“Nulla è per noi la morte”: le radici del pensiero di Epicuro

Nella sua scuola filosofica, fondata su intensi legami di amicizia e rivolta all’autentico piacere, Epicuro ha ricercato l’imperturbabilità. Ripercorriamo le radici del suo pensiero, ereditate qualche secolo dopo da Lucrezio a Roma.

di Lorenzo
Pennacchi

Non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso
brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono
il fiero valore dell’animo, così che volle
infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo.

[1]

Tito Lucrezio Caro vive tra gli anni Novanta e gli anni Cinquanta del I secolo a. C. Della sua vita quasi nulla è noto, anche se una serie di fonti permettono di collocare la morte tra il 55 e il 50 intorno all’età di quarantaquattro anni [2]. Lucrezio è ricordato soprattutto per il De rerum natura, un poema didascalico in sei libri, scritto in esametri dattilici, che rinvia al Perì phýseos (Sulla natura) di Epicuro. Significativa risulta la dedica a un certo Memmio, presumibilmente quel Lucio Memmio pretore della provincia Bitinia-Ponto nel 58, a dimostrazione della necessità di protezione istituzionale ricercata dal poeta.  

Secondo alcuni studiosi l’opera di Lucrezio non sarebbe altro che una trascrizione in lingua latina e in forma poetica di quella epicurea. Questa considerazione si inserisce nella concezione generale per cui la filosofia romana andrebbe considerata solamente come ricettiva di quella greca, priva dunque di qualsiasi originalità sistematica. Secondo la professoressa Therese Fuhrer questo totale appiattimento è quanto mai fuorviante: «Se nel confronto con i presocratici Lucrezio senza dubbio si rifà ad Epicuro, la polemica implicita ma evidente contro gli stoici porta al di là del modello» [3]. Eppure è innegabile che, sebbene nel poema vadano rintracciate varie influenze (dalla resa poetica di contenuti naturalistici di Empedocle alla forma dell’esametro latinizzato di Ennio), il riferimento all’epicureismo è costante. Non a caso «Lucrezio motiva la forma poetica ricorrendo alla metafora di una coppa ricoperta di miele, nella quale si porge agli uomini, tormentati dalle loro paure, una medicina amara ma efficace, la dottrina epicurea» [4]. A più riprese il poeta considera Epicuro il suo maestro, il liberatore del mondo dalla superstizione e dalle false paure: 

E dunque purificò i cuori con veritiere parole, 
e stabilì un termine alla cupidigia e al timore,
ed espose quale fosse il sommo bene cui tutti tendiamo,
e mostrò la via per la quale con breve sentiero
possiamo giungere a esso con diretto percorso. 

[5]

Epicuro nasce sull’isola di Samo, colonia militare di Atene, nel 341 a. C. Visita Atene in più circostanze, prima di trasferirvisi nel 307, acquistando una casa con un grande giardino recintato poco fuori le mura della città. La sua scuola filosofica, spesso denominata il Giardino, attrae rapidamente un gran numero di seguaci che stringono tra loro intensi legami di amicizia, accettando anche donne e schiavi in nome dell’edonismo ampiamente professato. Fin dai suoi contemporanei e per i secoli successivi questi elementi vengono rivolti a più riprese contro il maestro, accusato di dissolutezza e smodatezza dai suoi avversari. All’inizio del III secolo d. C., nella monumentale opera intitolata Vite dei filosofi, Diogene Laerzio riporta le accuse di Timocrate, ex membro del Giardino, per cui Epicuro «rigettava due volte al giorno per eccessi di cibo […] ignorava molte cose concernenti la logica e molte di più concernenti la vita. Le condizioni del suo fisico erano pietose, tanto da non riuscire, per molti anni, ad alzarsi dalla portantina» [6]. Dal canto suo lo storico, che a Epicuro dedica l’intero libro X e in più occasioni è stato accostato alla dottrina epicurea, respinge seccamente le accuse dei detrattori: 

Costoro però sono fuori di senno. Il nostro uomo, infatti, ha sufficienti testimoni della sua insuperabile buona disposizione nei confronti di tutti, sia della patria che lo onorò con effigi di bronzo, sia degli amici, che erano così in grande numero che potrebbero essere contati neppure sommando gli abitanti di intere città.

