Vasilij Kandinskij e la mistica dei colori

In quello che viene ricordato come l’anniversario della sua morte, ripercorriamo alcune delle pagine più suggestive de “Lo spirituale nell’arte” di Vasilij Kandinskij: un’opera che travalica la dimensione artistica, intaccando profondamente quella dello spirito.

di Lorenzo Pennacchi

Nel 1910 Vasilij Vasil’evič Kandinskij dipinge il suo primo quadro astratto. Da quel momento diviene il profeta di una nuova epoca, l’età dello spirito, rivelata nel tempo attraverso le sue opere pittoriche e letterarie. Lo spirituale dell’arte, pubblicato nel 1911, non ha come soggetto la pratica artistica, ma la dimensione della spiritualità. Come scrive Elena Pontiggia nella splendida postfazione [1]

Kandinsky si interessa alla pittura solo perché è un aspetto dell’arte. E si interessa all’arte solo perché è un aspetto dello spirito. 

Nelle pagine iniziali, l’artista annuncia il tiepido risveglio dell’anima e ripercorre il movimento del grande triangolo, simbolo della vita spirituale, riconoscendo nell’arte autentica il possesso di una stimolante forza profetica, in grado di esercitare una profonda influenza sulla storia. La sua narrazione, in cui forme artistiche differenti (letteratura, musica, pittura) e tappe metastoriche si relazionano, alterna analisi minuziose a passi apocalittici [2]

Una parte delle poderose mura è crollata come un castello di carte. Una torre colossale che giungeva al cielo, composta di tanti pilastri spirituali traforati ma «invincibili», giace a pezzi. Trema il vecchio cimitero dimenticato. Vecchie tombe si aprono, lasciano uscire spiriti dimenticati. Il sole artisticamente scolpito ha delle macchie e si oscura. Come lo sostituiremo nella lotta contro le tenebre?

Del resto, l’arte riguarda il contenuto prima che la forma: è un problema sul che cosa, non sul come. «L’artista deve avere qualcosa da dire» [3], scrive Kandinskij nelle pagine conclusive del libro. Rifiutando un’arte fine a se stessa (l’art pour l’art), il pittore, così come lo scrittore e il musicista, non deve necessariamente dominare la forma, ma saperla plasmare al contenuto. Questo incessante movimento artistico-spirituale è guidato da una forza infallibile, in grado di condurlo ad altezze vertiginose: il principio della necessità interiore. Di fatto l’artista deve relazionarsi con la propria opera, al punto da affidarsi ad essa. Il professore Giuseppe Di Giacomo rileva che «la cosa essenziale per Kandinskij è non liberarsi dall’oggetto, ma liberare l’oggetto dai propri legami con la realtà circostante, rendendolo così “assoluto”» [4], facendo sì, come ammetterà il pittore russo pochi anni dopo, che l’opera d’arte diventi soggetto [5]

Le forme e soprattutto i colori sono la manifestazione di questa necessità spirituale: «Il colore come rivelazione dell’altrove allontana la grammatica di Kandinsky dai diagrammi geometrici per restituirle un’emozione magica» [6]. Non a caso, le pagine dedicate alle differenti tonalità cromatiche sono le più suggestive dello Spirituale. Attraverso una ricostruzione archetipica, l’artista indaga il significato e la potenzialità degli otto colori principali, che si affermano, si affrontano e si mischiano in un vortice continuo: una metafisica destinata ad offrire sterminati spunti di riflessione. A un secolo di distanza, queste suggestioni possono essere ripercorse anche attraverso le opere dei suoi contemporanei, profondamente influenzate da questi passi. 

Vasilij Kandinskij, Primo acquarello astratto, 1910

Nella sua tassonomia, Kandinskij colloca sei colori, suddivisi in due coppie che formano tre grandi contrasti (giallo-blu, rosso-verde, arancione-viola), in un anello fra due poli opposti, come un serpente che si mode la coda, simbolo dell’eternità e della ciclicità delle cose. Agli estremivi sono le due grandi possibilità creatrici: il silenzio della nascita e il silenzio della morte. Il primo è il bianco. Sulla scia degli impressionisti, che non vedono nessun bianco in natura, è spesso considerato un non-colore. Kandinskij ne sottolinea l’alterità rispetto al mondo reale, ponendolo così in alto da non riuscire ad essere ascoltato [7]

Per questo il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto. Interiormente lo sentiamo come un non-suono, molto simile alle pause musicali che interrompono brevemente lo sviluppo di una frase o di un tema, senza concluderlo definitivamente. È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio un nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava così, nel tempo bianco dell’era glaciale. 

