H.P. Lovecraft, la Nuova Babele e l’avvento della Nuova Età Oscura

Per quanto ne dicano alcuni “critici della domenica”, al presunto odio razziale Lovecraft sempre antepose l’orrore visceralmente provato in prima persona nei confronti dell’avvento del mondo moderno, l’impero delle macchine e della spersonalizzazione totale, in cui ogni individuo e le sue visioni più alte sono fagocitate e inserite in un quadro cosmico di tragedia universale, priva di alcuno sbocco superiore. E New York fu, ovviamente, innalzata a immagine della Nuova Babele, che fagocita le antiche tradizioni e le differenziazioni umane in un continuo, abietto rituale di spersonalizzazione, standardizzazione e disumanizzazione collettiva.

di Marco Maculotti

Copertina: Hieronymus Bosch, “Garden of Earthly Delights” (dettaglio);
Originariamente pubblicato su «studi lovecraftiani 19», Dagon Press, primavera 2021 –parte 2 di 2

[segue dalla parte 1]

Sebbene certe posizioni xenofobe di Lovecraft non si possano negare in toto, nondimeno bisogna sottolineare come la battaglia esistenziale di quest’ultimo non fu mai fondata su una  presunta “questione razziale” di qualsivoglia genere, ma sia piuttosto da inquadrare come un atto di inattuale resistenza dell’individuo contro l’impoverimento dell’immaginazione e contro l’attacco teso contro l’indipendenza mentale e animica del singolo, pericolosamente messa a repentaglio dal sorgere titanico, dalla rivoluzione industriale in poi, del mondo delle macchine fondato sulla mobilitazione delle masse prive di volto, e sul principio democratico dell’uno vale uno, che egli riteneva un’illusione bella e buona. Paradigmatico in questo senso è quanto Lovecraft scrisse in una lettera del 1923 a J.F. Morton:

L’unica grande crociata degna dell’individuo illuminato è quella combattuta contro tutto ciò che impoverisce l’immaginazione, il meraviglioso, la percezione sensoriale, la vita vissuta intensamente e l’apprezzamento della bellezza: null’altro conta. E nemmeno questo conta veramente nel Grande Vuoto: ma è divertente giocare un po’ sotto il sole, prima che il cieco universo freddamente ci riduca di nuovo a quel nulla primordiale da cui ci ha sottratto per la durata di un attimo.

[1]
H.P. Lovecraft (1890 – 1936)

L’orrore per la civiltà delle macchine

Nessuno vuole negare che il trauma vissuto da Lovecraft nel momento di venire in contatto con il “crogiolo razziale” di New York abbia influito sulla sua letteratura degli anni a seguire, ma quello che preme notare considerando la polemica innestata dalla Okorafor è che al presunto odio razziale il Sognatore di Providence sempre antepose l’orrore visceralmente provato in prima persona nei confronti dell’avvento del mondo moderno, l’impero delle macchine e della spersonalizzazione totale, in cui ogni individuo e le sue visioni più alte sono fagocitate e inserite in un quadro cosmico di tragedia universale, priva di alcuno sbocco superiore. E New York fu, ovviamente, innalzata a immagine della Nuova Babele, che fagocita le antiche tradizioni e le differenziazioni umane in un continuo, abietto rituale di spersonalizzazione, standardizzazione e disumanizzazione collettiva. In He, scritto nel 1926, si legge: 

Venire a New York era stato un errore: cercavo meraviglia e ispirazione nei labirinti di vecchie strade affollate che si dipanano da cortili, piazze e moli dimenticati ad altri cortili, piazze e moli dimenticati; ma nelle torri ciclopiche e nelle guglie che si innalzano come oscuri monumenti di Babilonia sotto la luna calante avevo trovato solo un senso di orrore e oppressione che minacciavano di paralizzarmi e distruggermi.

[2]

[…] invece di scrivere poesie piombai in una tremenda solitudine e abbattimento; e alla fine intuii la terribile verità che nessuno osava ammettere, lo sconveniente segreto che non si vuol nemmeno bisbigliare: il fatto che questa città di pietra e fracasso non è l’intelligente perpetuazione della vecchia New York come Londra lo è della vecchia Londra e Parigi della vecchia Parigi, ma che anzi è morta, e il cadavere mal conservato è infestato da strani esseri animati che non hanno nulla a che fare con quello che la città era da viva.