[7]

Come sottolinea il professore Keimpe Algra, l’eccezionalità di Epicuro sembrerebbe confermata dal fatto che, dopo la sua morte, sia venerato «nell’ambito della scuola come un dio o un eroe, in considerazione sia del suo perfetto stile di vita, sia del fatto che si riteneva avesse liberato l’umanità da diverse delle sue paure esistenziali, rivelando la vera struttura dell’universo» [8]. Questo carattere liberatorio non deve però trarre in inganno, facendo passare l’epicureismo come una sorta di pseudo-religione irrazionale. Algra precisa puntualmente tale aspetto: 

Non si può dire che Epicuro abbia scelto il sistema che scelse proprio in quanto esso avrebbe avuto un effetto liberatorio: al contrario, con i suoi seguaci egli credeva fermamente che il suo sistema potesse avere tale effetto liberatorio proprio perché ogni singolo aspetto della dottrina poteva essere convalidato e infine provato sulla base delle regole della sua epistemologia.  

[9]

Del resto l’epicureismo è una delle principali filosofie ellenistiche, l’epoca inaugurata dalla morte di Alessandro Magno nel 323 a. C. e caratterizzata da una diffusa ansia esistenziale, ma non per questo in discontinuità con i secoli precedenti, al contrario di quanto troppo spesso viene sostenuto. Per gli epicurei, così come per gli stoici, i platonici, gli aristotelici e in misura minore gli scettici e i cinici loro contemporanei, la filosofia viene concepita come un percorso continuo verso la saggezza da praticare in gruppo. Ognuna di queste scuole sviluppa una propria dottrina, un atteggiamento interiore fondamentale, un certo modo di parlare e degli esercizi spirituali da perseguire con costanza al fine di vivere in connessione con sé stessi e con il cosmo. In questo senso la filosofia ellenistica si afferma come arte della vita (téchne tou bíou), all’interno della quale la teoria trova la completa realizzazione nella pratica quotidiana. Per tale ragione, anche se lo stoicismo e l’epicureismo sostengono la divisione del discorso filosofico in tre parti – la logica, la fisica e l’etica –, la filosofia in sé ha una dimensione organicistica e una portata ben più ampia, come sottolinea il filosofo francese Pierre Hadot

La filosofia stessa, e cioè il modo di vivere filosofico, non è più una teoria divisa in parti, ma un atto unico che consiste nel vivere la logica, la fisica e l’etica. Allora non si fa più la teoria della logica, ossia del ben parlare e del ben pensare, ma si pensa e si parla bene, non si fa più la teoria del mondo fisico, ma si contempla il cosmo, non si fa più la teoria dell’azione morale, ma si agisce in maniera retta e giusta. 

[10]

La vocazione pratica della filosofia viene ereditata dai romani, che però la declinano in maniera differente, condividendola non più in comunità chiuse di seguaci, ma utilizzandola generalmente per affermarsi all’interno della società. Lo scetticismo accademico di Cicerone e lo stoicismo di Seneca e Marco Aurelio sono esempi lampanti in questo senso, mentre Lucrezio è l’unico tra i grandi filosofi romani a non imporsi come figura di spicco della scena politica del suo tempo. Del resto come rimarca Fuhrer: 

Molto della dottrina epicurea contraddiceva le concezioni della classe dirigente romana: l’idea che gli dèi fossero distanti dagli uomini, che non pretendessero né preghiere né offerte e che la loro volontà non si lasciasse afferrare mediante pratiche divinatorie, oppure l’idea che la partecipazione alla vita pubblica fosse cosa da sciocchi, difficilmente potevano accordarsi con esperienze caratterizzate dalla religione di stato e con le ambizioni orientate al cursus honorum di un senatore romano

[11]
Tito Lucrezio Caro 

In assoluta continuità con il maestro il De rerum natura ripercorre la dottrina epicurea nella sua interezza, esponendone in maniera sistematica la fisica, la logica (definita canonica) e conseguenzialmente l’etica. Eppure i sei libri dell’opera possono essere suddivisi in tre coppie che non rispecchiano la classica tripartizione ellenistica: la prima coppia presenta la dottrina atomistica, la seconda la concezione antropologica e la terza l’ordine cosmogonico. Si tratta di una distinzione orientativa, visto che vari elementi si sovrappongono e ritornano più volte nel testo, frutto di un disegno prestabilito dall’autore, a cui però probabilmente è mancata l’ultima revisione. In questo senso gli elementi problematici possono assumere funzionalità inaspettate: «Alle ripetizioni può essere attribuita una motivazione didattica, alle questioni aperte e alla problematica conclusione può essere assegnata la funzione di una sollecitazione intellettuale» [12]

