Rodi: all’ombra del Colosso

La silloge di racconti di Andrea Guido Silvi, recentemente pubblicata per la collana di narrativa “fantastorica” di Italian Sword&Sorcery, ci conduce nella Rodi del terzo secolo prima della nostra era, dove la venerazione di divinità terribili si alterna agli intrighi di palazzo e alle suggestioni “bronzepunk”, e si ricollega alla sopravvivenza secolare di personaggi ormai entrati a far parte del mito, come l’eroe culturale Memnone e il filosofo-iatromante Empedocle.

di Marco Maculotti

Nel 226 a.C., anno del grande terremoto, nella ricchissima e decadente Rodi s’intrecciano ambizioni e desideri di uomini e demoni. Filosofia, scienza e stregoneria sono una cosa sola, che dà la padronanza di potenti tecnologie oggi perdute; il clero di Elio-Apollo mira all’egemonia, sradicando tradizioni antiche e il credo negli altri Dèi; divinità con menti e fini inumani giocano con le vite dei mortali, che possono solo illudersi di cambiare il loro destino… e quando le spade si scoprono inutili, ben pochi sono gli eroi. In tredici racconti tra weird e sword and sorcery, il terremoto che distruggerà il Colosso, divenuto simbolo d’un mondo incomprensibile, s’avvicina sino a compiersi.

Questa la sinossi ufficiale di Rodi – Il sorriso del Colosso, antologia di racconti scritti da Andrea Guido Silvi e pubblicata da Italian Sword&Sorcery Books alla fine dello scorso anno con una prefazione di Samuele Baricchi e una postfazione di Lorenzo Pennacchi, entrambi presenti a più riprese sulle pagine della nostra rivista. D’altronde la collana di narrativa “fantastorica” di cui l’antologia di Silvi fa parte non è per noi una novità, avendo pubblicato due saggi dello scrivente in appendice, rispettivamente negli albi Mediterranea, dedicato all’antica Grecia (“Il servizio divino dei Greci”), e L’Era del Serpente (“Il serpente e il drago: morfologia del simbolismo ofidico”). A voler essere precisi, l’opera in analisi in questa sede sta a metà strada tra la raccolta di racconti classica e un “romanzo circolare” (come I tre impostori di Arthur Machen o Gli elisir del diavolo di E.T.A. Hoffmann, per intenderci): come nei due esempi citati, anche gli episodi vergati dalla penna di Silvi si collegano l’uno all’altro come location, personaggi e avvenimenti, dando vita a un intrigante e variegato quadretto della Rodi del III secolo prima della nostra era, mescolando verosimiglianza storica e invenzioni fantastiche (e talvolta fantascientifiche).

Il sorriso del Colosso, racconto che dà il titolo all’antologia e ne funge da incipit, unisce le situazioni più tipiche del genere Sword&Sorcery a suggestioni cosmiche di derivazione lovecraftiana, sperimentate in stato di estasi ipnotica da uno dei due protagonisti. Questi ultimi, due ladri cartaginesi, si introducono nel tempio di Baal nella città portuale di Rodi per fare razzia di ori e bronzi, incappando a sorpresa in abominevoli rituali orgiastici che faranno scoprire loro le oscure sorgenti da cui deriva il culto e la casta sacerdotale del medesimo, nonché il prezzo pagato dai rodiani per tenere viva la fiamma della venerazione. L’autore, pur attenendosi fedelmente alle fonti storiche per tratteggiare certi particolari del racconto (come l’ubicazione della statua del Colosso, la menzione dell’assedio di Demetrio, la conoscenza da parte di alcuni saggi dell’eliocentrismo, e via dicendo), immagina una pletora di automi metallici delle fattezze del noto Colosso a difendere il tempio del tirannico dio, forse ispirandosi a tal riguardo alle testimonianze più o meno verosimili sull’esistenza di robot di questo genere nelle antichi civiltà mediterranee.