[3]

Da questo preciso momento la Grande Mela assurge nella visione del mondo del Sognatore di Providence a Nuova Babele, doppio terrestre della sommersa R’lyeh, paradigmatica capitale dell’Impero del Caos prossimo a essere esteso ben presto all’intero pianeta, sotto gli influssi delle terrificanti entità non-umane provenienti dall’Altrove Assoluto. Ma nell’azione di suddette potenze titaniche si possono vedere anche i demoni creati dalla hybris della scienza occidentale e del razionalismo moderno, i golem creati in laboratorio sulla spinta di errate credenze e di falsi profeti che hanno condotto l’umanità verso la desacralizzazione più totale dell’intera concezione della vita e del cosmo, posizione che tra l’altro anticipa in modo singolare quella del filosofo tedesco Ernst Jünger (si veda per esempio il Trattato del Ribelle, pubblicato nel 1951, e Al muro del tempo, 1959).

È noto, inoltre, che Lovecraft fu influenzato in queste sue previsioni pessimistiche dall’opera del filosofo e storico egualmente tedesco Oswald Spengler, autore de Il tramonto dell’Occidente (1918-1923) e L’uomo e la tecnica: ascesa e declino della civiltà delle macchine. In una lettera a J.F. Morton inviata nell’ottobre del 1929, HPL scrive: 

Non ha senso fingere che una civiltà delle macchine standardizzata e rigidamente programmata come questa presenti punti di contatto con la cultura che si basa sulla libertà dell’individuo, sull’individualismo e la maturazione della personalità; tutto ciò che si può ragionevolmente tentare di fare è opporsi al futuro, con tutte le forze. Chi pensa che l’uomo viva per mezzo della ragione e che sia perfettamente in grado di controllare gli effetti e le conseguenze delle cose che inventa, sostiene una posizione che la psicologia dimostra sorpassata. L’uomo per un certo periodo può realmente usare le macchine, ma dopo un po’ si abitua mentalmente alla meccanizzazione e lo stato di dipendenza dalla macchina diventa tale che sono poi le macchine a usare l’uomo — appiattendolo sulla loro perfetta efficacia e sulla loro assolutamente inutile esattezza di azione e di pensiero… un funzionamento perfetto, senza alcuna ragione o vantaggio per tale funzionamento.

[4]
Hieronymous Bosch, “Garden of Earthly Delights” (dettaglio)

Il mondo futuro per il Lovecraft di quasi un secolo fa era un inferno di macchine, spersonalizzazione e standardizzazione: una previsione che oggi suona indicibilmente sinistra per quanto sembri essersi regolarmente realizzata, soprattutto negli ultimi vorticosi anni dell’interconnessione globale e delle distopie cinesi fondate sull’utilizzo invasivo della tecnologia nei confronti della popolazione (tra l’altro nel racconto He, pubblicato quasi un secolo fa, HPL predisse persino la presa di potere totale del potentato orientale, immaginando una New York futuristica in cui il popolo cinese ha sostituito integralmente quello occidentale). L’orrore provato da Lovecraft nei confronti del mondo delle macchine fondato sulla spersonalizzazione e standardizzazione dell’individuo è da vedersi, a nostro parere, come un tassello centrale nella sua weltanschauung, immensamente più importante della questione del razzismo che nella sua opera fu così marginale da essere quasi nulla. È lui stesso, d’altra parte, a esprimere a più riprese questa sua indisposizione con i suoi più intimi corrispondenti: in una lettera a Woodburn Harris scritta nel novembre 1929, ad esempio, si legge: 

[…] la civiltà delle macchine è inferiore alla nostra [cioè a quella tradizionale e rurale del New England, ndR] perché tramuta in virtù un insieme di valori assolutamente sterili — la velocità, la quantità, il lavoro fine a se stesso, la ricchezza materiale, l’ostentazione, ecc.: perché questa civiltà disprezza le relazioni che normalmente la memoria instaura con l’ambiente e le tradizioni, perché promuove l’omologazione a scapito dell’individualismo, e perché ha come effetto il circolo vizioso di un lavoro che non porta a niente se non al costante indebolimento dei naturali principi di qualità, intraprendenza, personalità, e del pieno sviluppo dello spirito umano verso una prospettiva di complessità che lo allontani dall’istintualità animalesca.