Le filosofie ellenistiche iniziano la loro riflessione dalla fisica, si muovono grazie alla logica e giungono all’etica, in un percorso a spirale in cui le parti sono strettamente interconnesse. L’indissolubilità del legame si riscontra soprattutto nello stoicismo, dove la logica ha la funzione critica dei principi morali e la fisica vale come sostegno dell’etica, che è il vero fine del filosofare [13]. Nell’epicureismo il rapporto sussiste, anche se in forma lievemente depotenziata. Se per gli stoici, infatti, la fisica e l’etica sono due facce della stessa medaglia, per Epicuro «la fisica offre soltanto un contesto non rigoroso e fondamentalmente negativo per l’etica attraverso la liberazione da alcune delle nostre paure esistenziali» [14]. Ma si tratta comunque di un contesto imprescindibile. 

Per tale ragione la trattazione lucreziana prende le mosse dalla dottrina atomistica del maestro, che a sua volta l’aveva ereditata dai presocratici Leucippo e Democrito, all’interno di una concezione fortemente materialistica della realtà espressa nell’Epistola a Erodoto. Per Epicuro «tutto ciò che è reale deve essere in grado di agire o di subire un’azione» [15], e questa capacità è propria esclusivamente dei corpi, mentre l’unica entità incorporea esistente è il vuoto. Del resto l’universo è da sempre (e per sempre sarà) costituito dagli stessi due elementi: il vuoto, ovvero lo spazio (la natura intangibile) che non è in grado di agire o di subire un’azione, e gli atomi, intesi come le particelle fondamentali dei corpi percettibili. Pur essendo indivisibili fisicamente, gli atomi differiscono per forma e dimensioni, e quindi possono essere divisi concettualmente a seconda della rispettiva grandezza e se ne possono riconoscere le parti minime. Gli atomi si muovono continuamente tutti alla stessa rapida velocità, seguendo un percorso naturale in linea retta (presumibilmente dall’alto verso il basso), soggetto a deviazioni spontanee. Questo mutamento casuale, definito da Lucrezio clinamen, permette agli atomi (primordia rerum) di disgregarsi e aggregarsi nuovamente in forma nuova «e sperimentare tutto ciò che possono produrre con l’incessante combinarsi fra loro» [16]. Di conseguenza:

Un corpo composto è un aggregato di atomi che si muovono in modo tale da poter restare insieme almeno per qualche tempo. Durante quel lasso di tempo, i corpi composti rilasciano continuamente dalla loro superficie immagini atomiche (eidola), ma sono continuamente riforniti da atomi isolati che li raggiungono dall’esterno.

[17]

Le caratteristiche delle particelle non coincidono interamente con quelle dei loro composti. I corpi si muovono a velocità ridotta rispetto agli atomi (che si scontrano all’interno dell’insieme) e possiedono altre proprietà oltre quelle essenziali di peso, dimensione, forma e resistenza. La nozione di eidola è di estremo interesse, in quanto collega direttamente la fisica all’epistemologia. Epicuro limita la logica a ciò che chiama canonica, ovvero la disciplina epistemologica che si occupa del criterio della verità (o canone), rifiutandone invece la dialettica. In questo senso, isolando i criteri incontrovertibili per convalidare le affermazioni sul mondo esterno, la logica è considerata il fondamento metodologico della fisica. 

Epicuro

All’inizio dell’Epistola a Erodoto vengono individuati tre criteri di verità sui quali fondare la conoscenza. Più che sulle apprensioni immediate dell’intelletto e le affezioni (di piacere e dolore) esistenti negli esseri umani, il filosofo si concentra sulle percezioni degli organi di senso. Secondo Epicuro, così come per altri pensatori antichi, la principale forma di sensazione è la vista: «La percezione visiva ha luogo mediante sottili strati di atomi che vengono emessi in un flusso costante da ogni oggetto del mondo esterno e che egli chiama immagini» [18]. Queste immagini sono proprio gli eidola che trasmettono continuamente agli occhi umani le forme dei corpi da cui provengono, come si legge nell’Epistola:

Il flusso della superficie dei corpi è continuo, anche se non si intravede diminuzione degli stessi corpi, poiché altre particelle riempiono i posti lasciati vacanti. E questo flusso mantiene la posizione e l’ordine degli atomi del corpo solido da cui provengono per molto tempo, anche se qualche volta il flusso può subire disordine.

