Il sacrificio di Isacco nell’iconografia ebraica

Attraverso l’episodio biblico dell’Akedah, meglio noto col nome di “Sacrificio di Isacco”, il ciclo pittorico della sinagoga di Dura Europos testimonia di una lotta identitaria intercorsa fra la cultura pagana e quella ebraica. Il brano di Genesi XXII, inoltre, getta luce su alcune istanze riguardanti la fondazione del Tempio di Gerusalemme, e sui sacrifici che venivano tributati al suo interno.

di Lorenzo Orazi

Copertina: David Teniers il giovane, Abraham’s Sacrifice of Isaac, 1655

Introduzione

L’episodio biblico narrato in Genesi 22, 1:18 è tra i passaggi più enigmatici dell’Antico Testamento, capace di generare una letteratura critica pressoché sterminata. Non solo testi post-biblici, scritti della letteratura rabbinica e dei padri della chiesa, Targum e Midrash, ma vedremo che all’interno della Bibbia stessa è possibile ravvisare una prima elaborazione dell’episodio. È certo che il tema dell’obbedienza di Abramo, alla divinità che lo chiama per nome, ha da sempre rivestito un ruolo preponderante nella lettura dell’episodio. Eppure la narrazione presenta una complessità di sfaccettature, di risvolti e dettagli, di questioni linguistiche e strutturali, da darci l’impressione di un’impossibilità ad esaurire tutte le questioni che essa espone.

Nella religione ebraica il brano assume il nome di “Akedaht Itzahk”, o “Legatura di Isacco”. Esso fa riferimento al Korban Tamid, il sacrificio di un capo di bestiame, spesso un ariete, tributato presso il Tempio nell’antico Israele. Vedremo più avanti come, nell’esegesi rabbinica e non solo, venga proposta una diretta discendenza tra Genesi XXII e il culto praticato nel Tempio. Nella religione Cristiana, d’altro canto, il nome più noto di “Sacrificio di Isacco” tradisce da subito il metodo della lettura tipologica, ovvero la prassi interpretativa privilegiata dai padri della chiesa secondo cui l’Antico Testamento costituirebbe la prefigurazione del Nuovo, che vede quindi nella narrazione un simbolo del sacrificio di Cristo.

L’articolo qui proposto è l’estratto di una tesi triennale con la quale si è tentato di comprendere le immagini prodotte da ebraismo e cristianesimo in riferimento a Genesi 22, 1:18. Si è trattato di disegnare una mappa dei temi preponderanti, e delle modalità in cui questi sono stati elaborati nella tradizione esegetica. Nello specifico del capitolo selezionato, passeremo in rassegna le circostanze del ritrovamento della Sinagoga di Dura Europos (Fig. 1,2) e forniremo una panoramica sul ciclo dei dipinti rinvenuti al suo interno. La disamina si concentrerà quindi sul pannello raffigurante l’Akedah e sulle interpretazioni proposte dagli studiosi ai fini della sua lettura.

Alcuni sostengono che la rappresentazione intenda esaltare il carattere redentivo dell’ariete, la liberazione di Isacco avvenuta per suo tramite. Altri, diversamente, suggeriscono che l’immagine sia emblematica delle dinamiche culturali che hanno luogo nella città di Dura Europos, dove una molteplicità di religioni convivono e ciascuna di esse lotta per affermare la propria identità sulle altre. Infine, il tema iconografico del tempio, scaturito da una delle interpretazioni prese in considerazione, verrà analizzato più approfonditamente.

1. Panoramica delle pareti Ovest e Nord della sinagoga di Dura Europos

Sinagoga di Dura Europos

La città che ospita la Sinagoga di Dura Europos fu fondata da Seleuco I attorno al 300 a.C.; conquistata dai Parti, divenne un importante luogo di scambi commerciali fra mondo orientale e occidentale. Nel secondo secolo d.C. finì sotto il dominio dei Romani, quindi venne distrutta dai Persiani attorno al 256. Nel 1932 lo studioso Michael Rostovtzeff, e una squadra della Yale University da lui diretta, scavando sotto il terrapieno delle mura che proteggevano la città dall’area desertica a sud, portarono alla luce una casa privata, costruita nei primi anni del terzo secolo e trasformata molto presto, probabilmente attorno al 232, in un luogo di culto cristiano [1].