[5]

È chiaro, dunque, come per Lovecraft lo spettro della “regressione atavica” — influenzata dai romanzi di Arthur Machen — non sia certo da inquadrarsi nell’ambito di un supposto razzismo biologico nei confronti di qualsivoglia razza, ma piuttosto in connessione con un’abiura generale delle stesse caratteristiche — e, perché no, anche delle differenze (in questo dovrebbe vedersi un reale, sano e auspicabile multiculturalismo) — che ci rendono umani perché entità culturali, legati antropologicamente prima ancora che geograficamente a una terra e a una stirpe che condivide un’identità comune. E altrove osserva:

Questo sfondo di tradizioni su cui vanno misurati gli enti e gli eventi dell’esperienza è l’unica cosa che conferisca a tali enti ed eventi l’illusione di un significato, un valore, un interesse drammatico in un cosmo che alla radice è del tutto privo di scopo: per questo io pratico e prèdico un conservatorismo estremo nell’arte, nella società e nella politica, come unico modo per sfuggire all’ennui, alla disperazione e alla confusione di una lotta senza guida né regole in un caos non celato da veli.

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“R’lyeh”, di decepticoin [via DeviantArt]

Una Nuova Età Oscura

È certo che Lovecraft fosse politicamente un conservatore — sebbene negli ultimi anni di vita, dal 1932 in poi, come conferma la corrispondenza privata, virò sensibilmente verso posizioni socialiste — e dunque un “anti-democratico”. Questo termine che oggi può sembrare così terribile è, come abbiamo detto, da vedersi come strettamente connesso all’orrore che egli provava di fronte alla visione del terrificante futuro — la New Dark Age di cui si vaticina in The Call of Cthulhu (1926) — che in qualche modo era riuscito a vedere con largo anticipo:

[…] la meccanizzazione distrugge l’uomo e riduce la vita degli esseri umani a quella di automi meccanici e di semplici animali. Umanesimo e democrazia non posso coesistere. Democrazia significa decadenza: iil trionfo della macchina sull’individuo.

[7]

Anticipando in maniera sconcertante il mondo in cui oggi viviamo, Lovecraft aggiungeva:

Nel 2100 o 2200 A.D., la situazione sarà, in poche parole, questa: dominio diffuso della barbarie delle macchine, contraddistinta da lussi incredibili e dal predominio di una classe dirigente composta di individui assai intelligenti, allenati a ragionare in termini di denaro, quantità, velocità, profitto e lavoro fine a se stesso. Una tecnologia e una meccanizzazione così perfezionate che ci sarà un surplus di persone capaci in rapporto al numero di posti di responsabilità disponibili; una rimanenza di individui benestanti, abituati a pensare in modo così materialista che le tradizioni estetiche e intellettuali saranno per loro lettera morta. Una nuova aristocrazia, senza l’anima degli aristocratici.

[8]

In questo senso va dunque intesa la battaglia di Lovecraft contro il futuro e il suo conservatorismo più convinto, troppo spesso fatto passare da critici in mala fede per una presa di posizione degna di un bifolco redneck, incentrata sul razzismo e sulla diffidenza generale verso individui di altre etnie e culture. Invece al contrario la sua weltanschauung si manifesta talvolta, pur essendo un “semplice” scrittore di narrativa fantastica e dell’orrore, con analisi degne di un Nietzsche, di uno Jünger o di un Dávila, come per esempio quando in una lettera a Woodburn Harris del 1929 confessa: 

Riesco a sopportare la vita solo perché non mi lascio coinvolgere dalla civiltà delle macchine e rimango legato alle tradizioni del New England che l’hanno preceduta. È impossibile trovare qualcosa di positivo in questa età delle macchine che ci corrode come un cancro. Non è una vera civiltà e non presenta alcune delle caratteristiche che soddisfano una mente matura e pienamente sviluppata. È invece il tipico risultato di una mentalità e un’immaginazione rozze, e annichilisce col disprezzo, la derisione e l’indigenza qualsiasi tentativo del pensiero indipendente e del sentimento raffinato di innalzarsi sopra il suo sordido livello. Nasce da una mentalità squallida, ristretta, e si nutre del veleno della schiavitù industriale e del lusso materiale. […] Chi appoggia questa cultura non vive veramente, perché non sa come si vive. Passa tutto il suo tempo a inventarsi modi per proteggere la sua esistenza e renderla materialmente più confortevole, ma quando l’ha resa come desidera, non sa più che farsene.