[19]

In quanto impressioni di oggetti esterni, ogni percezione (visiva) è indubitabile, anche se alcune percezioni possono essere più chiare di altre, come dimostrato dagli esempi della bacchetta e della torre [20]. Continua Epicuro: «La falsità e l’errore, invece, risiedono sempre nell’aggiungersi dell’opinione a ciò che attende di essere confermato o non smentito, mentre poi, di fatto, non viene confermato oppure viene smentito» [21].  Nel processo conoscitivo, dunque, il falso fa il suo ingresso nel momento in cui si giudicano in maniera razionale gli oggetti, dopo essere stati percepiti (correttamente) attraverso i sensi. Nel quarto libro del De rerum natura Lucrezio riprende a piene mani l’epistemologia sensista del maestro, riconoscendo attendibilità alla percezione umana, stimolata dagli eidola (da lui definiti simulacra), e fallibilità all’intelletto

Ma cosa si deve ritenere fornito di maggiore certezza
che il senso? Forse la ragione nata da un senso fallace
varrà a contestare i sensi, essa che ha origine tutta dai sensi?
Se questi non sono veritieri, anche la ragione diviene tutta mendace. 

[22]

Questa digressione dal mondo fisico alla sfera logica è esemplificativa delle interconnessioni interne all’epicureismo (e in generale alle filosofie ellenistiche), che non si esauriscono certo qui. Tornando alla natura degli atomi occorre sottolineare come il loro numero sia infinito, così come infinito è lo spazio (o vuoto) e di conseguenza tutto l’universo. Oltre a essere materialistico, Algra sottolinea come il sistema di Epicuro: 

Può anche essere qualificato come meccanicistico, il nostro modo moderno per dire che esso spiega tutto ciò che accade nell’universo ricorrendo ai movimenti ciechi e senza guida di particelle inanimate di materia. Ne risulta un universo, quello epicureo, privo di un disegno: qualunque forma di ordine è temporanea e in ultima istanza fortuita

[23]

La fisica epicurea è caratterizzata dai processi di generazione e corruzione, secondo i quali «nulla nasce dal nulla» e «nulla finisce nel nulla» [24] e per cui tutto ciò che accade può essere ricondotto ai principi di causalità materiale (gli atomi), mentre sono da escludere tutti i tentativi di spiegazione che si rifanno a ragioni miracolose o divine. Verso la fine della Lettera a Erodoto si legge: «Anche per quanto concerne i fenomeni celesti, movimento, solstizio, eclissi, levata e tramonto e i fenomeni simili a questi, bisogna pensare che avvengano senza che qualcuno li governi e li ordini o li abbia predisposti e che, nello stesso tempo, questo qualcuno goda di ogni beatitudine, unita all’incorruttibilità» [25]. Da questo passo emergono due elementi fondamentali. Il primo è che anche i fenomeni celesti, così come quelli terrestri, derivano dal movimento vorticoso degli atomi. Epicuro si sofferma su questo aspetto nel paragrafo successivo e lo approfondisce nell’Epistola a Pitocle, incentrata su temi meteorologici e astrologici, in diverse parti: 

Il sole e la luna e gli altri corpi celesti, non erano prima indipendenti e poi sono stati annessi a questo mondo, bensì fin dalle origini furono plasmati e ricevettero accrescimento, grazie alle aggregazioni e ai movimenti vorticosi di alcune sostanze costituite da particelle sottili, o di genere ventoso, o infuocato, o di entrambi: infatti è la sensazione a suggerire queste cose

[26]

Il secondo elemento è quello relativo agli dèi, che sono riconosciuti come esistenti ma non cause dei fenomeni celesti. Nell’ultima delle tre lettere conservate da Diogene Laerzio e a noi pervenute, l’Epistola a Meneceo, Epicuro amplia la prospettiva al suo allievo: 

Per prima cosa considera la divinità come un vivente immortale e beato, secondo quanto suggerisce la comune nozione del divino, e non attribuire ad essa niente che sia estraneo all’immortalità o inappropriato alla beatitudine; riguardo ad essa pensa invece tutto ciò che è capace di preservare la beatitudine congiunta all’immortalità. Gli dèi infatti esistono: evidente è infatti la cognizione che si ha di essi; non esistono piuttosto nella maniera in cui li credono i più.  