Gli scavi proseguirono e, qualche mese dopo, ancora in prossimità delle mura di cinta, venne rinvenuto un altro edificio di cui, attraverso le iscrizioni e le rappresentazioni scoperte al suo interno, sancirono l’origine ebraica. Alla spedizione non fu possibile restaurare e preservare debitamente la sinagoga in situ; i dipinti furono quindi staccati e il processo di restauro ebbe luogo nel Museo nazionale di Damasco, dove tutt’oggi si trovano.

Solo dieci anni dopo la trasformazione della casa privata in sinagoga, ovvero nel 255/6, i Romani coprirono l’edificio per costruire una linea di fortificazione, a scopo di difesa contro i Persiani. Tale circostanza fortuita ha fatto sì che il prezioso ciclo pittorico di Dura Europos giungesse fino a noi. La cinta muraria fu la protezione indispensabile alla conservazione dell’edificio. I dipinti (Fig. 1, 2), a tempera su intonaco asciutto, raffigurano su tre registri scene bibliche il cui significato complessivo è ancora oggetto di dibattito, e poggiano su di uno zoccolo decorato con clipei, animali e finti marmi. La parete ad est è particolarmente danneggiata, non è possibile suggerire a quale episodio biblico faccia riferimento se non in via di ipotesi. Nel primo livello della parete nord è rappresentata la visione di Ezechiele e la conseguente resurrezione dei morti.

2. Schema generale delle scene rappresentate

Proseguendo verso sinistra, sulla parete ovest, si trova il salvataggio di Mose dal Nilo da parte della figlia del Faraone; di seguito l’unzione di Davide per mano di Samuele. Siamo al nucleo della parete ovest: l’Arca della Torah è sovrastata dall’episodio di Genesi 22; più in alto, due scene particolarmente danneggiate lasciano forti dubbi alle interpretazioni. La prima mostra due figure distese su dei divani: una è circondata da dodici figure, l’altra da due soltanto. Rostovtzeff [2] ipotizza si possa trattare di due versioni di Giacobbe: nel primo caso circondato dai dodici figli, nel secondo mentre benedice Efraim e Manasse. Sopra alla scena di Giacobbe un uomo siede su di un trono, forse il Re Davide circondato da una schiera di servitori. Intorno al nucleo centrale particolarmente danneggiato, stanno quattro personaggi, ciascuno isolato nella propria cornice. Si tratta di quattro momenti fondamentali della vita di Mosè: Mosè e il roveto ardente, Mosè sul Sinai, Mosè che legge i rotoli della Legge, e Mosè dopo la sua morte, circondato dal sole, la luna e le stelle.

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Tornando al primo livello, superata la nicchia della Torah, si trova la rappresentazione di Re Ahasueros e di Mardocheo, trionfante su un cavallo bianco. L’ultima scena del muro ovest e le due sopravvissute del muro sud illustrano episodi della vita di Elia: prima con la vedova di Sarepta, quindi sul Monte Carmelo in due differenti episodi. Oltre queste scene il muro a sud è fortemente danneggiato e non offre che lacerti pittorici.

Nel secondo registro, ripartendo dalla parete a nord, si trova la cattura dell’Arca della Torah per mezzo dei filistei, avvenuta nella battaglia di Eben Ezer. Nella scena seguente, prima cornice della parete ovest, l’Arca viene portata nel tempio di Dogon, per essere quindi riconquistata dagli Ebrei che la riconducono al loro tempio. Oltre il nucleo centrale, sempre sul secondo livello della parete ovest, si trova la scena di Aronne nel Tempio e, di seguito, Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Della parete a sud non restano che frammenti. Il terzo livello è quello più danneggiato: illeggibile a nord e a sud, conserva dei frammenti nella parete ovest. Oltre alla scena del personaggio in trono precedentemente analizzata, sopravvive un’immagine raffigurante la traversata del Mar Rosso.