Questo leitmotiv dal sapore “fantaingegneristico” o bronzepunk ritorna anche nel secondo racconto dell’antologia, Il volo, dove si parla di una sorta di “energia alchemica” in grado di far funzionare gli automi, nonché della progettazione avveniristica di ornitotteri e alianti (storicamente progettati per primi dai Cretesi). La storia si ispira al mito egualmente cretese di Celeo, un giovane ladro che fu colto a rubare il miele divino delle api della caverna del Monte Ida, destinato come offerta a Zeus ivi venerato. Ladri e automi sono un vero e proprio elemento ricorrente di questa antologia: entrambi si ritrovano anche nel terzo racconto, Il nome di Memnone, che narra di un misterioso omicidio avvenuto nella villa di un ricco mercante della città, di colossi di pietra con le sembianze del Colosso di Apollo-Elio, di riti notturni celebrati nelle notti di pleniluvio in onore di Ecate e leggendari personaggi mitici, come il Memnone menzionato nel titolo dell’episodio, che avrebbero raggiunto uno stato di immortalità apparente grazie all’arte della stregoneria.

Faccia di cane si impone come uno dei racconti più riusciti della raccolta; narra la storia tragica di Glaucone e Callimaco, rispettivamente padre e figlio, e di come durante una tempesta in mare sfiorarono la morte e vennero salvati dall’intervento provvedenziale, al limite del miracoloso, di un essere sovrannaturale, un Telchino, «un demone possessore di magia e scienza… un mostro, uno degli ultimi e forse l’ultimo di una razza condannata e combattuta da Elio-Apollo». Ispirandosi alle leggende antiche che descrivevano i Telchini con caratteristiche zoomorfe e ibride (l’autore nella breve nota in appendice ricorda che la credenza diffusa pretendeva che fossero «uomini con pinne al posto della mani e aventi teste di cane, e che alcuni ritenevano essere figli dei pesci»), Silvi descrive la morfologia del monstrum in maniera efficace, ispirandosi in parte, come esplicitato da lui stesso, anche alle Selkie, entità fatate del folklore gaelico dalle sembianze di foche antropomorfe. Per quanto riguarda lo stile narrativo e la descrizione dell’ambiguo e complicato rapporto tra umani e entità altre, invece, l’impressione è che l’autore abbia preso più di uno spunto dai Racconti dei Mari del Nord dello scrittore norvegese Jonas Lie, recentemente tradotto in Italia da Dagon Press, che mi risulta che Silvi abbia avuto modo di leggere.

Una rappresentazione antica di un Telchino

Con il racconto che segue, I Figli della Luna, si ritorna sui binari precedentemente tracciati; piuttosto lampanti sono i punti in comune con Il nome di Mnemone, sia negli avvenimenti narrati che nel modo di raccontarli. A fare da sfondo agli eventi vi sono anche in questo caso i cerimoniali notturni degli adepti di Ecate, eventi orgiastici a cui i convitati partecipano in compagnia di demoni immateriali, qui osteggiati dalla setta sacerdotale dominante di Elio-Apollo, soprattutto dagli enigmatici Maestri della Scuola dei Maghi Empedoclei, già menzionati di sfuggita in alcuni degli episodi precedenti, che l’autore descrive con toni foschi e sinistri. L’incontro di uno dei protagonisti, un Figlio della Luna in fuga in seguito a una retata, con un nerboruto satiro non riesce a cogliere il mistero e il dramma dell’Alterità come quello analogo del racconto precedente con il Telchino; di contro, è degna di nota l’idea di concepire la messa in scena di mefistofelici macchinari “succhia-anima” per zittire (letteralmente) gli “eretici” e gli oppositori del culto ufficiale. Se gli ordigni infernali hanno un retrogusto shaveriano, ricordando gli omologhi macchinari con cui i sedicenti Deros torturerebbero l’umanità dalle proprie sedi sotterranee nella Realtà Alternativa di Richard S. Shaver, la scena complessiva ha un’analogia con il supplizio prolungato dei convertiti cristiani in Silence di Martin Scorsese.

Il dio nel palazzo vede come protagonista il personaggio semileggendario di Museo — aedo, citaredo (suonatore di cetra) e devoto al culto orfico — e la sua missione suicida all’assalto del palazzo del leggendario sovrano di Rodi Memnone, sull’esempio di Teseo che mosse battaglia a Minosse sull’isola di Creta. In questo episodio risalta in primo luogo l’evocazione nel bosco di pioppo e salici di un demone servitore di Ade abilmente descritto secondo la maniera di Montague Rhodes James…la pelle scura lucida e glabra… che aveva i riflessi freddi e metallici del piombo») e il dialogo che ne segue con il protagonista a riguardo dei molteplici destini riservati alle anime disincarnate; e, in secondo luogo, l’incontro prima con Pausania di Gela e altri Maghi Empedoclei, redivivi a discapito del passare dei secoli, e poi finalmente con Memnone in persona, del cui nome il lettore era già stato edotto nei racconti precedenti. Efficace il finale dolceamaro culminante nell’invocazione orfica da parte di Museo, che in attesa di ricevere il colpo di grazia già intravede «i Campi Elisi e… l’eternità gioiosa».