La potenzialità creatrice del bianco è stata profondamente indagata dagli artisti del Novecento. Il primo e più significativo esempio in questo senso è rappresentato dal Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir Malevič, realizzato nel 1918. Con la sua pittura, il Suprematista russo ha portato l’astrazione al suo limite assoluto, che «mira a vincere il caos, il disordine, favorendo l’apparizione di un Cosmos “altro”, perché liberato dal peso figurativo» [8]. In questa prospettiva, per nulla nichilistica [9]

La tela è intesa come il luogo della rivelazione dell’Essere, cioè della manifestazione dell’Assoluto in quanto senza-oggetto. Questo significa che si possono distruggere, sì, le cose visibili, ma non l’Essere, e l’Essere è Dio, che non può essere affatto annichilito. 

In quest’ottica, il bianco assume una portata spirituale totalizzante, ancora maggiore rispetto a quella riservatagli da Kandinskij, arrivando a coincidere con il divino. L’intuizione artistico-concettuale di Malevič è eccezionale, nell’autentico senso del termine. Dopo di lui, infatti, molti (tra cui Barnett Newman e Robert Rauschenberg) si confronteranno nuovamente con la pura potenza creatrice del bianco, cadendo spesso nell’imitazione (mimesis) e nella ripetitività, arrivando ad intaccare raramente le profonde regioni dello spirito.

Kazimir Malevič, Quadrato bianco su fondo bianco, 1918

Dei sei colori posti all’interno del cerchio magico, Kandinskij ne evidenzia in particolar modo i movimenti e le contaminazioni reciproche, sebbene ogni colore venga ricondotto ad una propria dimensione. Così il giallo è l’aspetto tipico della terra, associabile psicologicamente alla follia intesa come delirio. Simbolo dell’estate morente, non può avere troppa profondità, che è invece la caratteristica del blu, il colore del cielo che «se precipita nel nero acquista una nota di tristezza struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine» [10]. Mescolando questi due colori così distanti si genera la quiete del verde, che più è marcata e più non desidera nulla, non chiede nulla [11]

Per questo il verde assoluto è nel campo dei colori quello che la cosiddetta borghesia è nella società; un elemento immobile, soddisfatto, limitato in tutti i sensi. Questo verde è come una mucca grassa, in salute, che giace inerte, è capace solo di ruminare e osserva il mondo con occhi vuoti e indifferenti. 

Il suo opposto è rappresentato dal fervore e dalla maturità virile del rosso, in grado di risultare caldo o freddo allo stesso tempo. Se mischiato al nero, dà vita al marrone (il primo infiltrato nel cerchio alchemico), dal cui uso moderato nasce una bellezza interiore indescrivibile. Se rafforzato dal giallo, invece, concepisce l’arancione: «Il suo suono sembra quello di una campana che invita all’Angelus, o di un robusto contralto, o di una viola che esegue un largo» [12]. Infine, se si ritrae nel blu, genera il viola, un colore freddo, intrinsecamente triste e malato. 

Aleksandr Rodčenko, Colore rosso puro, Colore giallo puro, Colore blu puro, 1921

La seconda estremità esterna all’anello centrale è occupata dal nero, il silenzio della morte, paragonabile in musica ad una pausa finale: «E come un nulla senza possibilità, come la morte del nulla dopo che il sole si è spento, come un eterno silenzio senza futuro e senza speranza, risuona dentro di noi il nero» [13]. È la chiusura del cerchio, la fine del mondo, la condizione di possibilità affinché tutto possa nascere in forma nuova. Come per il bianco, anche per quest’altra polarità, Malevič ha lasciato il segno nella storia, col suo Quadrato nero su fondo bianco, definito dallo stesso artista l’icona del nostro tempo, il culmine dell’estetica dell’abisso teorizzata da Jean-Claude Marcadé in riferimento al Suprematismo, la manifestazione del “Niente liberato” sulla superficie piana. Continua Di Giacomo [14]

Si può interpretare il nero del Quadrato […] come quello delle tenebre proprie della mistica apofatica, ovvero del deus absconditus, impenetrabile alla conoscenza sia sensibile che intellettuale, laddove invece nelle icone troviamo un carattere apofantico. Nel Suprematismo, dunque, non è più questione di “rappresentazione” […], ma di manifestazione, di apparizione, di rivelazione, e ciò che si manifesta è il senza-oggetto come realtà cosmica.  