Fornita una descrizione generale dell’impianto pittorico, ci è ora possibile analizzare con maggiore attenzione l’immagine che fa riferimento a Genesi 22. La rappresentazione dell’Akedah (Fig. 3) è ospitata, come abbiamo avuto modo di constatare, nell’arco che sovrasta l’edicola della Torah, ossia l’Arca Santa. Si tratta del luogo principale di tutta la sinagoga. Posta al centro della parete ovest, orientata verso Gerusalemme, è la direzione in cui i fedeli rivolgono le loro preghiere. L’immagine fu realizzata in un primo momento decorativo della struttura, e ne è la sola testimonianza sopravvissuta. In origine dominavano i motivi ornamentali, mentre le rappresentazioni di animali e uomini erano escluse; l’episodio dell’Akedah costituiva un unicum. Può aiutare a comprenderne l’importanza sapere che, del ciclo precedente, esso è l’unico mantenuto e mai modificato.

3. Nicchia della Torah e pannello dell’Akedah

Nella zona sinistra campeggiano i simboli delle Sukkot (nota anche con i nomi di Festa delle Capanne o Festa del Tabernacolo). Si tratta della menorah, ovvero la lampada a sette bracci; lo iulav, un ramo di palma; e l’etrog, un cedro. Nella zona centrale è rappresentato il tempio e sulla destra l’Akedah. Nel primo piano si trova un ariete in prossimità di una pianta: la posizione preponderante evidenzia l’importanza che l’artista intendeva accordare alla figura. È lecito supporre che il testo di riferimento fosse quello ebraico in cui, a differenza del LXX, viene specificato che l’animale si trovava alle spalle di Abramo [3].

Il patriarca, visto di schiena, solleva la mano destra e impugna un coltello; Isacco è accovacciato sull’altare; sopra di lui appare la mano di Dio e, al fianco di questa, è raffigurata una tenda che ospita una piccola figura, interpretata a seconda dei casi come un servo di Abramo, Ismaele, Sarah o Abramo stesso. Il modo in cui le tre figure umane sono rappresentate testimonia un certo imbarazzo nella trattazione di un simile soggetto; si sarà notato, infatti, che nessuno dei tre volti ci viene mostrato. Se, come abbiamo visto, l’episodio figurativo costituisce un’eccezione del primo periodo pittorico della struttura; è altrettanto vero che non ci si è ancora liberati dal timore che, attraverso la rappresentazione dell’uomo, si possa cadere nel peccato di idolatria, trasgredendo così la legge riportata in Esodo 20,2-17.

Secondo l’interpretazione di Ruth A. Clemens [4], l’immagine nel complesso pone l’accento sulla liberazione di Isacco. La studiosa ipotizza una struttura narrativa interna che si dipana dal fondo, dove la figura nella tenda starebbe a ricordare l’episodio di Genesi 18. Esso narra di Abramo che, seduto all’ingresso della sua tenda, alza gli occhi e scorge tre uomini: Dio è venuto a comunicargli la prossima nascita di Isacco, attraverso il quale dovrà scaturire la sua discendenza. Proseguendo, Clemens individua nella parte centrale della scena il momento di crisi della promessa; ovvero quando, in prossimità del sacrificio, sembra che il patto stia per infrangersi. Infine, il valore centrale affidato all’ariete certifica il compimento dell’alleanza, che avviene per mezzo della sua sostituzione ad Isacco.

La lettura di Clemens, sebbene abbia la capacità di fornire delle motivazioni plausibili alla peculiare composizione dell’immagine, e sia inoltre l’unica a giustificare la presenza della tenda e della misteriosa figura sulla soglia, sembra però mancare di qualcosa. L’autrice, infatti, decide di svincolarsi non solo dal contesto pittorico generale della sinagoga, ma anche dal pannello stesso in cui la scena dell’Akedah è ospitata; in quanto non tiene conto, né fornisce spiegazioni, dell’immagine del tempio, in primis, ma nemmeno dei simboli delle Sukkot.

4. Aronne nel Tempio

Ebraismo e paganesimo

Jas Elsner [5], attraverso un’interpretazione capace di tenere insieme la complessità dell’impianto pittorico, cerca di tracciare una mappa dei suoi motivi unitari, fino a collegarlo con la realtà culturale della città di Dura Europos. L’autore ritiene di individuare nel ciclo una forte ricorrenza di tematiche antipagane e, di conseguenza, di un’esaltazione del credo religioso ebraico. Questo fenomeno va fatto risalire alla pluralità di culti tipica del mondo greco-romano, dove ciascuna religione intraprendeva dinamiche di autodefinizione identitaria. Le decorazioni degli spazi sacri non sfuggono a questo meccanismo: modalità del sacrificio, vestiario, rituali, tutto ciò che distingue un culto dall’altro viene utilizzato come affermazione del proprio credo.