Memnone, incisione di Bernard Picart (XVII-XVIII secolo)

L’esperimento di Empedocle prosegue sulla stessa china: dopo aver incontrato i temibili Maghi Empedoclei ora ci troviamo faccia a faccia con il filosofo agrigentino in persona, anch’egli vivo nonostante il passare dei secoli grazie alle arti occulte e alchemiche. Questo episodio, meno incisivo di altri per quanto riguarda la trama, è da una parte utile all’economia dell’opera complessiva perché chiarisce diversi interrogativi precedentemente suscitati sull’uso della cosiddetta “energia alchemica”; dall’altra è degno di nota perché dimostra il serio lavoro di ricerca da parte di Silvi, che procede a far dialogare Empedocle con Archimede ed Eratostene, anch’essi in qualche modo redivivi grazie alle arti magiche del primo, in un “trialogo” che esalta la diversità delle loro vedute riguardo a Dio e al cosmo. La concezione di quest’ultimo come arena di scontro tra le forze contrapposte di Amore e Odio riecheggia il romanzo “pulp-fiction” Il vascello di Ishtar dello statunitense Abraham Merritt (1924).

I due racconti che seguono, Il precettore e L’arconte delle macchine, si inseriscono come episodi “di passaggio”, inserendo alcune figure “esotiche” nel panorama rodiano: nel primo racconto Uba-Caaisho e Geedi-Barre, rispettivamente la «futura Regina del Regno di Gheledi nella terra di Punt» e il suo vecchio e saggio consigliere e accompagnatore, nel secondo il giovane nubiano Kashta, apprendista dell’inventore Ctesibio, ispirato alla figura storica omonima che fu «iniziatore della Scuola dei Meccanici alessandrini e probabilmente anche direttore del Museo di Alessandria», nonché «fondatore della pneumatica», come annota Silvi nelle note in appendice. I due personaggi del Precettore, dopo uno scontro con alcuni grifoni presso un tempio diroccato, incontrano Memnone nel suo gargantuesco quanto sinistro palazzo reale, e hanno con lui uno scambio di vedute che condurrà a una conclusione imprevista ed efficace. Funziona anche il finale dell’Arconte, che strizza l’occhio al Re Peste di Poe e risolleva una storia che nella prima parte si limita a descrivere il funzionamento degli «opliti meccanizzati dell’esercito di Rodi». L’idea della cosiddetta “energia alchemica”, precisa l’autore, è stata ispirata da quella Batteria di Baghdad che costituisce dei più celebri OOPArt (acronimo derivato dall’inglese Out Of Place ARTifacts, «manufatti, reperti fuori posto») conosciuti.

La cometa è incentrato sull’incontro a quattro occhi tra Memnone ed Empedocle e si concentra soprattutto sulla psicologia del primo e sul suo rapporto, in quanto demone, con i sentimenti umani che ha appreso in lunghi secoli di esistenza. Il filosofo agrigentino, dal canto suo, espone le sue reminiscenze riguardo le vite passateUn tempo io fui già fanciullo e fanciulla, e arbusto, e uccello e muto pesce che salta dal mare: grazie alla morte rinascevo mutato, imparando», una frase che si attribuisce realmente ad Empedocle). Il racconto che segue, Le Erinni, il più breve dell’antologia, racconta le conseguenze dell’incontro tra l’ingenuo Prosseno, un anziano calzolaio, e la mefitica triade femminile del mito greco, rifacendosi perlopiù al topos folklorico della fanciulla-succube e, come ammesso da Silvi, a una ghost-story di Ambrose Bierce.

L’opera raggiunge il suo climax con l’ultimo racconto vero e proprio, Le Boedromie, che vede lo scontro definitivo tra gli adepti del culto eliaco e quelli del culto selenico, con un finale travolgente anticipato dall’oracolo di Diana e dal piedistallo del Colosso stesso. Infine, in chiusura, in Contro un nuovo Colosso di Cillenio di Lindo Silvi mette in bocca al dio Ermes (detto anche “Cillenio” perché, secondo il mito, nato in una grotta del monte Cillene) un breve discorso che funge da monito conclusivo ai rodioti e che chiude circolarmente la silloge in analisi in questa sede.

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