle. Il creatore di Sherlock Holmes fu anche autore di una vasta e notevole produzione di narrativa fantastica, e scrive infatti nel 1913 il racconto lungo The Poison Belt (La nube avvelenata), secondo capitolo delle avventure del professor Challenger e dei suoi compari, già protagonisti del celebre romanzo The Lost World risalente all’anno precedente.

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Anche nel racconto di Conan Doyle, la minaccia è rappresentata da una enigmatica nube cosmica le cui radiazioni raggiungono la Terra, scatenando l’avvelenamento di intere nazioni. Si tratta in realtà di un disastro epidemico non così preoccupante, in quanto il gruppo dei “sopravvissuti” scopre con meraviglia e sollievo che l’effetto del misterioso gas spaziale sulle masse è stato in pratica quello di una potente e temporanea catalessi. Con il termine di questa e la rimessa in sesto dell’intera umanità si chiude il racconto, in un finale opposto e decisamente positivo rispetto a quelli delle storie di Poe.

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Meyrink e Lovecraft

Nello stesso periodo, il tema è trattato anche da Gustav Meyrink attraverso il suo particolare Fantastico foriero di autentiche simbologie occulte e carico di sardonico umorismo. In Der violettetod (La morte viola), breve racconto dagli inquietanti e grotteschi toni “esotici”, l’autore del Golem narra di un incauto esploratore inglese che raggiunge con il suo servitore remote e sconosciute propaggini dell’Himalaya, in cui una sinistra setta tibetana custodisce l’antico segreto della «morte viola». Una volta rivelato tale segreto, il mondo è nei guai. Le misteriose esalazioni dalle tinte violacee liberate dal perduto recesso tibetano si diffondono per la Terra, provocando spaventosi fenomeni: se moltitudini di persone si inceneriscono in combustioni spontanee, il resto dell’umanità si ritrova inspiegabilmente privo del senso dell’udito (un effetto di degenerazione sensoriale che ricorda quello che narrerà, molti decenni dopo, José Saramago nel suo romanzo Cecità del 1995). Una scomoda condizione che, conclude beffardamente Meyrink, «aveva fatto scivolare Bach, Beethoven e Wagner nel dimenticatoio»!

Analoghi riferimenti alle plaghe sconosciute d’Oriente e a tempi e luoghi ben più remoti, da cui proviene una spaventosa «febbre nera», si ritrovano in The Last Test (edito in Italia come L’ultimo esperimento) del grande maestro dell’orrore del XX secolo, H.P. Lovecraft.

Il racconto, scritto nel 1928, presenta il dottor Alfred Clarendon, insigne batteriologo e drammatica figura di mad doctor in combutta indiretta con gli abominevoli Grandi Antichi. Una collaborazione sconsigliabile che avviene, anche in questo caso, con la mediazione di una misteriosa congrega asiatica (singolare coincidenza con il racconto di Meyrink; che HPL fosse rimasto colpito dal racconto dello scrittore viennese?): è a causa dei suoi accoliti che si diffonderà per San Francisco la terribile e letale febbre polmonare proveniente «dalle regioni oscure aldilà delle stelle». Originariamente nato, come vari altri racconti di Lovecraft, da una revisione di manoscritti altrui, The Last Test è una tra le più articolate storie scritte dal Gentiluomo di Providence, che descrive potentemente l’abisso di «orrore cosmico» in cui viene precipitato il dottore, i famigliari che tentano inutilmente di allontanarlo dalle sue invereconde ricerche, e l’intera città, con effetti davvero inquietanti per il lettore del 2020: panico mediatico, strade desolate, chiusura progressiva di qualsiasi locale pubblico…

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“Il Settimo Sigillo” di Bergman

Lo spettro dell’epidemia ritorna puntualmente come colonna portante di varie opere anche nella seconda metà del Novecento. E ci si stupirebbe del contrario, dopo lo svolgimento di una apocalittica guerra mondiale e un nuovo clima di costante tensione internazionale su cui si profila, come una planetaria spada di Damocle, la minaccia della guerra atomica. In questa chiave si può leggere la minaccia della pestilenza che opprime la Svezia medievale ritratta in Il Settimo Sigillo (1956) di Ingmar Bergman.

Il film rimane un capolavoro inarrivabile del secolo scorso e un’opera dal rigore stilistico e simbolico eccezionali: la storia del cavaliere Antonius Blok, della sua partita scacchistica con la Grande Mietitrice e del suo percorso alla ricerca del Divino attraverso ombre e luci dell’esistenza umana rientra certamente nei canoni del migliore Fantastico, riproponendo sullo schermo, in un magico e crepuscolare bianco e nero, immagini e simboli tratti dal millenario patrimonio medievale. Su di essi in particolare si eleva, angosciosa e immanente, la pestilenza e la sua ossessione (la scena della processione dei flagellanti colpisce ancora oggi per la sua potenza drammatica). Se a fare le spese del terrore di massa è la giovane “strega” accusata di avere scatenato il morbo e perciò arsa viva senza nessuna umana pietà, tra le vittime della peste vi saranno proprio il cavaliere, battuto agli scacchi dalla sua oscura antagonista, e i suoi amici (esclusa la famiglia dei giovani attori, la cui salvezza sembra lasciare intravedere un finale di speranza).