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Nello specifico della sinagoga di Dura Europos [6], ciò si manifesta tanto nell’enfasi e nei plurimi esempi di rappresentazione del tempio, degli oggetti rituali e dell’Arca dell’Alleanza; quanto nelle scene di sacrificio che l’edificio ospita. Per quanto riguarda il primo punto, l’autore prende in considerazione l’immagine di Aronne nel Tempio (Fig. 4), scena anche nota con il nome di “Consacrazione del Tabernacolo”, e quella immediatamente alla sua sinistra, ovvero l’immagine di Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia, collocate nella parete ovest, alla sinistra dell’Arca della Torah. Sono immagini in cui viene data particolare rilevanza al luogo di culto, agli oggetti rituali e dove si narrano le vicende di importanti padri della fede.

Risponde a queste scene un’immagine posta sulla destra dello scrigno della Torah, collocata, in maniera speculare ad esse, sul lato opposto della parete, dove è rappresentata l’Arca dell’Alleanza nel tempio di Dogon. La scena viene introdotta all’angolo della parete nord con la Battaglia di Eben Ezer che, sviluppandosi da destra verso sinistra come la stessa scrittura ebraica, conduce fino all’episodio che più ci interessa. Nella battaglia i filistei vincono sugli ebrei, e sottraggono al nemico l’Arca per portarla nel tempio di Dogon (Fig. 5); tuttavia, una volta arrivata nel tempio pagano, l’Arca causa la caduta e la distruzione della statua del Dio. Infine, vediamo l’Arca intraprende il viaggio su di un carro, trainato da una coppia di buoi, per fare ritorno al tempio ebraico.

5. L’Arca della Torah nel Tempio di Dogon

Elsner ritiene che in queste immagini si configuri un’aspra critica alla religione pagana. Se negli episodi di Aronne e di Mosè viene proposta un’esaltazione dell’ebraismo, dei suoi oggetti di culto, dei patriarchi e del tempio; nella scena del Tempio di Dogon vediamo il luogo pagano ridotto in frantumi, il suo idolo distrutto e le suppellettili cultuali sparpagliate al suolo. Per quanto riguarda le scene di sacrificio, Elsner prende in considerazione i due dipinti del primo livello del muro a sud, e la stessa scena dell’Akedah. Nell’immagine di sinistra della coppia (Fig. 6), il sacerdote di Baal fallisce nel tentativo di invocare il fuoco che avrebbe dovuto ardere il bue posto sull’altare. Nella nicchia al centro dell’altare sta Hiel. Costui, secondo la leggenda ebraica, tentò di accendere il fuoco manualmente, ma fu ucciso da un serpente inviato dal Signore.

Nell’immagine di destra (Fig. 7), Elia è in prossimità di un altare sul monte Carmelo e invoca il fuoco dal Paradiso, mentre quattro giovani portano anfore piene d’acqua per rendere il miracolo più arduo da attuarsi. Secondo Elsner, per decifrare il programma pittorico della sinagoga, e il significato di queste due scene in particolare, è fondamentale porle in relazione al pannello che ospita la raffigurazione di Genesi XXII. Qui, di nuovo, viene esaltata l’importanza del tempio. Accompagnati alla sua figura, troviamo, inoltre, il Menorah e gli oggetti della Sukka. Ma ciò che più conta, secondo Elsner, è il ripudio del sacrificio umano che l’Akedah presuppone. Se nelle due scene della parete sud viene mostrato il successo di Elia nel portare a compimento il rito sacrificale, a dispetto del sacerdote pagano di Baal che, incapace a invocare il fuoco sacro, non riesce nel suo scopo; l’affresco dell’Akedah sancisce un definitivo allontanamento della religione ebraica dal sacrificio umano. Attraverso l’imposizione della volontà divina, che provvede a sostituire un ariete ad Isacco, il sacrificio può consumarsi in una dichiarata separazione dal culto antico.