[27]

Nell’Epistola a Meneceo Epicuro delinea la sua dottrina etica, attraverso l’esposizione del cosiddetto quadrifarmaco. La pratica filosofica permette di affrontare le quattro grandi paure che attanagliano la mente degli uomini al fine di raggiungere l’autentica felicità, rappresentata dall’assenza di turbamento (ataraxia). La ricerca etica si pone dunque in piena continuità con l’impostazione logica e la concezione fisica espressa nell’Epistola a Pitocle, dove viene riconosciuto come «bisogna ritenere che il fine da raggiungere con la conoscenza dei fenomeni celesti, sia trattato insieme con altre questioni sia isolatamente, non è altro se non l’imperturbabilità e la salda convinzione, come del resto questo vale anche per gli altri studi» [28].

In primo luogo il filosofo indica all’allievo di non temere gli dèi proprio perché, pur esistendo, non si curano delle sorti umane. Le divinità possono fungere da modelli sempiterni di imperturbabilità, da cui non ci si aspetta un intervento attivo sul mondo. Di conseguenza, come rimarca Algra: «I riti religiosi dovrebbero acquistare la forma di una meditazione sull’esistenza beata degli dèi, che deve aiutarci ad imitarli» [29]. Anche in questo caso la posizione del maestro viene ereditata da Lucrezio. Non a caso il De rerum natura, che in più parti respinge la spiegazione degli eventi naturali mediante l’intervento divino, si apre retoricamente con un inno a Venere, la divinità generatrice di vita e il simbolo del culto tradizionale romano: 

Poiché tu solamente governi la natura delle cose,
e nulla senza di te può sorgere alle divine regioni della luce,
nulla senza te prodursi lieto e di amabile,
desidero di averti compagna nello scrivere i versi
che intendo comporre sulla natura di tutte le cose

[30]

La seconda preoccupazione da ignorare per Epicuro è la morte, visto che il male e il bene derivano solo dalle sensazioni che si provano nel corso della vita. Si legge nell’Epistola a Meneceo

Abituati a pensare che nulla è per noi la morte […] Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere. […] Il più terribile dei mali, dunque, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non ci siamo. 

[31]

Similmente a questi due elementi il filosofo, quale medico dell’anima, prescrive di non farsi turbare né dalla forza del destino (che non dipende dalle proprie azioni), né dalla paura del dolore. Attraverso la filosofia, praticata in gruppo e alimentata da sinceri legami di amicizia, gli esseri umani possono essere felici, raggiungendo il loro fine naturale come riconosciuto anche da molti altri pensatori dell’antichità. Per Epicuro la felicità (eudaimonia) coincide con il piacere (hedoné), che è il principio del vivere beatamente, ma non deve essere assolutamente ridotto al mero edonismo. Nell’epicureismo possono essere distinti i piaceri cinetici o in movimento, ovvero relativi ai sensi, da quelli catastematici o statici, che consistono nell’assenza di dolore e paura. Come sottolinea Enrico Berti: «Epicuro, a dire il vero, non disprezza i primi, ma preferisce largamente i secondi e in questi soltanto ripone la felicità. Siamo dunque di fronte a una concezione essenzialmente negativa della felicità, intesa non più come attività, come voleva Aristotele, ma come assenza di turbamento, cioè come quiete, serenità» [32]. 

A ogni modo non tutti i piaceri, per quanto congeniali agli uomini, sono da scegliere sempre. Tale scelta deve essere guidata dalla saggezza pratica (phronesis), da cui provengono tutte le altre virtù (coraggio, bellezza e giustizia) e che è in grado di determinare non una somma quantitativa dei singoli piaceri, ma un aumento qualitativo del piacere. Specifica Epicuro: 

Non bevute e feste continue, né i godimenti di fanciulli e di donne, né di pesci né di quante altre cose offre una lauta mensa genera vita piacevole, ma il ragionamento sobrio che indaghi le cause di ogni atto di scelta e di ripulsa, che scacci le false opinioni dalle quali nasce quel grandissimo turbamento che prende le anime. 