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Da Matheson a Romero

Oltre al capolavoro “metafisico” di Bergman, nel corso del Novecento oscure ombre epidemiche continuano a incombere sul cinema e la narrativa dell’Immaginario, ovviamente nei suoi versanti più cupi e orrifici. È sempre negli anni Cinquanta, infatti, che il nome di Richard Matheson comincia ad emergere come uno tra i più rilevanti del Fantastico contemporaneo (nonché cinematografico e televisivo, considerando la sua attività di sceneggiatore), e ciò avviene grazie soprattutto al suo romanzo più celebre ovvero I Am Legend scritto nel 1954, pubblicato in Italia inizialmente con il titolo I Vampiri e poi con il letterale e decisamente più epico e sibillino Io sono leggenda.

Con questo libro, da tempo considerato un classico dell’horror fantascientifico e post-apocalittico, l’autore statunitense scrive non solo la prima grande variazione sul sottogenere vampirico dai tempi del Dracula di Stoker (e si parla del 1897), ma allo stesso tempo aggiorna il tema della devastazione della specie umana ad opera di un morbo sconosciuto e inarrestabile che non si limita a portare la morte su scala globale, ma genera una pandemica non-morte rapidamente condivisa da chiunque venga contagiato. Il dottor Robert Neville, totalmente isolato e sempre più al limite dell’alienazione, combatte ogni notte una lotta senza speranza contro un intero mondo di vampiri, per i quali lui, unico umano ancora vivo, è divenuto il mostro, la «leggenda» appunto.

La sottile narrativa di Matheson riesce a delineare il panorama di assoluta desolazione e terrore vissuta dal dottor Neville (e dall’intero pianeta, nelle numerose analessi che svelano i retroscena della storia e la diffusione della pandemia), e l’importanza del romanzo è dimostrata non solo dalle ben tre versioni cinematografiche ufficiali, girate tra il 1964 e il 2007 (fra le quali ci piace ricordare in particolare la prima, lo spettrale L’ultimo uomo della Terra di Ubaldo Ragona con il grande Vincent Price nei panni di Neville), ma dal fatto che il libro di Matheson indicò una nuova via al cinema dell’orrore. Infatti il romanzo costituì l’ispirazione principale per il celebre La notte dei morti viventi (Night of the living dead), girato da George A. Romero nel 1968.

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Effettivamente il film mantiene le idee principali di Io sono leggenda: quella dell’inarrestabile epidemia disumanizzante (peraltro ancora una volta proveniente dallo spazio, in una diretta connessione tanto con il romanzo di Matheson quanto con gli illustri antecedenti di Poe, Conan Doyle e Lovecraft), e quella dell’assedio mostruoso (nel film di Romero al posto del solitario Neville troviamo uno sparuto gruppetto di sopravvissuti, riuniti per tentare una disperata resistenza), con la leggera variazione dei morti viventi antropofagi, liberamente ispirati alla figura degli zombie haitiani, invece dei più “classici” vampiri dediti alla ricerca di sangue fresco.

Altrettanto rappresentativo è The Crazies (La città verrà distrutta all’alba), girato da Romero nel 1973, in cui assistiamo alla follia omicida di massa scatenatasi in una cittadina americana, dopo la diffusione accidentale di un terribile gas previsto per la guerra batteriologica. I film di George Romero, e in particolare la famosa Notte, genereranno una infinita serie di epigoni, ufficiali e apocrifi, tra i quali vanno menzionati le pellicole a tema “zombiesco” di Lucio Fulci girate negli anni Ottanta (in particolare Zombi 2, mentre fanno storia a sé i capolavori gore come L’Aldilà e Paura nella città dei morti viventi, prodighi di citazioni lovecraftiane), nonché un titolo come Incubo sulla città contaminata, girato da Umberto Lenzi nel 1981.

Nel film del regista toscano, il cui nome è notoriamente legato a generi come il thriller e il poliziesco “all’italiana”, si assiste a un potente amalgama tra l’orrore, ai limiti dello splatter, rappresentato della carica dei contaminati radioattivi (voraci non-morti particolarmente rabbiosi e scattanti) e una potente critica sociale rivolta all’irreversibile inquinamento ambientale e al consumismo imperante. Fenomeni epidemici e contaminanti, ci suggerisce il film di Lenzi, ben più reali e temibili di qualsiasi esercito di zombie mutanti.

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Carpenter e Cronenberg

Rimanendo nell’ambito dell’horror cinematografico moderno, e di come questo abbia messo in scena il tema delle orrende mutazioni scatenate da morbi tanto infernali quanto infettivi, va ovviamente ricordata l’opera di autori come il canadese David Cronenberg (si pensi a Rabid o Il demone sotto la pelle) e lo statunitense John Carpenter.