[9]

Parole roventi e quantomai profetiche, che appaiono oggigiorno a dir poco illuminanti anche con riguardo ai sedicenti critici che considerano pericoloso leggere Lovecraft per le sue sbavature xenofobe, e del quale ignorano — o, forse, fanno finta di ignorare — il portato generale della sua intera concezione esistenziale, ivi compreso l’orrore sentito nel profondo per l’edificazione prossima futura di una Nuova Babele, destinata ad annichilire il pianeta intero con i suoi tentacoli cancerosi. E, forse ancora di più, la conseguente spersonalizzazione e standardizzazione totale dell’individuo, fagocitato nel calderone di un’umanità amorfa che di umano non ha più nulla, avendo abiurato ai suoi diritti più inalienabili senza nemmeno rendersene conto, troppo inebetita dagli slogan e dalle ingannevoli dicotomie e ormai preda dell’eterna dannazione cui conduce la desacralizzazione dell’esistenza e la dimenticanza delle tradizioni che, uniche, ci rendono veramente umani, in senso metafisico e metastorico oltre che strettamente biologico.

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Hieronymous Bosch, “Garden of Earthly Delights” (dettaglio)

Un nuovo oscurantismo culturale

Bisogna ammettere che Lovecraft vide veramente lontano, se già alla fine degli anni Venti vergava parole che potrebbero essere considerate paradigmatiche oggi, quasi un secolo dopo, con riguardo alle polemiche innalzate dalle Okorafor di turno nei confronti di autori che non riusciranno mai a comprendere a fondo, in virtù di meccanismi mentali pregiudiziali e perversi, non ultima la distinzione manicheista tra Bene e Male e la conseguente accusa di “eresia” elargita a chiunque esca anche solo parzialmente dai dogmi del XXI secolo, ormai elevati a nuove Tavole della Legge. Nello scritto del 1933 Lo sguardo di un profano sul governo, HPL — come nota Riccardo Rosati [10] — «fu capace di enucleare esattamente la malevola essenza del “politicamente corretto”, ridicolarizzandolo, nell’apostrofarlo come il mondo dei “circoli educati” (polite circles)»; e ancora prima, nella predetta lettera a Woodburn Harris, vaticinava:

Oggi possiamo osservarne solo i primi esiti, ma le aberrazioni peggiori di questo oscurantismo culturale andranno a detrimento delle generazioni future. […] penso che individui di abitudini riservate (come sono io) possano sempre tirare avanti seguendo la via tracciata dagli avi e condurre esistenze impreziosite da quella vita della mente che si fonda sulle tradizioni che abbiamo ereditato.

[11]

La concezione esistenziale di Lovecraft fu certamente “elitaria” e conservatrice, fondata sulla credenza che la storia della cultura umana sia da sempre appannaggio di una piccola minoranza di “eletti”; ma certo non si può, unicamente per questa sua opinione, accusarlo di razzismo o di apologia fascista. Le concezioni profonde che ne smossero i moti interiori non furono mai incentrate sul razzialismo e sul suprematismo, ma piuttosto su una concezione romantica e poetica del ruolo dell’artista, in opposizione a una società fagocitatrice che vorrebbe avere a disposizione come carne da macello un esercito industriale di lavoratori robotici a basso costo, ignari essi stessi di essere schiavi, che con la propria ignoranza e “bestialità” permettono al mostro tentacolare della Nuova Babele di estendere la propria rovinosa influenza sull’intero globo terracqueo. In una lettera a Morton dell’ottobre 1929 HPL scrive:

All’individuo che si piega alla volontà del gregge va tutto il mio disprezzo. […] L’unica cosa che conta è l’individuo — fiero, orgoglioso, distaccato, indipendente e dominante — ed è la società a essere al suo servizio, nella misura in cui gli consente di intensificare quei piaceri che egli può già gustare da solo. L’unico contributo che l’individuo deve alla società è quello finalizzato a renderla un background che più gli si addice — e a società diverse da quella in cui si è formato non deve assolutamente niente.