[33]

Anima umana che, tanto per Epicuro quanto per Lucrezio, è corporea e composta di atomi come tutto il resto. Nel De rerum natura la paura della morte viene scongiurata proprio partendo da questo presupposto: «Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale» [34]. Come il maestro anche Lucrezio fa derivare dalla sua concezione del mondo un’etica rivolta al presente, incentrata sull’aumento qualitativo del piacere a scapito del dolore e finalizzata al raggiungimento dell’atarassia. Una vita filosofica modellata sull’esempio di colui che ha sfidato la superstizione e con la saggezza pratica derivata dalla ragione si è spinto «oltre le mura fiammeggianti del mondo» [35]

O misere menti degli uomini, o animi ciechi!
In quale tenebrosa esistenza e fra quanti grandi pericoli
si trascorre questa breve vita! Come non vedere
che null’altro la natura ci chiede con grida imperiose,
se non che il corpo sia esente dal dolore, e nell’anima goda
d’un senso gioioso sgombra d’affanni e timori?
[…] Infatti come i fanciulli nelle tenebre temono
e hanno paura di tutto, così nella luce noi talvolta
temiamo cose che non sono affatto più spaventose
di quelle che i fanciulli paventano nelle tenebre immaginandole imminenti.
È dunque necessario che questo terrore dell’animo e queste tenebre
siano dissipate non dai raggi del sole né dai fulgidi dardi  
del giorno, bensì dall’evidenza della dottrina naturale.   

[36]

Note:

[1] Il riferimento è a Epicuro. Lucrezio, La natura delle cose, I vv. 68-71, BUR Rizzoli, Milano 2021,p. 77.

[2] Cfr. Therese Fuhrer, La filosofia a Roma, in Lorenzo Perilli e Daniela P. Taormina (a cura di), La filosofia antica. Itinerario storico e testuale, UTET, Novara 2012, p.426.

[3] Ivi, p. 425.

[4] Ivi, p. 426. 

[5] Lucrezio, La natura delle cose, VI vv. 24-28, p. 535. 

[6] Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Libro X, Bompiani,Milano 2005, p. 1167. 

[7] Ivi, p. 1169. 

[8] Keimpe Algra, La filosofia ellenistica, in Perilli e Taormina, La filosofia antica, p. 314. 

[9] Ibidem. 

[10] Pierre Hadot, La filosofia come maniera di vivere, in Esercizi spirituali e filosofia antica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2005, p. 158.

[11] Fuhrer, La filosofia a Roma, p. 420. 

[12] Ivi, p. 427. 

[13] Cfr: Roberto Radice, Stoicismo, Editrice La Scuola, Brescia 2012, p. 20. 

[14] Algra, La filosofia ellenistica, p. 337. 

[15] Ivi, p. 320. 

[16] Lucrezio, La natura delle cose, V vv. 190-191, p. 439.

[17] Algra, La filosofia ellenistica, p. 323. 

[18] Ivi, p. 315. 

[19] Epicuro, Epistola a Erodoto, in Diogene Laerzio, Vite e dottrine, p. 1205.

[20] Riprendendo un antico dibattito, la percezione di una bacchetta dritta come dritta quando è in aria e quella della stessa bacchetta dritta come piegata quando è per metà immersa nell’acqua sono entrambe ugualmente vere. Vale lo stesso per le percezioni di una torre quadrata come quadrata o rotonda a seconda della distanza da cui la si guarda. Cfr: Algra, La filosofia ellenistica, p. 315.

[21] Epicuro, Epistola a Erodoto, p. 1207. 

[22] Lucrezio, La natura delle cose, IV vv. 482-485, p. 365. 

[23] Algra, La filosofia ellenistica, p. 320. 

[24] Cfr: Epicuro, Epistola a Erodoto, p. 1197. 

[25] Ivi, p. 1229. 

[26] Epicuro, Epistola a Pitocle, in Diogene Laerzio, Vite e dottrine, pp. 1241-1243.  

[27] Epicuro, Epistola a Meneceo, in I filosofi parlano di felicità, a cura di Fulvia de Luise e Giuseppe Farinetti, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2014, p. 95. 

[28] Epicuro, Epistola a Pitocle, pp. 1237-1239. 

[29] Algra, La filosofia ellenistica, p. 334.

[30] Lucrezio, La natura delle cose, I vv. 21-25, p. 71.

[31] Epicuro, Epistola a Meneceo, p. 95. 

[32] Enrico Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Editori Laterza, Bari 2007, p. 288. 

[33] Epicuro, Lettera a Meneceo, p. 97.                              

[34] Lucrezio, La natura delle cose, III vv. 830-831, p. 307. 

[35] Ivi, I v. 73, p. 77. 

[36] Ivi, II vv. 14-19 e 55-61, pp. 159-163. 

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