Le ricerca di Elsner può essere considerata un’eco, nonché l’applicazione al campo del figurativo, del saggio apripista di Shalom Spiegel [7], risalente al 1967, nel quale l’autore indaga le sopravvivenze del pagano all’interno della tradizione ebraica. Analizzando il passo in cui il midrash di Rabbi Yudan (un testo di esegesi biblica) tratta di Genesi 22, Spiegel ritiene di scorgervi la persistenza di una formula di carattere antico. La supplica viene fatta pronunciare a Rabbi Benaiah, e ci informa sull’idea del sacrificio di sostituzione:

“Master of the whole universe, behold, I am slaughtering the ram; do Thou regard this as though my son Isaac is slain before Thee [..]”

6. Il profeta di Baal fallisce nel tentativo di invocare il fuoco divino

Essa apparterrebbe a un momento storico lontano da quello in cui scrive il rabbino, quando era in atto la transizione dal sacrificio umano a quello animale. Spiegel sostiene che la supplica potrebbe risalire a tre steli votive ritrovate in Algeria, appartenenti al periodo compreso tra la fine del II e inizio del III secolo a.C., lo stesso in cui visse Rabbi Benaiah. La formula aveva la funzione di una supplica solenne, proclamata al fine di placare la divinità, chiedendole di accettare la sostituzione con favore: l’anima dell’agnello per l’anima dell’uomo, il sangue dell’agnello per il sangue dell’uomo. Spiegel ritiene che, all’epoca del midrash di Rabbi Yudan, l’eredità pagana non era ancora stata dimenticata. Solo con uno sviluppo graduale l’influenza di quelle leggi si addolcirà, e le nuove generazioni impareranno a sostituire all’uomo un animale, senza più temere di aver praticato un sacrificio imperfetto. Le righe con cui l’autore conclude l’analisi meritano di essere citate per intero:

“It may well be that in the narrative of the ram which Abraham sacrificed as a burnt offering in place of his son, there is historical remembrance of the transition to animal sacrifice from human sacrifice a religious and moral achievement which in the folk memory was associated with Abraham’s name, the father of the new faith and the first of the upright in the Lord’s Way. And quite possibly the primary purpose of the Akedah story may have been only this: to attach to a real pillar of the folk and a revered reputation the new norm – abolish human sacrifice, substitute animals instead.” [8]

Spiegel, in un secondo momento, ritorna sul tema dell’incontro fra paganesimo e ebraismo. Si tratta della cerimonia del Rosh Hashana, il capodanno religioso ebraico noto anche come “Giorno del ricordo”. È il tempo in cui Dio procede alla consultazione della storia dell’umanità, al fine di decidere chi sarà degno di perdono e chi no. A seguito dei dieci giorni penitenziali, culminanti nel Yom Kippur, viene suonato lo Shofar, ovvero il corno dell’ariete [9]. Tale pratica affonda le sue origini in culti antichi collegati alla nascita della luna nuova, quando il suono del corno doveva servire ad allontanare da essa le forze maligne. Nel culto ebraico, il suono dello Shofar viene liberato della sua matrice pagana ed acquisisce un nuovo significato: secondo la Torah, esso ha il compito di ricordare dinanzi a Dio l’Akedah, e invocare così misericordia per il giorno del giudizio.

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7. Elia sul Monte Carmelo

Il Tempio

Abbiamo visto che l’unità rinvenuta da Elsner si dà come il bisogno della comunità ebraica di tracciare il proprio ritratto. In tale processo acquisisce un valore centrale la raffigurazione del tempio; soffermiamoci dunque per qualche istante su questo tema iconografico e sul suo rapporto con l’episodio di Genesi XXII. Nel Testo Masoterico, al versetto 2 del brano narrante l’Akedah, Dio ordina ad Abramo di dirigersi verso il territorio di Moria per attuare il sacrificio. All’interno del testo biblico, solo in un altro passaggio viene fatta menzione dello stesso monte. Si tratta di 2Cron.3,1, dove si afferma che Salomone costruì il tempio proprio sul Moria. Anche il Libro dei Giubilei [10] (18,13), indica il luogo a cui Abramo e suo figlio sono condotti come il Monte Sion, altro nome di Moria.

Tale circostanza, oltre a dimostrare che l’episodio dell’Akedah è sottoposto a una lettura critica all’interno della Bibbia stessa, sancisce la volontà degli autori di stabilire un legame fra l’Akedah e il principale luogo di culto della religione ebraica. Va ricordato che il tempio era lo scenario in cui il Korban Tamid, ossia l’offerta quotidiana di un capo di bestiame, veniva praticata. Diverse fonti stanno a testimoniare l’impegno dei padri della religione ebraica per tracciare una discendenza del Korban Tamid dal sacrificio originario insegnato da Abramo [11].