Di grande importanza è il fatto che l’opera non sia totalmente nera (come avverrà invece in Rodčenko e Ad Reinhardt). Il bianco del fondo, infatti, assume un valore significativo, soprattutto alla luce dello Spirituale. In questo quadro i due opposti silenzi si confrontano, si toccano, ma non si mischiano. Un altro lieve movimento genererebbe il grigio (il secondo infiltrato), un colore generalmente silenzioso e immobile che «se diventa più chiaro, è percorso invece da una trasparenza, da una possibilità di respiro che racchiudono una segreta speranza» [15]. È da questo rapporto originario, e dal sentimento che ne deriva, che il cerchio può rigenerarsi all’infinito

Kazimir Malevič, Quadrato nero su fondo bianco, 1915

Kandinskij analizza i singoli colori, ma ciò a cui è interessato principalmente è il loro rapporto. Non a caso, al contrario degli altri artisti che abbiamo presentato, crede che l’armonia fondata su un singolo colore sia poco adatta a rappresentare la sua epoca, così piena di problemi, dubbi e contraddizioni [16]

Possiamo ascoltare le opere di Mozart con invidia, con affettuosa simpatia. Sono una pausa felice nel frastuono della nostra vita interiore, sono un conforto e una speranza. Eppure le avvertiamo come l’eco di un tempo diverso, passato, che ci è fondamentalmente estraneo. Lotta di toni, perdita di equilibrio, caduta dei «princìpi», inattesi colpi di tamburo, grandi interrogativi, tensioni apparentemente senza scopo, impeti e nostalgie laceranti, catene e legami spezzati, contrasti e contraddizioni: questa è la nostra armonia. Su questa armonia si fonda la composizione: un rapporto di colori e linee indipendenti, che nascono dalla necessità interiore e vivono nella tonalità del quadro.  

Schöenberg, non Mozart, parla all’uomo contemporaneo. A ogni modo, in musica come in pittura, c’è e «ci sarà sempre qualcosa che la parola non può rendere compiutamente, e che non è il superfluo, ma l’essenziale» [17]. Oltre ad ammettere i limiti delle sue riflessioni, che non esauriranno mai il grande problema dello spirito, in questi passi Kandinskij riconosce la specificità delle varie arti e del suo tempo, con cui ogni artista autentico deve confrontarsi attraverso il proprio linguaggio. La sua è una vera e propria mistica, in cui la pittura è solamente uno dei lati del grande triangolo spirituale. 

Vasilij Kandinskij, Composizione VII, 1913

La pubblicazione del libro, inizialmente prevista per il 1912, viene anticipata al dicembre 1911: «È un singolare privilegio per un libro in anticipo sui tempi, essere in anticipo su se stesso» [18]. Dopo le critiche iniziali, scontate per un testo di avanguardia, lo Spirituale «non è stato il manifesto di una corrente, è stato il manifesto di una generazione» [19]. E gli esempi presentati in queste poche pagine dovrebbero essere sufficienti a far capire il perché. Già nel 1909, Alfred Kubin, in rapporto epistolare con l’artista, confessa [20]

Sono pensieri originalissimi, che spesso attingono alle più abissali profondità. Il discorso sul colore ha un fascino straordinario. 

Kandinskij era convinto che l’epoca della grande spiritualità fosse ormai alle porte. Al contrario, due guerre mondiali, il materialismo dilagante e la mercificazione dell’arte le hanno sbattuto la porta in faccia. Cosa rimane, dunque, di quest’opera profetica a un secolo di distanza? Ieri come oggi, oggi come domani, il grande triangolo spirituale è in movimento. E l’arte è una parte essenziale di questo cammino [21]

La pittura è un’arte, e l’arte non è l’inutile creazione di cose che svaniscono nel vuoto, ma è una forza che ha un fine, e deve servire allo sviluppo e all’affinamento dell’anima, al movimento del triangolo. 

Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 – 1944)

Note:

[1] Elena Pontiggia, Postfazione a Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989, p. 115

[2] Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989, p. 29

[3] Ivi, p. 89

[4] Giuseppe Di Giacomo, Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo, Carocci editore, Roma 2014, pp. 37-38

[5] L’espressione, tratta da Pittura come arte pura del 1913, è riportata da Paul Klee nei suoi Diari 1898-1918. Cfr: Ivi, p. 38

[6] Pontiggia, op. cit., p. 122

[7] Kandinskij, op. cit., p. 66

[8] Di Giacomo, op. cit., p. 80.

[9] Ivi, p. 81

[10]  Kandinskij, op. cit., p. 63

[11] Ivi, p. 65

[12] Ivi, p. 71

[13] Ivi, p. 67

[14] Di Giacomo, op. cit.,p. 27

[15] Kandinskij, op. cit., p. 67

[16] Ivi, p. 74

[17] Ivi, p. 72

[18] Pontiggia, op. cit., p. 120

[19] Ivi, p. 116

[20] Ivi, p. 117

[21] Kandinskij, op. cit., p. 88

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