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Il grande regista inizia una più che trentennale carriera con film ormai mitici per il thriller e il Fantastico contemporaneo come Distretto 13, Halloween e 1997 — Fuga da New York, e gira tra gli anni Ottanta e i Novanta l’ideale trilogia di horror apocalittico in cui il tema del contagio e della mostruosa epidemia sono basilari: stiamo parlando degli agghiaccianti La Cosa (The Thing, 1982), Il Signore del Male (Prince Of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994). L’atmosfera di esplicita ispirazione lovecraftiana è quasi palpabile nei capolavori horror in questione, che riguardati oggi, per quanto genuinamente “artigianali” dimostrano ancora intatta la loro potenza visionaria e disturbante.

Qualunque ne sia l’orribile causa (si tratti di un’entità aliena polimorfica precipitata dallo spazio tra i ghiacci dell’Antartide, di un fluido verdastro ipostasi del Male metafisico o di un enigmatico romanzo maledetto), nei succitati film di Carpenter ciò che abbatte i confini della vita e della natura come noi la conosciamo è sempre una minaccia, interplanetaria e/o demonica, che trasforma e disumanizza la struttura psicofisica dell’uomo. Non solo, ma ognuna delle tre opere si conclude con un finale aperto che lascia lo spettatore nella poco rassicurante prospettiva che le mostruose mutazioni possano verificarsi su scala mondiale, con le stesse modalità della trasmissione di un virus: ne La Cosa i due sopravvissuti rimangono sospesi in una spaventosa incertezza su chi sia l’eventuale contagiato; nel Signore del Male la minaccia della venuta dell’Anticristo (e delle annesse mutazioni diaboliche) è sventata, ma solo temporaneamente; nel Seme della follia non vi è più speranza e i Grandi Antichi prendono possesso del mondo (Carpenter non li chiama così, ma se non sono Loro sono i cugini di primo grado), attraverso un’umanità ormai mostruosamente degenerata. A meno che non sia tutto frutto della mente malata dell’ex detective John Trent, interpretato da Sam Neill…

Nel film di Carpenter il Male assoluto si diffonde per il globo attraverso, è il caso di dirlo, il virale successo dei libri di Sutter Cane, scrittore horror misteriosamente scomparso nel nulla che «vende più di Stephen King». E proprio il celeberrimo (per non dire sovraesposto…) autore statunitense, “allievo” di Matheson, Bradbury e Lovecraft, contribuisce personalmente al tema con il romanzo L’ombra dello scorpione (The Stand, 1978), che narra l’odissea dei sopravvissuti a un disastro epidemico causato da un’arma batteriologica, e che peraltro vede la prima apparizione del personaggio di Randall Flagg, il malefico ed ineffabile stregone attivo in seguito anche in altre opere di King (The Eyes of the Dragon e la saga della Torre Nera).

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Apocalissi moderne sul grande e sul piccolo schermo

Nel 1996 esce il film L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys), dell’inglese Terry Gilliam, celebre per le sue pellicole dallo stile bizzarro e variopinto come il celebre Brazil. Il film, che vede protagonista il divo del cinema action Bruce Willis, aggiorna il tema unendolo al motivo fantascientifico del viaggio nel tempo: la soluzione al problema di una letale pandemia è quello di scongiurarla prima della sua esplosione, o almeno tentare di farlo.

Un’altra produzione britannica da segnalare è 28 giorni dopo (28 Days Later), girato da Danny Boyle nel 2002, in cui ritroviamo i consoni paesaggi urbani desolati e le orde di (sub)umani degenerati in aggressivi mutanti succhiasangue, che ricordano direttamente i vampiri di Matheson e i contaminati di Lenzi. Dettaglio non da poco (e profetico?), l’epidemia di super-rabbia proviene da sconvenienti esperimenti genetici effettuati su alcune scimmie: il virus modificato si trasmette quindi con successo dall’ospite animale all’uomo…

L’ultimo decennio ha inoltre visto il grande successo della serie televisiva dell’orrore The Walking Dead, ennesima rivisitazione del tema dell’epidemia “zombificante” (si scusi la sequela di curiosi aggettivi mutuati dal celebre termine caraibico), i cui riferimenti sono palesi e ricordati qualche riga più in alto.

Dopo questa non certo esaustiva rassegna, non ci resta che stare a vedere quali e quante altre variazioni sul tema giungeranno dalla narrativa, dal cinema e dalle serie televisive dopo questa nuova, e speriamo ormai scongiurata ondata epidemica con la quale ci stiamo tuttora confrontando. Che evidentemente non sarà l’ultima, e che ha scatenato nell’uomo terrori tutt’altro che nuovi, ma anzi, come il Fantastico testimonia sempre in questi casi, antichissimi e anzi sempiterni; tornati ancora una volta, paurosamente, attuali e concreti.

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