Il significato e l’effettiva posizione geografica di Moria divenne oggetto di numerose speculazioni da parte dei rabbini. Generalmente si ritiene che il nome derivi dal termine ebraico לראות†, ossia “vedere”. Il topos della visione resta centrale in buona parte dei testi esegetici, che si basano sul v. 22.14, comunemente tradotto con “Sul monte il Signore provvede” o, nel caso della Septuaginta, “sul monte il Signore fu visto” [12]. Sul monte del tempio il Signore è particolarmente presente in quanto il popolo di Israele vi offre il Korban Tamid. Nell’Antico Testamento sono due i luoghi privilegiati per la manifestazione di Dio: in primis il Sinai (Esodo 34 9-11; 1Re 19 9-18), e secondariamente Gerusalemme (2Sam. 24 15-17; Isa. 6.1 ; Ps. XlVIII, esp. vv. 5.8 [heb. 6,9]). Dal momento che Genesi XXII parla di un luogo all’interno del territorio centrale di Israele (tre giorni di viaggio da Beersheba), si può supporre che è proprio a Gerusalemme che un ebreo di quel periodo avrebbe spontaneamente pensato [13].

Nei Targum, traduzioni in aramaico della Bibbia Ebraica, si asserisce che la visione di Abramo giustificò il luogo della costruzione del tempio sul Monte Moria. Lo Pseudo-Jonathan, ad esempio, chiama il posto in cui Isacco fu legato come “monte del culto” [14]. Ancora, sul tema della visione, va infine ricordato che Spiegel considera necessario relazionare l’affermazione “sul monte il Signore provvede” (v. 22.14) al sopraggiungere dell’ariete: il Signore provvede a trovare un sostituto per l’offerta, come, d’altro canto, veniva già predetto da Abramo all’interrogazione del figlio (v. 8). È in virtù di tale sostituzione che si stabilisce una discendenza tra il luogo di Genesi XXII e il Tempio di Gerusalemme [15].


Note:

[1] Rostovtzeff M. (1938); Dura-Europos and its art; Oxford, Clarendon Press, Great Britain 1938; pp. 158-162

[2] Ivi, p. 168-170

[3] Kessler E. (2004), Bound by the Bible: Jews, Christian and the Sacrifice of Isaac, University of Cambridge; p. 165

[4] Clements R. A. (2007) The parallel lives of early jewish and christian texts and art: the case of Isaac the Martyr; in New approaches to the study of biblical interpretation in judaism of the Second Temple Period and in Early Christianity; Proceedings of the eleventh international symposium of the Orion Center for the study of the Dead Sea Scrolls and associated literature; Edited by: Gary A. Anderson, Ruth A. Clements and David Satran; Brill, Leida/boston, 2013; pp.225

[5] Elsner J. (2001), Cultural Resistance and the Visual Image: The Case of Dura Europos; Classical Philology, Vol. 96, No. 3 (Jul., 2001), pp. 269-304; Published by: The University of Chicago Press 2001

[6] Ivi, p. 181

[7] Spiegel S. (1967), The last trial: on the legends and lore to the command to Abraham to offer Isaac as a sacrifice; Jewish lights publishing 2007, pp. 61-68

[8] Ivi, p. 63

[9] Ivi, p. 74-76

[10] The book of Jubilees; Society for Promoting Christian Knowledge, London, 1917; Trad. Eng. Charles R.H.

[11] Fitzmyer J. A. (2002), The sacrifice of Isaac in Qumran literature; Biblica, Vol. 83, No. 2 (2002), pp. 211-229; Published by: Peeters Publishers; p. 215

[12] Op. Cit. Kessler E. (2004); pp. 87

[13] Moberly R. W. L., The Earliest Commentary on the Akedah; Vetus Testamentum, Vol. 38, Fasc. 3 (Jul., 1988), pp. 302- 323; Brill; pp. 6-7

[14] Op. cit. Kessler E. (2004), Bound by the bible: Jews, Christian and the Sacrifice of Isaac; p. 87

[15] Op. cit. Spiegel S. (1967), The last trial: on the legends and lore to the command to Abraham to offer Isaac as a sacrifice; pp. 67

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