[12]

Per questo, secondo Lovecraft, l’indipendenza intellettuale dell’artista — come scrisse Baudelaire il poeta non appartiene a nessun partito; altrimenti sarebbe un uomo come gli altri [13] — è da considerarsi sacra, e forse mai come oggi è fondamentale sottolinearlo in maniera insindacabile, citando un ulteriore passaggio della summenzionata lettera a Woodburn Harris: 

Ogni vero artista che non si lasci omologare al sistema meccanizzato infonde nella sua opera un tocco di originalità, che in ultima analisi corrisponde al suo stile. […] L’unico aspetto che conta è la relazione tra la mente e i sentimenti dell’artista con lo schema e il processo della creazione. Finché saranno garantiti libertà di scelta, varietà nella creazione […] e possibilità di determinazione da parte dell’artista dell’indirizzo da assegnare alla sua opera, il processo rimarrà una forma convincente di espressione delle emozioni. Al contrario, quando l’artista verrà privato del controllo sull’opera e la sua forma; quando la necessità di uniformarsi a uno standard prefissato sostituirà l’indipendenza e la possibilità di variare le forme; quando le esigenze indiscriminate di rapidità e quantità andranno a scapito dell’antico equilibrio emotivo che consentiva la ricerca della perfezione formale, e introdurranno procedure nuove, estranee alla nostra tradizione; e quando persino la visione, o l’immaginazione, del risultato del suo lavoro saranno negati all’individuo, quasi fosse stato accecato, è facile intuire che non rimarrà nulla del genuino sentimento creativo, né della soddisfazione emotiva che ne nasce. La creazione di oggetti cesserà di essere un’arte, per diventare una scienza applicata. La tecnologia sostituirà la creatività. E alla fine l’artigiano si renderà conto di non essere più un creatore indipendente, ma di essere stato trasformato nell’ingranaggio di una macchina che produce routine, in uno schiavo della ripetizione e della standardizzazione, e finirà per condividere quella stessa insoddisfazione e coercizione che una volta compativa in chi fa la pulizie, spazza le strade, o lava i pavimenti.

[14]

L’avvento, in altre parole, di quello che gli antichi Purana indiani definirono la “dittatura degli Shudra”, vale a dire la classe servile, nel senso che lo stato di schiavo verrà esteso all’intera umanità nei giorni del Kali-Yuga, l’età oscura della tradizione induista, caratterizzata dalla desacralizzazione della vita in tutti i suoi aspetti e dall’erompere a livello collettivo delle pulsioni più basse e violente che nelle ere precedenti erano state tenute sotto controllo. Un’epoca terribile che avrebbe avvicinato la storia all’Armageddon finale e che ricorda da molto vicino la lovecraftiana New Dark Age, in cui gli uomini, sotto l’influsso dei “Grandi Antichi”, sarebbero diventati folli e avrebbero imparato a uccidere e a bestemmiare in migliaia di modi diversi.

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Per le ragioni che abbiamo detto — oggi come non mai, dal momento che, giorno dopo giorno, aumenta sempre più l’impressione di assistere a una vera e propria caccia alle streghe 2.0 —  è necessario sottolinearlo a gran voce, citando per un’ultima volta le parole, tratte da un’epistola a Robert Erwin Howard, del Sognatore di Providence, perché ci servano da monito: 

L’ultimo, irrinunciabile baluardo d’indipendenza individuale per il quale vale la pena lottare fino in fondo è la libertà di pensiero, opinione, ricerca, ed espressione artistica. 

[15]

Note:

[1] H.P. Lovecraft, L’orrore della realtà, a cura di G. De Turris e S. Fusco, Mediterranee, Roma 2007, p. 70

[2] H.P. Lovecraft, He, 1926

[3] Ivi

[4] Lovecraft, L’orrore della realtà, op. cit., p. 146

[5] Ivi, p. 172

[6] Ivi, p. 84

[7] Ivi, p. 188

[8] Ibidem

[9] Ivi, p. 130

[10] R. Rosati, Sul pensiero politico del Maestro di Providence, in «Studi Lovecraftiani», n. 17, anno XIV, Estate 2019

[11] Lovecraft, L’orrore della realtà, op. cit., p. 131

[12] Ivi, p. 159

[13] C. Asselineau, Charles Baudelaire. La vita, l’opera, il genio, Bietti, Milano 2016

[14] Lovecraft, L’orrore della realtà, op. cit., p. 135

[15] Ivi, p. 245

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